L’ultimo giorno del 2021 Rafael Nadal ha annunciato la propria partecipazione agli Australian Open. Lo ha fatto postando una propria foto sul campo di Melbourne e la caption “Non ditelo a nessuno”. La sua presenza non era affatto scontata. Dieci giorni prima aveva partecipato all’esibizione di Abu Dhabi, perdendo contro Shapovalov e Murray. Era sembrato in cattiva forma, una versione ridotta di sé stesso. Nadal in cattiva forma è un memento mori: un corpo eccezionale improvvisamente fragile, incapace di sopportare il peso degli anni, come quello di Micky Rourke in The Wrestler. «Non posso assicurare al 100% che ci sarò agli Australian Open» aveva detto ai microfoni.
Quando annuncia la sua presenza, allora, sembra fare un favore più al tennis che a sé stesso, il nonno che fa ancora lavorare le macerie del proprio corpo per garantire un futuro ai nipoti. I nipoti, in questo caso, sono i tennisti rimasti in un tabellone privo di Djokovic, i tennisti che cercano di trovare la propria identità all’ombra storica dei big-3, che Fabio Severo in un vecchio pezzo aveva definito: «Figli che continuano a rimanere a casa da mantenuti, abitano in una casa acquistata e arredata da altri, giocatori al vertice senza infamia e senza lode, bizzarro ibrido di eccellenza e assoluta medietà». Oppure Nadal, come un vecchio lupo del rock, infilato a forza nella programmazione di un festival musicale contemporaneo per solleticare l’interesse di un pubblico anziano, che non vuole arrendersi alla fine della propria epoca.
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Eravamo felici, ma nessuno si aspettava molto più di una semplice presenza, qualche dritto vintage, qualche "vamos" col bicipite mostrato al pubblico; specie in una parte del tabellone occupata da Zverev e teoricamente Djokovic. Nessuno si aspettava davvero che avrebbe potuto vincere, a fari spenti e con gli arti malandati, il suo ventunesimo Slam, quello che lo issa in cima alla classifica dei tennisti più vincenti di tutti i tempi. In una lotta che ultimamente era sembrata una banale sceneggiatura a due fra il buono e il cattivo, fra il santo assente cioè, Roger Federer, e l’antipapa Novak Djokovic, in lotta perenne col mondo.
Nadal si era presentato al torneo con una conferenza in cui aveva scritto la riga finale alla vicenda squallida della squalifica di Nole: «Nessuno è più grande del tennis» aveva detto, con nobile senso delle istituzioni e una punta di moralismo tipica del suo personaggio. E non sapevamo che stava per aggiungere un’altra decorazione maestosa alla cattedrale costruita dai big-3 negli ultimi vent’anni, una delle più inattese, una delle più magiche.
Non giocava da sei mesi, ma a Nadal bastano anche solo i residui di sé stesso per farsi largo nella prima settimana di uno Slam. Il suo lazo di dritto è tornato a roteare sopra la testa e ha continuato a fare quello che fa da tutta la seconda parte della sua carriera: girare attorno ai limiti del proprio corpo, chiedere di più ai colpi di cui non aveva bisogno quando poteva dominare tutti a forza di corse esplosive e dritti supersonici. Il servizio, quindi, veloce ed efficace sin dal primo turno. Ha avuto mediamente il 10% in più di servizi senza risposta rispetto a un anno fa. E poi la risposta, giocata sempre vicino alla riga, come non è mai stato veramente abituato a fare. Immaginando un tennis più veloce, all’antitesi della sua figura storica, Nadal si è spinto fino ai quarti, dove ha trovato il regalo dell’eliminazione di Alexander Zverev.
Contro Shapovalov è andato molto vicino a perdere, e infine ha vinto in cinque set. Ma non è stata una grande vittoria, somigliava più all’autosabotaggio di un avversario troppo carino per essere anche vincente. Contro Berrettini ha sfruttato un matchup molto favorevole sul piano tattico, e un avvio di partita scarico dell’italiano. Una vittoria di esperienza, forse ottenuta ancora prima di scendere in campo. Non erano vittorie che fugavano completamente i dubbi: per qualcuno Nadal non era comunque Nadal, e i suoi successi tardi erano soprattutto l’ennesima dimostrazione dell’inconsistenza delle nuove generazioni.
