Nel mondo reale, le conversazioni a cui mi è capitato di assistere legate al tema del ciclo mestruale nello sport si svolgono all’incirca così: “Hai visto? L’atleta X ha detto che aveva il ciclo”; “Eh beh, sì, in effetti può succedere.”; “Pensa per chi punta alle Olimpiadi, ti capita il ciclo il giorno della gara.”; “Oddio, ma come fanno?”.
La sequenza è più o meno questa, indipendentemente da chi e quanti siano gli interlocutori. Il punto è che per far avvenire questa conversazione è necessario un evento, un fatto o una notizia che renda manifesta l’esistenza del ciclo mestruale. A seguire subentra la consapevolezza di quanto sappiamo del ciclo, che interessa metà della popolazione umana per un lungo periodo di vita e ha una frequenza tale da non poter essere considerato episodico come l’osservazione fenomenologica vorrebbe. Il contrasto tra le due cose crea un cortocircuito, che lascia emergere il disagio: in teoria sappiamo, ma non vediamo, non sentiamo, non capiamo.
Si parla di sangue, dolore, macchie: qualcosa di disgustoso, da nascondere. Ma in qualche modo proprio il fatto che sia sempre nascosto, invisibile, lo rende un fenomeno sconosciuto e spaventoso quando appare. Non abbiamo altre categorie cognitive se non quelle della catastrofe; una disgrazia inevitabile, un handicap temporaneo che colpisce come una roulette russa. Nella domanda finale, «Ma come fanno?», c’è uno slancio di positivismo, la fiducia nel fatto che lo sport d’élite, di livello olimpico, sia il luogo dove è stata trovata una soluzione scientifica d’avanguardia. Ma se fosse così, l’evento di partenza non avrebbe motivo di esistere; e quindi il sottotesto della domanda diventa molto più esistenziale.
Ho scritto di ciclo mestruale per Fondamentali. Storie di Atlete che hanno cambiato lo sport, l’antologia di sport femminile curata da Giorgia Bernardini, e uscita il 16 febbraio per 66thand2nd, scritta con Olga Campofreda, Elena Marinelli, e Alessia Tuselli (qui trovate un estratto, se siete interessati). Fondamentali esplora concetti essenziali dello sport femminile: corpo, sangue, movimento, icone, e talento. I fondamentali sono le sequenze base di ogni sport, e le fondamentali sono le atlete che hanno cambiato tutto. Nessuno dei temi che abbiamo trattato aveva una direzione chiara e definita; non sempre avevamo le parole e le idee necessarie a raccontare, ma questo è il motivo per cui abbiamo deciso di scrivere questo libro.
Durante questo lavoro, quando avevo più domande che risposte, ho incontrato un libro importante, Period, di Kate Clancy. Clancy è una ricercatrice che si occupa di antropologia biologica, e il suo libro è stato tradotto in italiano come Ciclo. Storia e cultura dell'ultimo tabù (Luiss University Press 2024). Nel libro sfiora appena il tema dello sport, ma mi aveva illuminata, e volevo sapere di più. L’ho incontrata a dicembre, quando è venuta a Roma per la rassegna dell'editoria "Più Libri Più Liberi".
Vorrei iniziare con la domanda che sento più spesso, e cioè: come fanno le atlete a gestire il ciclo mestruale? Oppure, detto diversamente, in che modo il ciclo mestruale influisce sulle prestazioni sportive?
Ci sono tante risposte a questa domanda. Penso che una di esse riguardi quei particolari aspetti dello sport che rendono possibile considerare il ciclo mestruale come qualcosa che potrebbe influenzarlo. Ad esempio, recentemente, una delle questioni più rilevanti è quella delle divise. In molti sport, si richiede alle donne e alle persone mestruate di indossare pantaloncini bianchi, o come nel caso del beach volley, indumenti minimali. Indossare abbigliamento del genere rende difficile gestire il ciclo mestruale. Nel senso che è difficile gestire il fatto che stai sanguinando, non sporcarsi. Come pure un assorbente che si sposta continuamente perché stai correndo: quanto sono adatti questi prodotti per i corpi in movimento? Questo è sicuramente un elemento, a volte la sfida è trovare soluzioni per gestire tutto.
Aryna Sabalenka con degli shorts verde scuro per Wimbledon 2023, prima edizione in cui viene concessa questa deroga alla regola del completo bianco.
