Questo non è un pezzo in cui si mettono a confronto Stefano Pioli e Ralf Rangnick; così come pensare che per il Milan potesse essere meglio investire in un cambiamento radicale, che avrebbe portato in Italia un metodo manageriale, di allenamento e di selezione dei talenti nuovo, non equivale a pensare che Pioli non avrebbe meritato una conferma, o peggio, che non sia un allenatore e una persona di livello. Mi interessa piuttosto capire come è stata accolta la scelta del Milan, di Gazidis, di continuare con l’allenatore italiano dopo che negli ultimi mesi sembrava ormai certo l’arrivo del tedesco. La mia idea - semplice semplice, lo confesso - è che dietro i commenti di queste ultime ore si possa leggere un certo sollievo che tradisce la mentalità chiusa e conservatrice del calcio italiano.
Ho l’impressione, anzi, che il modo in cui viene tratteggiata la figura di Pioli oggi sia strumentale a far accettare una scelta societaria quanto meno controversa - proprio perché, in realtà, non si stava parlando semplicemente di cambiare l’allenatore - se non contraddittoria. Dopo aver licenziato Boban, con cui aveva rotto per le dichiarazioni che riguardavano proprio Rangnick, Gazidis adesso sostiene di aver scelto Pioli per «il modo in cui ha fatto sua la nostra visione, e su come trasferisce la sua personalità e i valori del nostro club». E aggiunge anche per come «ha migliorato le prestazioni dei singoli giocatori e del collettivo», che poi sarebbe stato il lavoro principale di Rangnick.
Paolo Maldini, direttore tecnico, che aveva invitato Rangnick a «dare una ripassata ai concetti generali del rispetto» prima ancora di imparare l’italiano, perché Ragnick aveva parlato di avere «pieni poteri» e di fatto avrebbe preso (anche) il suo posto, parla solo di Pioli dicendo semplicemente che avevano «sempre sostenuto che ci sarebbe voluto del tempo per vedere i risultati del suo lavoro», che sanno che è l’uomo giusto per una squadra che sia al tempo stesso «di successo, giovane, affamata di vittorie».
Certo, hanno chiarito subito: «non è una decisione basata sulle recenti vittorie», dettata cioè dagli ottimi risultati del Milan da inizio giugno a oggi, dalle dieci partite consecutive senza sconfitte e con sette vittorie. Sarebbe assurdo, se ne rendono bene conto, prendere una decisione così importante, che influenza non solo la prossima stagione ma l’idea stessa di futuro del Milan, in una situazione così anomala, con le partite ogni tre giorni giocate a porte chiuse. Non è una scelta dovuta ai risultati, ma al “merito” (omettendo eventuali ragioni economiche).
Meme preso da reddit r/acmilan.
Questo è il modo in cui stanno comunicando questa scelta e sarà anche vero, ma è in netta contraddizione con la storia recente di quella stessa dirigenza. Che di tempo a Giampaolo ne ha dato poco - sette giornate in tutto - esonerandolo dopo tre sconfitte consecutive e che probabilmente ha scelto Pioli anche per non dover pagare la buonuscita a Spalletti dal contratto con l’Inter. Ma che succederà a ottobre, o novembre, se dovesse succedere anche a Pioli di perdere tre partite consecutive?
Stefano Pioli è un allenatore sempre frainteso dal calcio italiano, meno “normale” e più moderno di come viene raccontato, il Milan al momento è una delle squadre più in forma e più divertenti del campionato per merito suo, ma se il prossimo anno il Milan dovesse trovarsi fuori dalla zona Champions, mettiamo a gennaio, Maldini, Massara o chi per loro, si assumeranno tutta la responsabilità del “progetto”?
Da spettatore e scrittore di calcio non posso che augurarmi che il Milan continui ad andare a mille come oggi, che Ibrahimovic continui a illuminare San Siro e lo stadio che verrà dopo di esso, che Pioli continui a migliorare il suo sistema, ma questo non c’entra niente con il modo in cui è stata trattata la notizia e con quello che significa per il calcio italiano.
Il calcio italiano tira un sospiro di sollievo
In maniera compatta, come raramente accade, la stampa e i commentatori italiani si felicitano della scelta del Milan. Proviamo per una volta a non citare le singole fonti ma a guardare il discorso complessivo formato da giornali, tv e social italiani.
La storia di Pioli è una favola: tutto è bene quel che finisce bene. La scelta del Milan non è un’inversione di marcia vera e propria, quanto piuttosto una scelta “logica”, perché non lo sarebbe stato “smontare il giocattolo”, proprio adesso che funzionava. Quella di Rangnick era “un’utopia”, mentre la scelta di Pioli è semplice “buon senso”. Maldini e Massara, in fondo, “hanno fatto anche cose buone”.
