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06 giu 2019
Toronto ha fatto ciò che doveva e ha vinto gara-3, nonostante uno straordinario Steph Curry da 47 punti.
(articolo)
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Quando viene alzata la palla a due di gara-3 tra Golden State Warriors e Toronto Raptors, il fantasma di Kevin Durant continua ad aleggiare ai margini del campo, nell’attesa - qualcuno sostiene vana - che si materializzi molto presto. Gli Warriors hanno deciso di continuare a fare a meno dell’MVP delle ultime due Finals, scelta annunciata con largo anticipo, oltre che di Kevon Looney e di Klay Thompson. Ma se l’assenza del lungo ex-UCLA, divenuto elemento fondamentale per Golden State dopo l’infortunio di Durant, era ormai da mettere in preventivo (la sua stagione è già da considerarsi conclusa), quella del secondo Splash Brother complica non poco il piano difensivo di coach Steve Kerr.

Con Shaun Livingston inserito nello starting five, Draymond Green è costretto a difendere da subito su Kawhi Leonard, facendo giocoforza mancare quegli aiuti in modalità blitz che erano stati così efficaci per limitare l’efficacia dell’attacco di Toronto nel secondo tempo di gara-2. Il risultato è che i Raptors trovano subito tiri aperti con troppo agio, e anche quando il raddoppio su Leonard arriva con tempi accettabili, la stella di Toronto riesce a frustrare le buone intenzioni della difesa avversaria.

Bell e Green tramortiti dalla prepotenza fisica di Leonard (anche per il pessimo angolo di closeout del primo).

I campioni in carica restano attaccati alla partita grazie all’ostinazione e al talento di Steph Curry (17 punti nel solo primo quarto). Proprio il talento, però, si rivela presto il problema principale per Golden State, perché anche quando la difesa prova ad attenersi alle indicazioni ricevute (raddoppi su Leonard e che ci battano gli altri), il gap tra i singoli protagonisti in campo si manifesta in momenti in cui il predominio fisico e tecnico dei Raptors appare evidente.

Pascal Siakam punta Jerebko, Cook e Iguodala sono timidi sull’aiuto e l’ala dei Raptors ha la meglio: 14 dei suoi 18 punti sono arrivati in uno splendido primo tempo.

Le assenze pesano anche in attacco, dove Green non può spingere il contropiede con la consueta maestria perché non ci sono tiratori - ad eccezione di Curry, costantemente raddoppiato - ad aprire il campo. Toronto dall’altra parte si può concedere il lusso di gestire i problemi di falli dell’altro Green, Danny, che con 8 minuti sul cronometro del secondo quarto ne ha già messi tre a referto. Non solo: Lowry e compagni rimangono avanti nel punteggio nonostante i quattro minuti senza segnare un singolo punto nel cuore della seconda frazione. La difesa dei canadesi, puntellata da un Serge Ibaka in versione 2012 (il suo tabellino a fine partita riporterà 6 stoppate, di cui quattro in uno straordinario quarto finale), costringe per ben due volte gli Warriors a far suonare la sirena dei 24 secondi senza prendere un tiro.

La vana attesa

Nonostante il -8 all’intervallo lungo possa essere considerato un discreto affare per i padroni di casa, a differenza di gara-2 nel secondo tempo la partita prosegue sugli stessi binari del primo e l’attesa per la classica fiammata dei padroni di casa è vana. Gli Warriors, infatti, sembrano avere poca energia e risorse alquanto limitate, anche per un DeMarcus Cousins più vicino a quello visto in gara-1 (definito dal lui stesso come “orribile”) rispetto a quello di gara-2. Toronto, viceversa, fa quello che deve fare, approfittando della superiorità conclamata per mettere punti facili, troppo facili per una finale NBA.

La difesa di Golden State collassa sulla penetrazione di Gasol, lasciando solo Lowry nell’angolo: vista la serata al tiro del playmaker (5/9 da tre), si tratta di una brutta scelta.

Se Ibaka si è presentato in versione 2012, il Danny Green di gara-3 assomiglia parecchio a quello che nelle due finali disputate in maglia Spurs aveva tirato con oltre il 50% da dietro l’arco. Tre delle sei triple messe a segno dalla guardia ex San Antonio Spurs arrivano in un momento decisivo del terzo quarto e soffocano i peraltro timidi tentativi di rimonta orchestrati da Golden State. A rimettere in partita gli Warriors ci prova allora il pubblico di casa, che in alcuni momenti eccede nell’interpretazione del ruolo di sesto uomo in campo. Leonard, tuttavia, non è tipo facilmente impressionabile e si dimostra chirurgico nel vanificare il frastuono della Oracle e le ultime vampate di Green e Curry: 21 dei 30 punti di Kawhi arrivano nella seconda parte di gara in cui la stella di Toronto tira con il 70% dal campo, salendo di colpi non appena cala la resistenza fisica della difesa di Golden State, che non riesce più a impedirgli la via verso il canestro senza commettere fallo.