Invece, per quanto riguarda il modo in cui influisce sulle prestazioni, gli studi non sono il massimo. Ma penso che sia importante tenere presente che gli effetti del ciclo variano molto da persona a persona. Dovremmo davvero mettere in discussione chiunque cerchi di dire: «Nella fase premestruale sentirai questo, durante il ciclo mestruale sentirai quello», perché non è supportato dalla scienza. La scienza ha dimostrato che un numero molto ridotto di persone reagisce in modo significativo ai cambiamenti ormonali, mentre la maggior parte di noi non ne viene troppo condizionata. Perciò penso che dobbiamo chiederci, ancora una volta, perché continuiamo ad applicare le stesse informazioni a tutti, invece di riconoscere che siamo tutti diversi?
Nel libro racconta la storia di Katherine Switzer, la donna che ha corso la maratona di Boston nel 1967, quando le donne non erano ammesse, iscrivendosi sotto falso nome: quando ci si è accorti che fosse una donna, è stato lo stesso organizzatore della maratona ad aggredirla mentre correva. Ha scelto di parlare della relazione tra il ciclo mestruale e lo sport non concentrandosi sulla particolare esperienza di atlete, ma su questo episodio che riguarda la relazione tra la società e le donne nel contesto dello sport. Sembra dimostrare che, per quanto il ciclo possa essere doloroso e faticoso da gestire nel fare sport, il conflitto con la società è ancora peggiore.
Anche quando cerco di promuovere una comprensione più positiva del ciclo mestruale, ciò che non vorrei mai fare è negare il dolore reale che molte persone provano. Quindi penso che sia importante riconoscere il dolore mestruale come qualcosa di molto significativo, a volte persino fortemente limitante per alcune persone. Qualcuna non ce la fa a muoversi nel mondo normalmente, ha bisogno di sdraiarsi; e penso che sia giusto riconoscerlo. Ma tu nomini un punto importante. Il problema è come non ci sia permesso muoverci nel mondo. Il punto è il limite imposto su di noi strutturalmente, più che le limitazioni dei nostri corpi. Certo, quando si tratta di endometriosi, cicli dolorosi, se ci fosse una medicina più avanzata, ci sarebbero meno limiti. Ma quello che trovo molto interessante dell'incidente Switzer con la maratona è la stessa dinamica di quando le donne non sono ammesse in un certo sport, o la competizione viene separata in generi: molte volte è perché gli uomini si sentono minacciati dalle donne. Donne che sono molto brave in quello che fanno. L’abbiamo visto nel ciclismo, lo abbiamo visto nelle ultramaratone, dove le donne a volte sono migliori degli uomini. Gli scacchi. Il tiro con l’arco. A volte le donne superano gli uomini. E questo è una minaccia. Così all’improvviso diciamo: no, questo non è tiro con l'arco, ora c'è il tiro con l'arco maschile e quello femminile. Ma all’inizio c'era solo il tiro con l'arco.
Questa di Switzer è l'unica immagine che ha inserito in tutto il libro. Crede che lo sport possa essere il luogo privilegiato dove vediamo queste dinamiche, questi conflitti? È possibile che il ciclo mestruale sia da solo la prova che è necessario decolonizzare lo sport dal patriarcato?
Sai, mio figlio è trans. Abbiamo dovuto compilare molti documenti e ottenere le autorizzazioni affinché potesse partecipare alla corsa campestre nella squadra maschile quest'anno. Non è stato troppo difficile, ma c'era un po' di burocrazia, permessi, era necessario fornire prove che si identifica come un ragazzo. In questa situazione ho visto direttamente quanto siano assurde le conseguenze del modo in cui è stato deciso che c'è una binarietà di genere, e che fosse il miglior modo per suddividere le competizioni. Pensiamo al genere, e decostruiamo il modo in cui pensiamo allo sport: noi basiamo lo sport che praticherai da adulto su qualcosa che non è altro che il sesso assegnato alla nascita. E come determiniamo il sesso assegnato alla nascita? Guardiamo gli organi genitali, giusto? Di un neonato. E stabiliamo che questo determinerà tutta la sua vita. Riflettiamoci un momento. C’è chi critica le persone queer, o le persone trans e cerca di descriverle come in qualche modo problematiche, addirittura come pedofili. In realtà sembra sia proprio chi è ossessionato dalla critica sul genere o crede che ci siano solo due generi ad insistere nel prestare attenzione ai genitali di un neonato. Quanto è assurdo? E faccio questo punto perché il processo di differenziazione sessuale riguarda le gonadi; ovaie e testicoli. Queste cose costituiscono il sesso biologico. Da principio sono indifferenziate; poi si svolgono i processi ormonali, i cui esiti, negli esseri umani, sono almeno tre. E oltre a questo c’è il genere. Mi faccio prendere dal discorso, ma per tornare al tema centrale, pensando al futuro dello sport vorrei che tornassimo effettivamente alla scienza. Chiediamoci perché siamo ossessionati nel costruire una binarietà che non è reale, che non corrisponde alla scienza. E perché la usiamo per fondare le nostre definizioni di competizione e eccellenza. Come sarebbe immaginare una competizione non basata su questo? Non sto dicendo di avere una risposta. Ma sto solo dicendo che è davvero una strana ossessione che abbiamo nello sport.