In finale, però, avrebbe trovato Daniil Medvedev, che oggi è l’orizzonte di realtà più duro su cui scontrarsi. Un uomo ritrovatosi nella posizione di guastafeste dei traguardi leggendari dei big-3, e singolarmente a suo agio nel dispiacere tutti. I bookmakers davano a Rafa poco più del 30% di possibilità di riuscire a vincere, e di solito i bookmakers hanno ragione.
Nadal e Medvedev sono due dei tennisti più tattici del circuito. La cerebralità delle loro poche sfide è rimasta nascosta dietro la scorza di scambi lunghi e di un contrasto di stili straniante. Possiedono un gioco peculiare, ma così diverso che sembrano aver imparato i colpi su due pianeti diversi. Medvedev ha giocato contro Nadal la prima finale Slam della sua carriera, agli US Open del 2019. Aveva perso in cinque set dopo averne rimontati due, facendo sudare Rafa molto più del previsto. Da quel momento è diventato grande, e ha acquisito una consapevolezza mentale che in questo torneo ha sfiorato il misticismo di Djokovic.
Anche lui è andato vicino a perdere contro un canadese ai quarti, Felix Auger-Aliassime. Quando Medvedev non gioca bene il suo talento ci sembra per riflesso un’illusione. Sembrava essersi messo tutto storto e remissivo dietro la linea di fondo ad aspettare la sconfitta. Sotto di due set a zero, surclassato da tutti i lati dal suo avversario, non pareva poterne uscire, «Non sapevo davvero cosa fare. In realtà non so se alla gente piacerà, ma mi sono detto ‘cosa farebbe Novak?» una provocazione che ha attirato i fischi del pubblico, che ha bevuto e trasformato in benzina. In questo torneo è sembrato avere un bisogno particolare di crogiolarsi nell’odio altrui, di creare un caos emotivo da cui uscire più in controllo di tutti. Se Djokovic era stato deportato in Serbia, quindi, il suo spirito continuava a infestare Melbourne nel corpo storto di Daniil Medvedev, che vinceva partite che doveva perdere e nel frattempo litigava con pubblico, avversari e arbitri.
Contro Tsitsipas, suo nemico giurato, aveva strillato l’arbitro con una violenza eccessiva: «Suo padre parla a ogni punto. Se non chiami il coaching sei una femminuccia», usando l’espressione small cat per intendere femminuccia: «how to say, small cat». Una raffinatezza un po’ volgare e un po’ buffa molto da Medvedev, una persona da cui non sai mai cosa aspettarti. Mezzo manipolatore, mezzo showman.
Se Djokovic è odiato dal pubblico, Medvedev sembra odiare il pubblico. C’è una bella differenza.
Una tesi, però, era che Medvedev cercasse di creare questo caos emotivo per nascondere i propri problemi tennistici. Non stava giocando bene: il servizio era meno consistente del solito, il dritto non filava e le sue partite erano diventate stranamente faticose. Contro il serve&volley ostinato di Maxime Cressy si era ritrovato a ululare “this is so boring” come un lupo alla luna; in semifinale aveva aspettato con pazienza che Tsitsipas si battesse da solo. Sembrava poter vincere per inerzia, come fanno i grandi campioni che si aggirano per i campi preceduti dal loro odore.
Per i primi due set contro Nadal, però, ha giocato il miglior tennis del torneo. Nadal, consapevole della propria inferiorità nello scambio di potenza da fondo campo, ha provato a mescolare le carte il più possibile: variazioni di effetti e altezze, una ricerca esasperata del cross corto sul rovescio di Medvedev. Ma tutte quelle variazioni parevano fare il solletico al russo, infrangibile nello scambio da fondo campo, devastante dal lato del rovescio: capace di trovare il vincente a qualsiasi altezza, con qualsiasi angolo. Nel primo set ha infilato il break decisivo con un game giocato in maniera sovrannaturale: un passante sghembo vincente (che sarà una tortura cinese per Rafa), recuperi in tergicristallo, scatti in avanti con palla messa sulla riga. Un capolavoro di difesa. La differenza di energie era malinconica, tra Rafa che lascia la scia di sudore in campo come una lumaca, e Medvedev dall’altra parte che si muove con leggerezza impossibile per il suo corpo di quasi due metri.
