A chi le chiede quando è nata, Ramla Ali risponde che non lo sa. Si tratta di un giorno indefinito intorno alla fine degli anni Ottanta. «Ho un’età vicina ai trent’anni, ma non lo so con precisione», dice, «né so il mese e l’anno della mia nascita. Quelli erano giorni di caos in Somalia e nessuno si è preoccupato di registrami». Per semplicità la sua famiglia si aggancia ad un limite cronologico preciso, che è lo scoppio della guerra civile. In Somalia ha vissuto con i genitori e i fratelli fino al giorno in cui una granata è scoppiata nel giardino di casa e il fratello maggiore, allora ancora un bambino, è morto sul colpo. Per evitare ulteriori perdite, tutta la famiglia, composta da altri sei bambini e i genitori, si mette in viaggio per mare e raggiunge il Kenia, dove la madre lavora ancora un anno e raccoglie la cifra necessaria ad arrivare in Inghilterra. Il giorno in cui Ramla Ali viene finalmente registrata all’anagrafe di Londra è il sedici settembre 1994, che in maniera del tutto arbitraria diventa la sua data di nascita ufficiale.
Nonostante il cognome importante, Ramla Ali non è figlia di nessuno. Nessun legame con la leggenda Muhammed Ali, ma se è per questo neanche nessun altro pugile in famiglia. Nel 2015 è stata la prima donna musulmana a vincere il titolo inglese. Nel 2016 ha vinto l’Elite National Championships, l’English Title Series e persino il Great British Elite Championships, i tre tornei più significativi a livello dilettantistico. È così che è diventata la più importante pugile non professionista in Inghilterra nella sua categoria di peso (prima 54 kg e poi 57 kg) e una delle sportive più influenti a livello mediatico.
Fino a pochi mesi fa era concentrata sul più importante risultato per un atleta: partecipare alle Olimpiadi, rappresentando la Somalia. Se ci fosse riuscita – e ci stava riuscendo – sarebbe diventata la prima atleta somala a raggiungere questo risultato nel pugilato, nel femminile come nel maschile. Il 21 febbraio ha vinto il primo dei tre combattimenti per la qualificazione ai Giochi di Dakar, in Senegal, ma poi il suo cammino è stato interrotto dalla pandemia, che l’ha spinta a cambiare strategia. «Il piano è sempre stato di provare a qualificarsi per le Olimpiadi di Tokyo e poi diventare una pugile professionista a partire da agosto o settembre 2020», ha detto in un’intervista a Sky Uk, «Ma dato che le Olimpiadi sono state posposte significa che devo iniziare adesso. Non sono nella posizione di aspettare fino alla fine del 2021. Non sono una ventunenne che vive con i genitori, ma una donna adulta e sposata che prende pugni in faccia per vivere. Voglio iniziare a guadagnare dei soldi».
E di quei soldi, di ogni borsa che guadagnerà nel primo anno di carriera, ha già deciso di donare il 25% al movimento Black Lives Matter. «Ho aspettato (a passare al professionismo n.d.r.) perché non mi sentivo pronta ma adesso, dopo 70 incontri, credo di esserlo».
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Every life will only matter when a black life matters.
Un post condiviso da Ramla Ali #BlackLivesMatter (@ramlaali) in data: 2 Giu 2020 alle ore 3:27 PDT
Non solo Ramla Ali è una pugile musulmana che combatte sul ring senza indossare l’hijab, ma è anche un’atleta Nike, una modella, un’attivista per i diritti civili e, infine, testimonial di una nota marca di shampoo. Dettaglio, questo, che potrebbe sembrare di poco conto, se non fosse che le donne come Ramla Ali nascono e crescono in un contesto per cui i capelli devono restare coperti.
A Londra, la famiglia sceglie per lei una scuola femminile inglese ma continua a crescerla secondo i dettami di un’educazione musulmana conservatrice. Ali non parla ancora inglese e non trova apertura nelle altre ragazze, che non sapendo come interpretarla si risolvono a prenderla in giro nei corridoi della scuola. Nel rispetto del solito paradigma in cui si trovano incastrate spesso giovani donne musulmane giunte in Occidente a seguito di una diaspora, entra in contatto con un mondo in cui indossare l’hijab e avere modelli fisici diversi, diciamo “più in carne”, la portano a essere oggetto di scherno.
La violenza verbale, la discriminazione, i pregiudizi e l’esclusione sono elementi comuni a molte atlete di religione musulmana: Ibtihaj Muhammad, americana e prima donna schermitrice a partecipare e vincere le olimpiadi con un hijab, è riuscita a cambiare la storia dello sport olimpico partendo proprio da un trauma personale. «Ricordo di aver praticato molti sport sin da bambina e dato che ero musulmana avevo un aspetto diverso da quello dei miei compagni di squadra. La mia divisa era completamente diversa: maniche lunghe, pantaloni lunghi, il capo coperto. La sensazione continua di essere diversa dagli altri non mi faceva sentire a mio agio».