Ha in mente un modello diverso? So che è una domanda davvero difficile.
Non lo so. E soprattutto sono una persona cisgender: il sesso assegnatomi alla nascita sulla base dei miei genitali corrisponde più o meno a come penso a me stessa. Quindi non sono la persona giusta a cui chiedere. Caster Semenya ha scritto un articolo sul New York Times qualche mese fa. Secondo quanto scrive lei stessa, il suo sesso è intersex, e lei è una donna. Lei dice che il suo genere è donna. Ed è molto chiara su questo. E non vedo il problema. Per cominciare, per me il primo passo potrebbe essere permettere a una persona di competere nel suo genere di appartenenza. Ma soprattutto penso che persone come Caster Semenya, o altre persone intersex o gender diverse, sono le prime persone a cui dovremmo chiedere come dovrebbe essere il futuro dello sport e della competizione. Sono certa che abbiano idee migliori di quelle che posso avere io.
Nel libro scrive che avrebbe voluto occuparsi di scienza, e invece si è trovata a dover fare politica. Anche le atlete, a volte, si trovano a dover parlare di ciclo mestruale. Si trovano a dare voce a questo tema più di altre persone in settori o lavori diversi, e hanno anche a disposizione una piattaforma più ampia. A volte probabilmente vorrebbero occuparsi solo di sport, ma si trovano come lei a dover fare politica. Eppure, allo stesso tempo, sembra che parlare del ciclo non sia sufficiente, nominarlo non basti a fare la differenza. Quindi la mia domanda è: pensa che ci sia un modo migliore per parlare di ciclo mestruale?
L’aspetto principale che trascuriamo quando parliamo di period equity, nello sport e altrove, è legato alla costante cornice negativa, come se il ciclo fosse un terribile peso da sopportare, un problema che le persone mestruate devono affrontare. Penso che possiamo immaginare soluzioni, possiamo aver rispetto per tutti i corpi, senza dover demonizzare un processo corporeo. Molte delle questioni legate all'equità mestruale e alla gestione del ciclo mestruale si incentrano sull'idea che sia terribile avere il ciclo. Il problema dell’equità mestruale è che così si concentra solo sul nascondere il ciclo, sui prodotti per gestirlo; e rinuncia all’opportunità di parlare di accesso e inclusione. Chi stiamo escludendo dalla conversazione? Chi non ha un posto al tavolo?
È vero, le atlete parlano di ciclo mestruale principalmente quando si tratta di dire "Non ho vinto oggi perché avevo dei crampi, non mi sentivo bene". Ma non sentiamo mai le atlete parlare della loro relazione con il ciclo mestruale in modo positivo.
Esatto. Vorrei evitare qualsiasi forma di positività tossica: non voglio mai far sembrare che le persone debbano sentirsi bene riguardo al sanguinare. Non è sempre un'esperienza divertente, e può essere dolorosa. Ma credo che abbiamo l'opportunità di cambiare e chiederci: perché è così male? Perché è inevitabile, e le persone che mestruano dovrebbero solo accettare che il dolore fa parte della loro vita? O forse perché non abbiamo una migliore gestione del dolore per il ciclo mestruale? Perché non abbiamo tecnologie migliori? Perché non abbiamo una migliore conoscenza scientifica? Perché non abbiamo migliori medicine e trattamenti per le persone che soffrono durante il ciclo? Il tema non dovrebbe essere accettare la sofferenza come parte della vita: dovremmo chiederci, quale ricerca ci consentirebbe di migliorare la qualità della vita delle persone?
Questo è essenziale, soprattutto dal punto di vista sociale. Vorrei approfondire, passando a uno sguardo interno alla dimensione sportiva. Pensa ci siano problemi specifici, o aspetti che possono essere migliorati ad esempio nel modo in cui lo sport viene insegnato, allenato? O nel modo in cui lo sport è regolato e governato? Forse anche nel modo in cui parliamo dello sport, alla copertura mediatica degli eventi sportivi? C'è qualcosa che possiamo fare meglio a diversi livelli, ma all'interno dello sport?