È stato doloroso da guardare, soprattutto il secondo set, in cui Rafa ha dato tutto e non è stato abbastanza. Un set lungo 84 minuti, su cui Nadal pareva intenzionato a lasciare sul campo la propria salma pur di uscire vincitore, conscio che forse era la sua ultima opportunità. Più si sarebbe allungata la partita, più le sue possibilità erano remote: le possibilità di un tennista di 36 anni con migliaia di partite giocate sulle gambe (1240, per l’esattezza).
Per vincere uno scambio Nadal doveva tirare fuori questo tipo di invenzioni impossibili. Forse il colpo più bello del torneo.
Che Nadal è, quello che cerca di schivare la sofferenza sul campo? Che vuole rallentare invece che accelerare, avere punti facili, consapevole del mismatch atletico impostogli dal tempo? Un Nadal senile, la negazione incarnata del proprio archetipo: il toro scalpitante, il ragazzo tutto muscoli che con la sua energia sembra pronto a dare fuoco al mondo. Ora invece, davanti ai nostri occhi, un Nadal fragile, stanco, attentissimo a non usare troppe energie, come gli anziani con problemi cardiaci. Nadal che non è il più solido in campo, che non può appoggiarsi in maniera indefinita alla propria resistenza. Rafa che non è il migliore nella manovra di potenza da fondo campo. Rafa, allora, che deve giocare nelle pieghe e nelle zone d’ombra del tennis, e che fatalmente cade nei bivi decisivi perché una frazione di tempo e di spazio in ritardo. Il dritto non gli dà più punti facili, le prime in campo sono poco più del 50%. Perde il tiebreak del secondo facendosi rimontare un vantaggio di 5-3. Subisce i passanti di Medvedev e mette su una faccia delusa verso Carlos Moya, che dietro la mascherina pare più giovane di lui.
Nadal che a 18 anni avrebbe dovuto ritirarsi per un problema congenito al piede; che dopo i primi successi si portava dietro uno scetticismo duro a morire. Vince solo sulla terra, dicevano i puristi. È dopato, i complottisti. Arriverà al massimo a 23 anni, poi si romperà tutto, suggerivano gli ortopedici da tastiera sui forum. Ma quest’ultima tesi non era poi così assurda: per mostrarci il suo tennis allucinato Nadal ha dovuto contorcere il suo corpo in angoli innaturali e anti-fisici. Lo ha costretto per anni alla ripetizione estenuata di movimenti logoranti, che hanno consumato le sue ginocchia e il suo piede malato un pezzetto alla volta. Già dieci anni fa circolavano voci di ritiro, accompagnate da servizi giornalistici con le tinte oscure delle cartelle cliniche.
Già da ragazzo Nadal ha preso l’abitudine di sparire qualche mese per mettere le ossa a maggese; poi tornava con la faccia sempre un po’ più smagrita, gli occhi da capibara più tristi, i capelli più radi. Giocava sul dolore e attraverso il dolore, il tennis come una penitenza da scontare nel tergicristallo difensivo, nel topspin impazzito a più di tremila giri, tirato gridando con la bocca contorta di un quadro di Goya. Piegare la realtà al suo volere diventava sempre più difficile. Pian piano assumeva le sembianze del martire, Rafa Nadal, e ci stava benissimo. Il suo tennis sporco di terra rossa, nato nel solco ideologico di Bruguera, è stato sempre epica, etica, pathos.
Alla fine del secondo set, però, il tennis sembrava uno sport semplicemente troppo duro anche per lui. Il senso di invulnerabilità difensiva che aveva imposto agli altri per più di un decennio, ora, glielo stava rigirando contro il suo avversario, con un sadismo tutto suo. Sembrava sempre in ritardo sulla palla, Medvedev, salvo poi arrivarci con un pezzetto supplementare della racchetta, un ultimo guizzo, le palle si inarcavano su angoli sempre stretti e beffardi. Nel settimo gioco del terzo set, mentre serviva per andare tre pari, Nadal si è ritrovato sotto 0-40. Si è messo al servizio mettendo in moto il suo vastissimo apparato di tic, e dopo aver tracciato una sorta di segno della croce intorno alla faccia col polsino, ne è uscito con un paio di soluzioni estemporanee, una palla corta ben giocata e una ben recuperata. Un lottatore, sì, ma un lottatore in affanno.
