C'è un passaggio della telefonata di Claudio Lotito a Pino Iodice che è rimasto schiacciato dal dibattito su Carpi e Frosinone e dall'atteggiamento da bullo del patron laziale. È quando parla di soldi da trovare e di come trovarli per la Lega Pro: «Ho un programma: in sei mesi incrementerò i ricavi, porterò uno sponsor al campionato e i soldi dello streaming. Ho parlato con quello che ha portato 1,2 miliardi alla Lega di A e 14 milioni in più di Rcs alla Figc».
“Quello che ha portato” i soldi è Infront, il colosso svizzero che del calcio italiano ha in mano quasi tutto: gestisce i diritti tv, è advisor commerciale di Lega e Figc e controlla, attraverso la somma tra diritti tv e partnership commerciali, quasi l'intero fatturato di società come Milan, Inter, Lazio, Genoa, Sampdoria, Udinese, Cagliari e Palermo. E, grazie alla sua influenza sulle società, ha anche orientato le elezioni in Lega nel 2012 e l'elezione di Tavecchio ad agosto del 2014.
Perché Lotito parla a nome di Infront
Lotito dice di poter portare soldi in sei mesi perché ha parlato con Infront, mostrando un rapporto diretto che era praticamente pubblico, ma non ancora esibito come prova muscolare. Lui è il grande tessitore delle maggioranze in Lega e Figc, create proprio nel nome del denaro: ha con sé tutte le società più piccole e quelle che, a un certo punto, hanno aumentato la loro dipendenza da un'azienda esterna che porti soldi, essendosi trovate prive del salvadanaio del padrone o svuotate di management capace. Non è un segreto che l'Inter, all'opposizione nella battaglia di Lotito per la presidenza della Lega, abbia cambiato versante ad agosto non per il passaggio tra Moratti e Thohir alla presidenza, ma per un accordo proprio con Infront, che porterà un minimo di 80 milioni in quattro anni nelle casse nerazzurre, in verità messe malino. Così la vera divisione di fondo Lotito l'ha creata tra chi prova a essere indipendente e chi ha ancora troppo bisogno dell'aiuto di Infront per reggere, sapendo appunto che qui avrebbe trovato la maggioranza. È in questo modo che in Lega Pro cerca di trovare il sostegno che a Macalli sta venendo meno, parlando con i ribelli dell'Ischia e dicendo che possono stare tranquilli, perché lui conosce chi paga, mostrando qual è il metodo, gonfiando il petto perché i diritti televisivi sono stati portati «a 1,2 miliardi grazie alla mia bravura». Si schiera da solo in prima linea quando parla dei rapporti con Infront: il grimaldello che gli ha dato potere in Lega di A («ho 17-18 voti – dice a Iodice -, perché la Fiorentina una volta si astiene, una volta vota a favore mio»), dove non conta Beretta ma lui, e che gli ha fatto conquistare la Figc. “Quello che porta i soldi”, appunto, e che dunque gli serve per recuperare la Lega Pro ribelle e squattrinata, e mettere un piede anche nella Lega di B, grazie al suo sostegno dato al Bari di Paparesta (che si sostiene con le anticipazioni di Infront, con la quale ha stretto anche un accordo di sponsorship fondamentale) e sul cui legame si è espresso sempre Iodice: «Posso dirvi che in sede di calciomercato, il presidente del Bari Paparesta, prima di concludere un'operazione, ha chiamato il presidente della Lazio Claudio Lotito».