Certamente. Non so se ho l'esperienza necessaria per rispondere in modo completo. Per quanto mi riguarda, sono un'atleta da tutta la vita, amo praticare sport. Ho giocato a calcio, ho corso su pista, ho praticato il roller derby. Ora mi dedico solamente al sollevamento pesi, a casa mia. Ma per me, specialmente con il tempo, ciò che mi rende triste è come ci si focalizzi così tanto sulla competizione. Il movimento, la funzionalità, sono elementi importanti, è fondamentale mantenere la massa muscolare. Soprattutto con l’avanzare dell’età; ma ci sono pochissime opportunità sportive, almeno negli Stati Uniti. Man mano che invecchi devi cavartela da sola: non posso unirmi a una squadra, sono troppo vecchia, giusto? Non ci sono squadre per me. Per me questo è il punto centrale: vorrei che le persone avessero accesso al movimento per tutta la vita. Mentre per la maggior parte delle persone finisce al massimo al college. Anche la competizione, è divertente. Mi manca competere, e sarebbe bello avere più opportunità competitive nella vita. Partirei sicuramente dal tema dell’accesso al movimento, accesso alla competizione. Perché è una parte davvero significativa dello sport.
Probabilmente molte ragazze adolescenti o preadolescenti abbandonano lo sport quando arriva il ciclo mestruale. E questo è triste proprio perché le priva di quello di cui stava parlando; le emozioni di essere in campo, magari far parte di una squadra, oltre a moltissime altre cose. Non è un fenomeno che potremo mai conoscere pienamente, perché la maggior parte delle persone non dicono neanche: «è stato a causa del ciclo mestruale»; anzi forse il motivo è perché non sentivano più di appartenere a quell’ambiente.
Esatto. E l'altro motivo, che penso renda ancora più problematica la divisione in due generi, riguarda anche i ragazzi queer, lesbiche, gay, bisessuali, transgender. Lasciano lo sport in numero elevatissimo. Perché: a quale squadra dovrebbero unirsi? Anche supponendo che siano cisgender, ma gay, potrebbero trovarsi di fronte a comportamenti omofobi all’interno della squadra stessa. Mio figlio ha sentito alcuni ragazzi della sua squadra dire cose non bellissime. E quei ragazzi sono suoi compagni di squadra, giusto? Quindi sì l’abbandono dello sport potrebbe essere dovuto al ciclo, o allo stigma verso il ciclo, potrebbe essere a causa di altre forme di comportamento sessista, omofobia, transfobia. Credo che dobbiamo chiederci perché lo sport, che dovrebbe essere una delle cose più inclusive che facciamo, è così escludente. Perché perdiamo così tante persone così giovani?
Parlando di corpi: alcuni anni fa, la maratoneta Paula Radcliffe ha dichiarato che «lo sport non ha imparato nulla riguardo al ciclo mestruale». L’ha detto su un episodio legato a una sua collega, un’atleta di nome Jessica Judd, a cui fu somministrato noretisterone per ritardare il ciclo in occasione del Campionato del Mondo del 2013 - e la gara finì comunque male, e in lacrime. Quello a cui si riferiva Paula Radcliffe è che è completamente sbagliato il modo in cui consideriamo il ciclo il problema. Di fatto non esiste uno sport nel mondo che non possa essere praticato da una persona con le mestruazioni. Il problema probabilmente è più trattare il ciclo nel modo sbagliato; o le pratiche sbagliate volte solo a sopprimerlo.
Conosco persone che fanno ricerca su questo. Quello che è frustrante è che la dimensione dei campioni di riferimento è insufficiente: il numero di persone coinvolte in questi studi è troppo ridotto, spesso sono otto persone, venti persone. E le ricerche stesse sono pochissime. Il poco che sappiamo è che i contraccettivi ormonali sono un trattamento specifico che si assume, proprio come qualsiasi altro, per un motivo, ma avrà anche altri effetti collaterali. Provoca cambiamenti non intenzionali e non previsti nel corpo, oltre al ritardo del ciclo o alla prevenzione della gravidanza, che possono riguardare ad esempio il metabolismo. O addirittura la depressione. La perdita del desiderio sessuale. La posta in gioco è alta; e per contro, questo non vale per tutti, giusto? Non tutti con contraccettivi ormonali portano alla depressione. Non tutti perdono il desiderio sessuale. Sono effetti collaterali sperimentati da alcune persone. Ma dovremmo farci qualche domanda sulla qualità di questi trattamenti, dal momento che c’è un tasso di interruzione del 50%, il che significa che circa la metà delle persone che prova un qualche tipo di contraccettivo di solito lo smette, a causa degli effetti collaterali. Quindi è evidente che questo può influire sulle prestazioni sportive, può influire sul sonno, può influire sull'umore.