L'ultima volta che aveva recuperato una partita da due set a zero era il 2007, poteva riuscirci quindici anni dopo? Dopo il secondo set la vittoria di Medvedev era quotata 1,04.
Poi però è successo l’imprevisto, e una partita dura ma dall’esito scontato si è trasformata in un caleidoscopio di epica e stranezza. Medvedev in quel momento, forse, ha sottovalutato Nadal: per due set si era affidato alla sua solidità difensiva nello scambio da fondo, e nel terzo ha ricominciato a correre e a tirare aspettando che le energie di Rafa si spegnessero poco a poco. Ma non è successo: il vecchio ha recuperato le forze, il giovane le ha perse. Nadal ha aggiustato in parte la sua strategia, non c’era più da andare per il sottile con le variazioni: niente scambi lunghi, tirare. Il servizio è migliorato, le accelerazioni di dritto sono tornate. Quando il dritto torna, Rafa torna. Un recupero alla volta, a Medvedev è sfuggito il controllo della partita, su tutti i livelli, tattico, psicologico, fisico. Un pubblico indisciplinato (ben oltre l’accettabile) ha iniziato a tifargli contro in modo spudorato, lui non è rimasto impermeabile, tra sorrisi e applausi sarcastici. In un altro cambio di campo memorabile, stufo dell’azione di disturbo del pubblico, sbraita verso l’arbitro: «Devi fare qualcosa in più, siamo in una finale Slam. Devi fare più di “per favore”, con gli idioti “per favore” non basta».
A un certo punto si è ritrovato le gambe di marmo. Aveva corso troppo, tutte quelle variazioni e quel tergicristallo lo avevano schiantato. Giocare contro Rafa Nadal, o contro Djokovic, specie nelle partite tre su cinque, richiede un dispendio di energie che per noi è difficile da capire.
Mentre le gambe non lo seguivano più, le sue traiettorie si accorciavano, allora Rafa girava attorno al dritto e comandava. Mentre Medvedev si sentiva stanco, vedeva l’altro salire in cattedra. Una delle sensazioni più disperanti su un campo da tennis. Doveva fare qualcosa: essere più aggressivo, prendere il controllo. Medvedev però non è mai stato troppo brillante nel torneo, probabilmente aveva cattive sensazioni sul dritto. In più, forse, temeva la partita a scacchi contro Rafa. Per questo aveva impostato una partita difensiva: forse si era detto di giocare semplice, che l’avversario alla lunga avrebbe ceduto. Era troppo tardi per riuscire a cambiare strategia. «Mai sottovalutare un campione» ha detto Roger Federer con un post a fine partita, con una frase alla Rocky Balboa. «Volevo solo continuare a crederci fino alla fine. Darmi un’opportunità. Ecco cosa ho fatto, ho lottato alla ricerca di una soluzione», dirà Rafa.
Medvedev, e noi tutti che lo davamo per spacciato, avevamo ancora una volta sottovalutato Rafael Nadal. Mentre vinceva il terzo set, e andava avanti nel quarto, ci chiedevamo quando sarebbe arrivato, il suo crollo, sottovalutandolo ancora. Il quarto set assume i ritmi spossati di un quinto, la stessa drammaticità irrazionale e logora. I servizi ballerini generano una catena di punteggio imprevedibile. Vincere un turno di risposta diventa più semplice che vincerne uno al servizio. Medvedev si fida meno degli scambi lunghi e comincia a fare cose strane. Ha un repertorio limitato di colpi e il suo tennis diventa solo intricato e confuso.
Nel quinto la partita è ancora più confusa e illeggibile. Medvedev, spalle al muro, trova energie nascoste, ma è sempre rapsodico. A quel punto è impossibile capire chi vincerà. In ogni punto uno sembra avere più possibilità dell’altro, e ci siamo ritrovati di fronte a una verità stupida del tennis: che non sappiamo niente di come circolano le energie in una partita, su quanto la testa, le gambe e i colpi siano in connessione reciproca. Quello che rimane in superficie sono frazioni di secondo disperse nell’aria, qualche smorfia e colpi buffi. Tutto però può cambiare: non esiste stanchezza irreversibile. E questo è uno degli aspetti che rende una partita di tennis una parabola morale particolarmente spendibile. Proprio mentre Medvedev prova l’affondo finale, Nadal torna a sfoderare l’ampiezza del suo repertorio. Con ritmi più bassi, Nadal ha più armi: palle corte, discese a rete, accelerazioni improvvise, con dei rovesci lungolinea che col passare dei game diventano il colpo chiave della partita.