Una gigantesca concentrazione di potere
Di Lotito si era già scritto che il punto di forza è sapersi rendere indispensabile anche non piacendo: sa individuare una falla, proporsi come salvatore e dunque essere accettato obtorto collo. E nel sistema calcio italiano, pieno di falle, la dipendenza dallo sgraziato presidente della Lazio si legge dalle reazioni della maggior parte della squadre di Serie A: a parte, ovviamente, Fiorentina, Roma e Juve, le altre hanno fatto lunghissimi giri di parole per non dire niente oppure si sono schierate apertamente in difesa di Lotito. Che viene difficile chiamare, non volendo ripetere il nome, “presidente della Lazio” come è stato appena fatto, perché la Lazio di tutta questa concentrazione di potere non trae giovamento. Non è l'interesse immediato di Lotito, che all'esterno combatte una lotta con il sistema arbitrale, ma con la Lazio solo come pretesto. Gli arbitri infatti non hanno votato Tavecchio, dunque Lotito, alle elezioni federali: questa è una guerra con Nicchi, il presidente dei fischietti italiani, proprio perché Lotito non ha intenzione di risparmiare chi ha scelto l'altra parte della barricata (così come Tavecchio, che nei momenti più contestati non ha speso una parola a difesa degli arbitri, per tirarli fuori dalle polemiche, ma anzi ha rilanciato l'uso della tecnologia come a sottolinearne l'incapacità). Lui vuole il potere totale e gioca la sua partita politica, che non può rovinarsi se qualcuno dovesse avere sospetti di favoritismi nei confronti della Lazio. Quindi agisce da Lotito, come non avesse una società pur usandole tutte come pedine, anche quelle non sue: ha provato a convincere il Lecce “dandogli” Bollini. Il tecnico delle giovanili della Lazio poteva finire alla Salernitana, altra società di Lotito, e invece a un certo punto è stato sbloccato dal presidente e lasciato andare in giallorosso, in una squadra che è però concorrente della Salernitana stessa. Perché il proprietario di un club debba favorire una rivale diretta è un mistero o forse no: il Lecce era una delle società all'opposizione di Macalli (va dato atto: è rimasta dov'era anche dopo il “favore”) e Lotito ha così svelato anche il motivo per cui lui ritiene più importanti le multiproprietà delle seconde squadre (una delle prime battaglie condotte quando è entrato da presidente ombra in Figc): perché sono un modo che può utilizzare per accrescere il suo potere. Quando non può usare Infront come chiave.
Ma Infront non si è fermata qui
Come il nostro calcio stia diventando ostaggio di pochi accentratori di potere (a scapito della credibilità, ovvio. E della crescita reale) è evidenziato dalla telefonata di Lotito per un problema che una volta sarebbe stato marginale (“recuperare” alla causa la Lega Pro, che garantisce il 17% dei voti per il presidente Figc e farebbe scricchiolare il sistema, se passasse dall'altra parte) e dal richiamo a “quello che ha portato i soldi”.
Il peggior nemico del pallone italiano è la sottovalutazione dei rischi: si è perso tempo a sorridere di Lotito, della sua giacca della Nazionale e dei meme su Twitter con lui piazzato ovunque, ignorando che stesse tessendo una tela enorme. Al tempo stesso ci si è accorti troppo tardi di come Infront stesse mettendo le mani più o meno su tutto. Epperò nemmeno ora che la questione è evidente ci sono segnali di frenata, perché di quasi un miliardo di euro a stagione (5,9 miliardi in sei stagioni, dal 2015 al 2018 già accordato, con rinnovo automatico fino al 2021 se nel primo triennio si dovessero incassare un miliardo e quaranta milioni a campionato) il calcio non può fare a meno, né vendersi meglio essendo già forse sovrastimato al momento da una società che però investe qualche milione in più avendo in cambio molti altri vantaggi. A Infront sono state consegnate le chiavi della Lega e della Figc e ora si vogliono consegnare anche quelle del campo.