C’è un caso recente, di meno di dieci anni fa. C'è stato un trial clinico sui contraccettivi ormonali per gli uomini. E hanno dovuto interrompere il trial perché gli uomini stavano iniziando a sperimentare depressione. È perché lo troviamo inaccettabile, giusto? Un effetto collaterale per gli uomini è inaccettabile e il trial viene interrotto. Per le donne, invece, è tranquillamente accettato. È così. Proprio come il dolore del ciclo, è qualcosa che devi sopportare. La depressione da contraccettivi ormonali è qualcosa che devi sopportare, così come la perdita del desiderio sessuale. Il piacere femminile non conta comunque, giusto? Mi chiedo, perché accettiamo questa riduzione della qualità della vita, di partecipare a meno cose. Perché per chi mestrua e per chi ha un utero accettiamo cose che non accetteremmo mai, mai, mai per coloro che non ce l'hanno?
Le faccio una domanda personale. Io ho trovato il suo libro mentre facevo ricerca sul rapporto tra ciclo mestruale e sport per un’antologia sullo sport femminile, Fondamentali. Trovare il suo libro, Period, è stato per me come trovare IL libro: un supporto fondamentale su un tema veramente complesso. Leggendo mi sono resa conto delle diverse sfide che ha dovuto superare per scrivere questo libro. È un argomento così difficile da affrontare, è difficile parlarne e scrivere, sul piano personale, sociale, culturale, scientifico. Quindi la mia domanda è: pensa che il discorso sul ciclo mestruale possa essere liberato? Possiamo iniziare a costruire qualcosa, sarà più facile in futuro parlare del ciclo?
Penso di sì. Penso che la generazione Z ne stia parlando molto più apertamente di quanto abbiamo mai fatto noi, il che mi incoraggia molto. Penso che dovremmo anche ampliare la prospettiva, smettere di concentrarci così tanto sulla gestione mestruale e sui prodotti. C’è un’ossessione nel cercare soluzioni basate su prodotti: biancheria intima mestruale, assorbenti, tamponi, coppette. Dobbiamo iniziare a riconoscere che sono tutte strategie per la dissimulazione, che fa parte dello stigma. E invece dire, beh, su cosa altro potremmo concentrarci? Ad esempio la partecipazione, l’accessibilità: quali limiti stiamo imponendo? In che modi possiamo aiutare le persone a partecipare meglio alla vita pubblica? Potremmo fare domande del genere, sarebbe interessante. Arrivare a costruire una period equity, una giustizia mestruale. Che può avere sicuramente qualcosa a che fare con la giustizia per le persone disabili; hanno molto in comune, il percorso può essere condiviso. Il principio “Nothing About Us Without Us”, “Nulla per noi senza di noi”, è valido e può senz’altro portarci nella giusta direzione.
C’è qualcosa di positivo da cui potremmo partire, se dovessimo indicare un punto di partenza per superare lo stigma sul ciclo mestruale?
Per me, l’aspetto principale è l'evoluzione. La capacità di evolvere, i motivi dell’evoluzione. Il ciclo mestruale è cruciale per il funzionamento dell'utero. L’utero evolve e cambia, si esprime in forme pratiche, per insegnare al tessuto come formare la struttura giusta per un eventuale impianto o una potenziale gravidanza in futuro. Quindi per iniziare è giusto rendersi conto che il ciclo mestruale è utile. Senza di esso, avremmo effettivamente una riproduzione molto meno efficace. In un certo senso è come dire: "Beh, non mi piace proprio respirare. Non ne capisco il punto". Un motivo c’è, almeno tra le persone che vorrebbero avere figli. Naturalmente questo non vale per tutti, ed è anche per questo che penso che la soppressione mestruale sia altrettanto importante. Deve essere un punto centrale per il futuro, se non si desiderano figli e non si vuole continuare a soffrire o vivere il ciclo mestruale. Ma se si desiderano figli è una cosa positiva che il tuo corpo sta facendo, che ha molti effetti positivi, può evitare complicazioni, e dimostra una straordinaria capacità di adattamento.