Persino Nadal ha il braccino, quando deve servire per il match. Perde il servizio, pensa: «Cazzo, perderò come nel 2012 e come nel 2017. Ma continuerà a lottare. Posso perdere, lui può vincere, ma non mollo». Non molla: ritrova la forza di fare il break e chiudere nel proprio turno di servizio con una volée di rovescio lungolinea. La racchetta che cade, lui immobile, la faccia ridotta a un teschio di sorpresa e felicità mentre guarda al proprio angolo, e può concedersi il lusso di guardarsi da fuori attraverso le facce di Carlos Moya, Marcos Lopez, Sebastià Nadal. Un trentacinquenne che vince gli Australian Open dopo un lungo periodo di inattività, e che non crede a sé stesso, a chi vi fa pensare?
I paragoni con la vittoria di Federer in Australia 2017 sono suggestivi ma impropri. Non c’è un’impresa migliore dell’altra, ma c'è il rischio di sottrarre la carica strettamente nadalesca di questo successo. Federer arrivava dalla prima grossa operazione della sua vita, ma la pausa forzata lo aveva ricaricato; Nadal arrivava indossando una sequenza di infortuni e problemi fisici interminabile. «Non sapete quanto ho dovuto lottare per essere qui». Il modo in cui ha superato ancora e ancora i propri limiti, attraverso il dolore e la fatica, è un’incarnazione così pura dello sport da essere a tratti abbagliante. Di tanti sportivi si dice che "hanno dato tutto", ma ieri Nadal ha portato il concetto su un livello così primitivo da descrivere la potenza stessa dell'essere umano. La grandezza di queste imprese ci fa pensare che non lo facciano per loro, ma per noi. E dal nostro punto di vista è stato impossibile non tifare Nadal, e non sperare che quel corpo martoriato tornasse a brillare come quando eravamo tutti più giovani di quindici anni. «Un mese e mezzo fa vi avrei detto che questo è il mio ultimo Australian Open, ma ora non saprei» ha detto Rafa ai microfoni. «Mesi fa scherzavamo sul fatto che eravamo tutti e due sulle stampelle» ha scritto Roger Federer, nel finale smielato della commedia romantica che tutti odiamo ma che tutti amiamo.
Nel clima di giubilo, Medvedev è rimasto in un angolo arrabbiato. In un discorso di cattivo gusto durante la premiazione, una delle organizzatrici ha detto che «Anche stavolta Daniil ha provato a impedire un traguardo storico» e lui, alle spalle, sussurrava «boring, boring, boring». Ha preso il microfono e, da artista della provocazione, mentre sembrava infine fare il solito ringraziamento di rito al pubblico, ha ringraziato un’altra volta il suo team. Il preludio di una conferenza stampa bizzarra, un po’ infantile, ma che ci restituisce forse la misura della sua amarezza dopo una sconfitta tremenda maturata nella felicità collettiva: «Oggi è uno di quei giorni in cui un ragazzo smette di sognare. (…) D’ora in poi giocherò per me stesso, per la mia famiglia, per le persone che credono in me».
Di Djokovic, Medvedev, non pare aver ereditato solo il talento difensivo, la spigolosità, la forza mentale, ma anche l’incapacità di accettare l’amore incondizionato riservato a Federer e Nadal. Un clima ieri esasperato da un pubblico incapace di restare dentro dei confini civili. Le parole di Medvedev però non nascono solo dall'amarezza della sconfitta di ieri: è un senso di ostilità che ha accumulato in questi anni in cui ha forse sentito poco riconosciuta la titanica impresa di insediare l'egemonia dei big-3. Odiavamo Djokovic perché aveva rovinato la narrazione del Fedal, e ora odiamo Medvedev perché rischia di rovinare la narrazione dei big-3?
Nello spogliatoio Nadal ha disteso il corpo a terra, circondato dalla sua squadra come in un dipinto rinascimentale. Si è concesso qualche attimo di riposo, la pace dolce di quei momenti, prima di salire sulla cyclette per dare sollievo ai muscoli senza farli smettere di lavorare, facendoli soffrire ancora un poco.