Qui non c'entra Lotito, ma chi comunque è schierato da quella parte e, anzi, dal caos nato dalla telefonata di Iodice si è tirato fuori dicendo: «Non ho voglia di commentare: sono e resto amico di Claudio Lotito». Ovvero Adriano Galliani, uno che con Infront ha rapporti strettissimi, essendo gran parte della società nella sua parte italiana formata da gente nata all'interno di Mediaset e tuttora in amorevoli frequentazioni con il Milan (Infront si occupa anche della gestione marketing e sponsoring dei rossoneri e il suo presidente Bogarelli, già dipendente del biscione e di Milan Channel, era con Barbara Berlusconi a giugno scorso nella Crociera Rossonera). Galliani, lo ricorderà almeno chi ha smesso di ridere dopo Juventus-Milan, ha sollevato il problema delle regie interne agli stadi (tracciando linee un po' a caso e ignorando le elementari regole della geometria), accusando la Juve di aver sostanzialmente truccato le immagini del gol di Tevez per non mostrare il fuorigioco: «Al contrario delle altre squadre di A, la produzione delle immagini delle gare della Juve sono gestite dalla società stessa. Che scientemente non fa rivedere il replay dell'azione del primo gol. Solleverò un putiferio nella prossima assemblea di Lega affinché la Lega possa produrre tutte le gare senza concedere facoltà ad un solo club di gestire in proprio le immagini. Contesto il fatto che facciano vedere quello che vogliono». Qui Galliani, al netto della replica della Juve e della controrisposta, riconosce a chi produce le immagini il potere di orientare i pareri (e non siamo ancora all'uso della tecnologia in campo, per fortuna). E quindi chiede in Lega di stravolgere lo schema approvato in contemporanea con il ritorno alla vendita centralizzata, nel 2010, di 6 registi Sky, 3 Mediaset e uno indipendente sui campi, che avrebbe garantito nelle intenzioni dell'epoca l'alternanza. Ottenendolo, perché dall'anno prossimo, potrebbe essere direttamente la Lega a produrre le gare di Serie A e a occuparsi delle regie. E chi, se non Infront? Qui tutto si incarta: Galliani dice che le regie influenzano i giudizi, quindi spinge perché Infront si occupi delle regie e dunque influenzi i giudizi. Infront, che è partner stretto del Milan, e anche di molte altre società, e della Lega, e della Figc. Anche la Juve, nella replica, lo fa notare: «Galliani pare ignorare che tale opzione (l’affidamento a registi indipendenti, ndr) non è prevista da alcun regolamento e dovrebbe essere soggetta a un dibattito e a una riforma. Pare ignorare che tal schiera di registi indipendenti sarebbe verosimilmente formata, se non addirittura fornita, dall’advisor/procacciatore/produttore già menzionato (che è appunto Infront, ndr) che si troverebbe nella singolare posizione di scrivere le regole, eseguirle e trarne anche i profitti». E Bogarelli non si è nemmeno posto il problema etico: «Se saremo noi a scegliere i registi che userà la Lega? Perché no: siamo quelli che producono più eventi sportivi al mondo. Visto che siamo advisor della Lega e rischiamo insieme a loro, siamo lì per dare il nostro consiglio». Una brutta storia che però sembra interessare a pochi, fino al prossimo fuorigioco.
Infront cinese, il Milan, gli stadi
Parlando di Infront e del suo potere, che adesso può espandersi fino alla regia delle partite, è inevitabile capire come si può ampliare ancora. La società svizzera è di recente passata di mano, ceduta per un miliardo e cinquanta milioni al colosso immobiliare Wanda Group, guidato dal secondo uomo più ricco di Cina, Wang Jialin. Al netto di ogni presentazione possibile della potenza economica del gruppo cinese, ci sono dei passaggi da sottolineare: acquistare la società e confermare Marco Bogarelli alla guida di Infront Italia e Phillippe Blatter alla guida di tutto il gruppo fino al 2020 vuol dire affidarsi ai legami che hanno creato un potere spropositato, ed espanderlo fino a somigliare a un totale controllo. Il gruppo Wanda ha già acquistato il venti per cento delle quote dell'Atletico Madrid per 45 milioni di euro ed è stato accostato a novembre 2013 alla Roma, come possibile nuovo socio. Ha cioè messo gli occhi sul calcio tout court (punterebbero a una Superlega europea), ma intanto sembra intenzionato a utilizzare come cavallo di troia il grande business degli stadi. Cominciando da quello del Milan: nel nuovo impianto che i rossoneri stanno progettando a Portello potrebbero piovere i capitali cinesi. Non è nemmeno un mistero, visto che Bogarelli stesso ha fatto sapere che «è possibile: è la naturale evoluzione. La società (Wanda, ndr) ha delle competenze che non si limitano a quelle abituali di Infront. Investe nell'immobiliare e nel cinema. Può offrire qualcosa di nuovo alle società italiane. E' un'opportunità per un club come quello rossonero». Vero che Wanda ha una potenza immobiliare che in numeri è: 109 Wanda Plazas, 71 alberghi (tra cui 68 hotel a cinque stelle), 6.600 cinema e 99 grandi magazzini, tutti in Cina. Ma è anche vero che se lo stadio è l'ultima possibilità per il Milan di tornare la potenza economica di un tempo, visto che per il primo anno è uscito dalla top ten dei fatturati europei (secondo la Deloitte Football Money League) e in dieci anni è passato da 234 milioni del 2004/2005 (il Milan era terzo) ai 249,7 milioni (dodicesimo) della stagione scorsa (peraltro in perdita rispetto all'anno prima: meno quattordici milioni), mentre il Real Madrid (primo da allora) è passato da 275,7 milioni a 549,5. E se si pensa che il fatturato del Milan è composto per il 49 per cento da diritti tv (garantiti da Infront) e per il 41 per cento dai ricavi commerciali (quasi totalmente gestiti da Infront), è facile immaginare quale sarebbe la proprietà ombra se solo dovesse entrare anche nel business degli stadi. E in un calcio che ha bisogno di soldi perché non ne ha più e non ne sa produrre chi li ha si prende tutto: anche il Brescia, ad esempio, che Profida Italia potrebbe comprare da Corioni perché Infront (che partecipa alle trattative con il suo d. g. Giuseppe Ciocchetti, lo stesso che fa da tramite con il Bari) garantisce nove milioni in cinque anni e la costruzione di uno stadio nuovo. Una ragnatela di potere che può sfuggire a ogni controllo.