Come fare a mettere in condizione le donne musulmane di praticare sport senza che l’hijab diventi uno stigma, invece che un simbolo di rispetto di un certo modo di sentirsi vicini a Dio? Muhammad ha trovato questa risposta parziale: «Quando ho scoperto la scherma, indossare la maschera mi ha dato per la prima volta la sensazione reale di essere parte di una squadra».
Lì dietro Muhammad è uniformata, e il simbolo è come se non ci fosse. Quindi, nella comunità sportiva occidentale il paradosso è che l’hijab possa esistere solo se nascosto.
Unica e sola
La prima volta che Ramla mette piede dentro un circolo pugilistico ha tredici anni. La palestra è situata al primo piano di un palazzo periferico, un luogo remoto, lontano dalle stanze protette in cui è seguita dall’ingombrante figura materna. Lo spazio a cui accede è uno stanzone dall’aria immobile che odora di sudore. E diversamente dagli umori controllati della sua casa paterna, qui la investe un sentimento di paura. «Tutti quegli uomini arrabbiati insieme», ricorda lei.
E parla di un luogo cavernoso, un reame maschile in cui tutti continuano a prendersi a pugni ignorandola. Piccola, e femmina. In un posto così, Ramla non può essere altro che invisibile: «Nessuno mi ha aiutata, nessuno mi ha mostrato i movimenti, nessuno mi ha spiegato il modo corretto con cui dare un pugno».
Nonostante ciò, Ramla cerca un angolo isolato della palestra e inizia ad allenarsi – le regole implicite di questi posti impongono che il ring sia concesso solo a chi è esperto di pugilato, agli uomini, quindi, non certo a lei. La palestra è anche il luogo in cui è libera di impiegare il proprio corpo secondo i suoi desideri, per questo ci ritorna ogni giorno, per anni, di nascosto dalla sua famiglia. «Avevo iniziato ad amare la persona che stavo diventando. Più sicura e capace di mettere da parte i maltrattamenti a cui ero stata sottoposta dalle ragazze nella mia scuola».
La sua scelta sportiva, di fatto, è un'azione politica, una visione femminile che mette sottosopra la relazione con il proprio corpo che a Ramla era stata imposta. La libertà di fare ciò che vuole con le sue braccia e le sue gambe è un diritto che a Ramla non spettava per nascita. La scelta di prendere a pugni un sacco, di sudare, di guardare le sue braccia ingrossarsi giorno dopo giorno sono effetti collaterali di una vita che la sua famiglia non sarebbe mai disposta a tollerare. Una donna che compete nello sport, che mostra il suo corpo, che si muove in maniera così libera è quanto di più lontano esista da una donna osservante dei dettami dell’Islam. Eppure Ramla non sta facendo niente di sbagliato nei confronti della religione islamica.
Nessun passo del Corano preclude la presenza delle donne nello sport, e di conseguenza non è scritto da nessuna parte in maniera esplicita che il capo debba essere coperto, né la pelle, mentre lo si pratica. Non è una questione di religione, ma di cultura. E queste sono le regole che la sua famiglia ha scelto per lei.
Ma Ramla Ali ha un grande talento. Sul ring della finale dell’Elite Championship contro Rachel Mackenzie ricorda il “Messicano”, il pugile protagonista di un racconto di Jack London, smilzo e dalla pelle olivastra, uno scricciolo che incassa pugni fino allo sfinimento, che sa aspettare. Aspetta che l’avversario si stanchi a forza di prenderlo a botte, e quando l’altro è liso dall’illusione di avercela fatta, il Messicano si crea un varco attraverso il quale il suo gancio può raggiungere il volto dell’avversario in maniera esiziale. Ramla Ali ha un fisico simile, e tutti e quattro i round della finale sono caratterizzati da un’inquietudine nel suo modo di combattere che la porta a muoversi rapida sulle gambe più di quanto non faccia una pugile canonica.
Il suo stile è più simile ad una combattente di thai boxe che flette sulle gambe, e saltella incessantemente avanti e indietro come un passero. E intanto il suo pugno sinistro ruota e fende l’aria mentre tenta di andare a fare centro: una sequenza di jab, Ali prima appoggia, tasta, cerca di capire quanto può andare giù sui nervi dell’avversaria, e a forza di muovere la guardia dell’opponente arriva a piazzare il diritto sulla mascella fino alla vittoria.
Parlo di inquietudine perché, volente o nolente, quello che succede nel ring è che a un certo punto ti farai male e muoversi a quel modo, andare avanti e indietro incessantemente, significa avere il desiderio di colpire ma anche di salvarsi.