Kerr prova la mossa della disperazione tenendo sul parquet un Cousins fin lì disastroso (-26.8 il Net Rating in meno di venti minuti giocati) e affiancandogli Jordan Bell nella speranza di alzare l’intensità difensiva dei suoi, senza però produrre gli effetti sperati. A fare la differenza è invece la convinzione nei propri mezzi maturata dal supporting cast dei Raptors, alimentata nella bolgia della serie con i Sixers e germogliata durante la rimonta ai danni dei Bucks in finale di conference. L’aggressività con cui Lowry (23 punti, 9 assist e +14 di plus/minus a fine gara) prende e mette tiri pesanti evita che l’attacco di Toronto si faccia asfittico pesando solo sulle spalle di Leonard, mentre lo stile poco ortodosso delle incursioni nel pitturato di Siakam (+25.2 di Net Rating, il migliore della serata) ne rende ancora più complicata la marcatura, anche per veri e propri maestri della difesa come Green e Iguodala. In aggiunta, Fred VanVleet è in questo momento senza ombra di dubbio il nome più gettonato nelle risposte al classico quesito “a chi affideresti il tiro da cui dipende la tua vita?”: la sua tripla del +13 a 100 secondi dalla fine chiude una partita che a conti fatti non è mai stata in bilico, regalando a Toronto una di quelle vittorie che solo a posteriori appaiono scontate visto che avevano tutta la pressione addosso di “dover vincere”.

Tripla allo scadere dei 24 secondi sull’uscita di Green: dicesi stato di grazia per VanVleet.

Cambio di sceneggiatura

Per la prima volta negli ultimi cinque anni il copione delle Finals si presenta completamente diverso: la trama di fondo non è più quella che contempla il mantra “solo gli Warriors possono sconfiggere gli Warriors”. Il vantaggio in termini di talento, apparso incolmabile dopo l’arrivo di Kevin Durant, sembra essersi azzerato a causa degli infortuni e del logorio fisico frutto di questa lunga avventura ai vertici della lega più competitiva al mondo. In gara-3 Toronto ha mandato sei uomini in doppia cifra, dominando ogni voce statistica; gli Warriors, infine, sono stati schiacciati proprio dalla tanto magnificata Strength in Numbers, senza riuscire a trovare protagonisti inattesi che riempissero i vuoti lasciati da Durant, Thompon e Looney.

Questo non significa che grosso del merito non lo abbia Toronto. I Raptors hanno segnato la bellezza di 1.59 punti per possesso dopo un canestro subito, ovvero affrontando una difesa avversaria schierata, dato ancora più strabiliante del già notevolissimo 1.48 registrato in gara-1 e da molti considerato irripetibile (la media di Toronto nei playoff è 1.07). Dall’altra parte, ad eccezione di un Curry ai limiti dello stoicismo - 47 punti in una sconfitta alle Finals li aveva fatti solamente LeBron James un anno fa con quei 51 in gara-1 -, Golden State ha avuto troppo poco dal resto della squadra che ha tirato con il 38.6% dal campo mandando a segno la miseria di sei triple complessive, pari a quelle mandate a bersaglio dal solo Curry, che a 8 minuti dalla fine aveva 45 punti a referto contro i 46 di tutti i suoi compagni messi assieme.

Al di là dei numeri, peraltro già più che eloquenti, ad impressionare è stata la determinazione con i ragazzi di Nurse sono arrivati in California, atteggiamento che si è tradotto nel controllo totale, emotivo ancor prima che tattico, della partita fin dal primo minuto. Con l’arrivo di Leonard e il cambio in panchina, l’impressione è che l’orgoglio dei Raptors per tutto quello che hanno saputo costruire nel corso degli anni si sia trasformato in fiducia nei propri mezzi, condizione necessaria per non farsi soggiogare dalla fama degli Warriors, ancor prima che dagli Warriors in carne ed ossa. I festeggiamenti parecchio sobri dopo la sirena finale di gara-3 sembrerebbero altresì testimoniare la consapevolezza di essere solamente a metà di una missione ora davvero possibile, ma che di certo non può ancora dirsi ancora compiuta.

Il nemico alle porte

A stabilire come proseguiranno queste Finals potrebbe quindi essere la tenuta psicologica dei Raptors, da qui in avanti padroni del loro destino. Di fronte a Leonard e compagni si apre un orizzonte imperscrutabile fino a qualche settimana fa, quello di vincere il titolo NBA semplicemente difendendo il proprio terreno di casa nelle prossime due gare interne, dandosi anche due chance di accorciare ulteriormente la serie sbancando di nuovo la Oracle. Per contro, le novità che arriveranno dall’infermeria di Golden State potrebbero orientare la serie in un senso o nell’altro, con i campioni in carica ora davvero sull’orlo del precipizio come mai in passato (non perdevano una partita di finale in casa da gara-7 contro Cleveland nel 2016). Certo, a dar retta al portavoce dello spogliatoio, gli Warriors sembrerebbero avere ancora molto fiduciosi, ma saranno le prossime partite a dirci se la consueta tracotanza di Draymond Green passerà alla storia come una lucida profezia oppure come l’ultimo, disperato ruggito di chi intravede il trionfo avversario alle porte e non ha più le forze per reagire.

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