Cosa c'entrano Carpi e Frosinone
Infine c'è la parte che ha fatto più rumore della telefonata di Lotito: quella in cui di fatto dice che Carpi e Frosinone è meglio che non arrivino in Serie A perché sarebbero d'intralcio: «Ho detto ad Abodi: Andrea, dobbiamo cambiare. Se me porti su il Carpi... una può salì... se mi porti squadre che non valgono un c... noi fra due o tre anni non ci abbiamo più una lira. Perché io quando a vado a vendere i diritti televisivi fra tre anni se ci abbiamo Latina, Frosinone.. chi c... li compra i diritti? Non sanno manco che esiste, Frosinone. Il Carpi... E questi non se lo pongono il problema!». Qui è partita la crociata a difesa delle piccole, che Lotito avversa adesso che non sono funzionali al suo progetto dimenticando, però, che proprio unendo le piccole ha fatto la sua fortuna politica. L'imprenditore che ama parlare latino ha vinto così le elezioni in Lega, così ha vinto in Figc. Clamorosa, in particolare, da questo punto di vista, l'elezione di Beretta, perché rimasero fuori dagli incarichi e dunque all'opposizione anche Juve, Inter, Roma, Samp e Fiorentina, che insieme rappresentano il 70 per cento dei tifosi italiani. Chi ha messo insieme il 30 per cento dei sostenitori di calcio per prendersi la Lega (e poco più per vincere in Figc), ora si preoccupa delle presenza di piccole realtà: come se non ci fossero il Chievo, che nemmeno comunica i dati degli spettatori alla Lega di A (ogni domenica, nelle statistiche del pubblico, quando la società di Campedelli gioca in casa l'affluenza è stimata, non ufficiale), il Sassuolo o altre che comunque hanno storie da raccontare. Che poi è lo stesso sistema che permette i balletti di avventurieri sulla pelle del Parma, dove il calcio è morto ma è stato ammesso da moribondo, dove una squadra nemmeno riesce a scendere in campo e la Primavera non ha nemmeno l’acqua calda. Falsano un campionato intero e pensano ad altro e a come rimediare a scempi di cui vergognarsi. Il Parma non è né il Carpi né il Frosinone, ma una società che ha fatto un pezzo di storia del nostro pallone: invece di alzare l'asticella dei requisiti per essere certi che chi arriva in Serie A (anche se si chiama Parma) sia poi in grado di sostenere il campionato, magari lavorando perché si creino forme di ricavo che non siano solo quelle dei diritti tv, che sono il guinzaglio a cui Lotito tiene le “sue” società, creando potere. Quello dei diritti tv con le piccole poi, è un falso problema: sono le grandi che trascinano il sistema verso l'alto e non le provinciali che tirano verso il basso. Prendendo, a caso, il penultimo turno, abbondantemente sopra il milione di spettatori sono andate Palermo-Napoli (1.323.373), Milan-Empoli (1.398.907) e Cesena-Juventus (1.889.787), mentre le peggiori sono state Genoa-Verona (47.137) e Udinese-Lazio (78.709). Quattro piazze con buona storia hanno affossato gli ascolti. E i conti sono sempre questi: le migliori fanno il settanta per cento degli ascolti, le altre si spartiscono quello che resta e qui Carpi o Udinese possono essere uguali. Se si vuol buttare l'occhio verso l'estero, in Inghilterra (dove nei giorni scorsi si è arrivati a un accordo per i diritti tv di quasi sette miliardi di euro in tre anni) c'è il Burnley, in una città che ha 70mila abitanti come Carpi, ma ne porta 22mila allo stadio: il problema è dunque portare la gente a tifare, non pensarla solo come una mano collegata a un telecomando. Proprio in Inghilterra, per restare ai ricchi, non trasmettono tutte