Contro tutti
Lo sport che ci scegliamo dice molto su di noi. Per Ramla Ali prendere a pugni un sacco per la prima volta ha un significato politico che lascia un’eredità a uno sport che resta prettamente maschile.
Su come i genitori di Ramla Ali siano venuti a scoprire che la loro figlia era una campionessa nazionale di boxe ci sono diverse versioni, mi prendo la libertà di raccontare quella più magica, più potente. La sera della finale per il titolo inglese, Ali è sul ring e nello stesso momento la sua famiglia è riunita a cena davanti alla TV. Ad un certo punto uno dei fratelli solleva lo sguardo e dice: «Ma quella non è Ramla?», indicando la sorella che sta combattendo sul ring per il titolo nazionale, e indossa un paio di pantaloncini corti e un top che lascia le braccia interamente scoperte.
Quella sera, Ramla torna a casa con una cintura. Quella stessa sera, i genitori la costringono a smettere.
La punizione arriva come reazione ad un evento epocale, al primo titolo inglese di boxe per una donna musulmana, ed è strumentale a mostrarci come le contraddizioni che lo sport e la religione fanno emergere devono essere affrontate e risolte. In questo caso, la soluzione può passare solo dall’interno, attraverso chi le limitazioni le subisce sulla propria persona e deve fare i conti con un certo ritardo della società e delle federazioni sulle prestazioni che intanto accadono nei palazzetti. È per questo che era importante che Ramla Ali prima o dopo tornasse a combattere. Per indicarci altri limiti e per spingerci a trovare nuove soluzioni.
Fa sorridere che i sei mesi di fermo imposti dalla madre si risolvano con una dinamica antica, patriarcale, secondo cui uno zio nota il talento e l’abnegazione di Ramla Ali e si offre di intercedere con la madre e convincerla che nessuno fra i conoscenti della famiglia né fra i membri della comunità musulmana a cui la famiglia Ali appartiene ha qualcosa in contrario al fatto che sia una campionessa.
Sul ring, o in prossimità di esso, non è sempre e solo una questione di forza, spesso vince chi riesce a pensare meglio più a lungo. Chi riesce ad assecondare con il corpo il lampo di genio che avviene dentro la testa, e a trasformarlo in un colpo letale. Un’intuizione che poco ha a che fare con la rabbia, molto di più con la saggezza e l’esperienza di quello che il proprio corpo è capace di fare. La resistenza è una di quelle doti di cui non si parla mai – quanto a lungo si è capaci di perseverare in nome della vittoria. Il pugilato femminile è uno di quegli sport che richiede testardaggine anche solo per il fatto che in ogni palestra e in ogni momento della tua vita ci sarà qualcuno che cercherà di dissuaderti a fare ciò che stai facendo. Perché è pericoloso, perché è antiestetico, o molto semplicemente perché è cosa da maschi e basta.
Ciò che caratterizza lo sport femminile è la sua forma magmatica, il suo svilupparsi problema dopo problema, nella ricerca di una risoluzione a dei limiti che per le donne sono ancora sostanziali. Pochi diritti, poca visibilità, regolamenti che si sono irrigiditi durante gli anni per mancata lungimiranza. Chi si sarebbe aspettato che il pugilato femminile sarebbe diventato sport olimpico prima di Londra 2012?
Chi avrebbe pensato che prima o dopo una donna musulmana si sarebbe trovata nella condizione di dover gareggiare con il copricapo, andando così a collidere con un regolamento di uno sport declinato al maschile in cui scoprire il proprio awrah, quella parte del corpo che non deve mai essere mostrata e che per gli uomini va dall’ombelico al ginocchio, non è e non sarà mai criticato così severamente come quando è una donna a scoprirsi?
Questi piccoli avanzamenti avvengono solo in cambio di metalli pesanti: ori, argenti e bronzi internazionali. Per qualcosa di meno non ci si prende nemmeno la pena.
Ma a guardarlo bene, il cammino che ha portato Ramla Ali alla possibile qualificazione alle olimpiadi di Tokio 2020, si basa sulla dicotomia di una persona che da un lato è una donna musulmana che racconta pubblicamente di quanto sia importante per lei osservare il Ramadan e dall’altro continua ad allenarsi due volte al giorno. Che decide di sposarsi in moschea ma che gareggia con il capo e le braccia e le gambe scoperte, perché questa è la rappresentazione di sé che vuole portare sul ring.
E anche se le due società a cui lei desidera appartenere si negano reciprocamente, l’equilibrio raggiunto con perseveranza in questo caso è un modello di ispirazione per coloro che non hanno ancora trovato una soluzione a quella che sembra essere una delle più grandi aporie dell’Occidente.