Pioli viene descritto come una brava persona, innanzitutto, ne viene lodata la dedizione, il lavoro svolto “a testa bassa”, la serietà, l’onestà e addirittura “l’immensa signorilità”; mentre su Rangnick c’era diffidenza già da prima, in Germania aveva fatto cose “interessanti” ma “non importanti” e forse non si rendeva conto “a cosa stava andando incontro”. Il Milan rischiava di “perdere un anno” ma anche guardando più in là era impossibile non chiedersi che “garanzie” dava un tecnico che a 62 anni non è mai stato cercato da un grande club, che ha vinto poco, costoso, con un “folto staff”? Che“capacità manageriali” aveva per dirigere un club nobile come il Milan per uno stipendio sopra i 4 milioni lordi?
«I tedeschi restano in Germania». Almeno è sincero.
Rangnick, quindi, non è il principale responsabile dell’ascesa del sistema Red Bull (che può anche non piacere, per carità) nel calcio europeo; e se non si accontenta di fare solo l’allenatore o solo il dirigente deve essere per “egocentrismo”. “Con tutto il rispetto”, ovviamente.
Poco importa la sua storia, che sia già stato allenatore-giocatore, direttore sportivo di due squadre diverse, allenatore-manager all’Hoffenheim prima del Lipsia, con cui nella stagione 2015/16 è salito in Bundesliga; o che il suo metodo abbia influenzato una decina di allenatori tedeschi di primo livello, fino a Jurgen Klopp portato in palmo di mano dalla stampa italiana (forse perché ha fatto “perdere” Guardiola, altro allenatore considerato arrogante).
In sostanza a me sembra che un paese diffidente nei confronti delle novità e degli stranieri si nasconde dietro il lavoro di Pioli. Se si escludono Mihajlovic e Juric, che sono cresciuti come allenatori in Italia e che non hanno mai allenato fuori dall’Italia (se si esclude l'esperienza da CT della Serbia di Mihajlovic), l’unico allenatore straniero in Serie A è Paulo Fonseca. Gli allenatori stranieri che vengono in Italia devono sempre “adattarsi”, se falliscono è per quello e se invece riescono è perché si sono “italianizzati”. Ma i peggiori sono quelli che si danno arie da “intellettuali”, che vengono qui per “insegnarci come si gioca a calcio”. Perché, come dicono molti allenatori italianissimi, il calcio è una cosa semplice.
Ed è curioso che proprio in questi giorni un altro allenatore che ha solo sfiorato il campionato italiano, Marcelo Bielsa, abbia ottenuto un risultato storico riportando il Leeds in Premier dopo sedici anni. Anche Bielsa, che oggi è raccontato come un mistico umile sempre in tuta, che vive da solo vicino al campo di allenamento, quando è saltato il suo arrivo alla Lazio era diventato un tipo pretenzioso che voleva l'hotel a cinque stelle, chiamate illimitate in Argentina e persino delle sagome per la barriera tedesche che costavano il triplo di quelle italiane. Non sarà che magari questo è il modo in cui descriviamo chi viene da fuori per professionalizzarci?
Anche in questo caso il confronto con Simone Inzaghi, che ha preso il posto di Bielsa e poi ha fatto benissimo, era fuorviante: un campionato sano valorizza i propri allenatori e cerca influenze esterne. È la storia del calcio che funziona così, è dal confronto con sistemi e mentalità diverse che si cresce. Il calcio tedesco è cambiato anche grazie a Guardiola, Guardiola e Klopp si sono influenzati a vicenda in Premier League, che si è innovata proprio grazie agli allenatori stranieri, tra cui anche italiani (Conte, Sarri, Ancelotti). Per non parlare di Cruyff e del Barcellona, dell'influenza del calcio olandese su Arrigo Sacchi, che a sua volta è una delle fonti di ispirazione di Ragnick, insieme all'ucraino Lobanovski.
Ma noi no, noi pensiamo di non aver bisogno di niente di nuovo. Anche se sappiamo che nello sport di alto livello non è possibile pensare di rimanere sempre uguali neanche quando si vince - figurarsi quando l’intero movimento nazionale è in crisi da anni - continuiamo a coltivare l’illusione che “italians do it better”. Un discorso non molto diverso da chi di fronte a problemi strutturali si consola con la mozzarella e l’olio di oliva, a pensarci bene.