le partite, e nemmeno le rendono note all'inizio dell'anno, invitando così i tifosi verso l'acquisto dell'abbonamento o del biglietto, perché non sanno quante volte la loro squadra andrà in tv. Per quanto in crescita, infatti, la copertura non è totale, anzi: fino alla stagione 2012/13 la copertura raggiungeva il 36%, nel 2016 arriverà all'44%, lasciando comunque 212 match visibili in diretta solo allo stadio. Possono funzionare entrambe le cose: stadio e diritti tv, ma per rendere credibile l'aspetto economico del nostro pallone non è il numero di abitanti di una città che ci serve, quanto la propria disponibilità economica o le capacità manageriali in grado di creare ricavi. E guardare all'Inghilterra non solo per le cifre mostruose, ma per il modo in cui ci sono arrivati.
Cosa c’entra Arrigo Sacchi
Tra Infront, Lotito e i cinesi di Wanda si inserisce Arrigo Sacchi e la sua frase senza senso, né culturale né calcistico: «A guardare il Torneo di Viareggio mi viene da dire che ci sono troppi giocatori di colore, anche nelle squadre Primavera». Della frase letterale si è parlato fino in fondo (con il rischio di far passare per intellettuale persino Blatter, uno che non avrebbe nemmeno titolo a parlare di razzismo), del suo significato metaforico un po’ meno: Sacchi, l’allenatore di una delle squadre più belle della storia che cede alla bruttezza di una frase così, è la fotografia della decadenza. Un uomo che potrebbe contribuire anche solo con le idee a una rinascita tecnica e culturale, cade così male. Per la frase in sé, (con dei distinguo che ricordano quando Lotito - eccolo - parlò dei “cosi” adottati da Tavecchio), ma anche per il dibattito trito sugli stranieri che ha riaperto. Una discussione che ribadisce l'impreparazione del nostro calcio e di chi dovrebbe cambiarlo (o spingere perché cambi). In sintesi: «Sì, Sacchi ha sbagliato a parlare di giocatori di colore nelle giovanili (peraltro smentito dai numeri), ma il problema degli stranieri esiste» quando invece quel punto di vista è un errore di analisi, da parte di Sacchi, diventato grande con Rijkaard, Gullit e van Basten, e numerico, perché prendendo solo le capolista dei principali campionati europei si capisce come la Juve, con dodici stranieri, ne abbia più solo del Lione (8), ma meno di Bayern (13), Real Madrid (15) e Chelsea (19). Siamo solo alla contabilità elementare e già parlare di stranieri non ha senso, e se non c'è stata crescita nelle giovanili Sacchi potrebbe domandarlo a se stesso, visto che ha coordinato le Nazionali azzurre fino a luglio scorso, eppure è ancora un discorso che non affonda nella politica sportiva, quella che reclama una rivoluzione vera per poter mettere i giovani calciatori nelle condizioni di mettersi alla prova.
La rivoluzione può iniziare da alcune domande: perché quello italiano nell'ultima stagione (come negli ultimi sei anni censiti, peraltro) è il campionato più vecchio d'Europa come età media (27,3 anni, secondo i calcoli del Cies Football Observatory. In Inghilterra il dato è 26,8, in Spagna 26,2, in Germania 25,9 e in Francia 25,8)? Perché l'Italia è ultima tra le top league per club trained players (i giocatori nella rosa delle squadre che sono da almeno tre stagioni nello stesso club e hanno tra i 15 e i 21 anni)? Anche qui il Cies certifica il fallimento di un modello: 9,6% in Italia (la prima della Serie A, l'Atalanta è dodicesima, segue l'Inter diciannovesima), 13,9% in Premier League, 16,4% in Bundesliga, 22,4% in Liga, 24,6% nella Ligue 1.
Non sono gli stranieri, il problema: ma le società che non fanno diventare mai grandi i loro giovani, che li usano come carne da mercato perché non hanno il tempo né lo spazio per sperimentare, perché essere del '95 nel nostro campionato è un problema e allora Verde e Bonazzoli, le ultime due scoperte del calcio italiano (il primo ha esordito a gennaio con la Roma, il secondo a novembre scorso con l'Inter), arrivano in prima squadra quasi per caso oppure per una concomitanza di cause che creano l'emergenza e costringono ad attingere dalle giovanili. Sembra facile dare la colpa agli allenatori, ma la verità è che tra le squadre Primavera e la Serie A manca un passaggio che resta fondamentale per comprendere la competitività di un ragazzo: la creazione delle squadre B, che non a caso in Spagna, Inghilterra, Germania e Francia funzionano (ognuna con le sue regole e le sue denominazioni) e sono il modo per far maturare i ragazzi e continuare a seguirli nei club, ma anche per far crescere gli allenatori, elevando l'agonismo dei campionati a cui si partecipa (in Spagna Zidane allena il Real Madrid Castilla, Guardiola e Luis Enrique hanno iniziato dal Barcellona B, in Italia Inzaghi parte dal Milan e rischia di bruciarsi). Se Sacchi, guardando il Viareggio, si fosse domandato perché questi giovani non possono restare nelle squadre di appartenenza e avere dunque la possibilità di essere lanciati in Serie A, invece che andare a zonzo in Lega Pro senza tornare mai, si sarebbe dato la stessa risposta, che non dipende dal colore della pelle. Manca la volontà di aprire alle squadre B, meglio il declino e le multiproprietà usate per ampliare il potere. Il progetto di Lotito, appunto, che peraltro è diventato vincente grazie alla sparizione di un verbale che prevedeva “anche” le seconde squadre come opzione. Il punto di incontro è la stessa persona da cui tutto è partito.
La beffa del Governo e del “commissariamento”
Quando tutto questo poteva essere, se non evitato, arginato un po’, il Governo è stato fermo a guardare. A distanza. C’era il caos per la possibile elezione di Tavecchio e tutto quello che disse Renzi fu: «Se come presidente del Consiglio dicessi una parola su Tavecchio, l'Italia sarebbe squalificata dalle competizioni europee». Anche Graziano Delrio, che ha la delega allo sport da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, fu pilatesco: «Non possiamo intervenire. L’autonomia del mondo dello sport è totale e le Federazioni si regolano al loro interno».
Adesso, quando forse si è capito che è tardi per tutto e che sarà difficile che si presentino i requisiti per un commissariamento di una Figc così inquinata dagli intrecci di potere, ha fatto un tentativo di scendere in campo che, però, ha partorito una decisione almeno catalogabile come buffa. Intanto Delrio ha chiamato Malagò per vedere come agire e si è sentito rispondere (ecco l’assenza di requisiti) che per un commissariamento della Figc servirebbero gravi irregolarità di gestione, impossibilità di governare o il mancato avvio dei campionati. Poi ha chiamato Tavecchio, incontrandolo appunto con Malagò, ottenendo che venisse revocata a Lotito la delega sulla riforme (quelle di cui parla largamente con Iodice, per capirci). I punti grotteschi della decisione sono due: Lotito rimane libero di muoversi in Figc come gli pare (a meno che la Procura federale non decida di punire, con una delle due inchieste aperte, chi governa di fatto la Federazione) e la delega alle riforme passa a Tavecchio, l’uomo che deve la propria elezione a Lotito. La chiusura del cerchio di un gigantesco conflitto di interessi che può solo diventare più grande, più invasivo, fino a prendersi l'ultimo pezzo di pallone rimasto libero. Dopo Abete è stato eletto un passacarte, quando serviva una ruspa. Ma c’è una ruspa, quando il potere è sfacciato come una telefonata di Lotito?