
Poco prima della fine del primo tempo Rayan Cherki riceve palla sulla fascia destra. Ha l’uomo addosso e prova a saltarlo di tacco, ma quello non si fa fregare e la palla si incastra tra i loro corpi, a mezz’aria. Cherki esce vincitore da quel rimpallo con un altro tacco, poi salta il difensore che si trova davanti con una sterzata a sinistra. Il difensore fa una spaccata ma Cherki gli gira al largo come una moto che passa in mezzo ai birilli dell’8 per l’esame della patente. Poi salta un altro difensore con un doppio passo e una sterzata sul destro. A quel punto è in area di rigore e calcia incrociando, con pochissimo angolo, il tiro è così così e il portiere lo para coi pugni.
Alla sua terza partita di campionato, la prima da titolare quest’anno, Rayan Cherki è stato votato dai tifosi come miglior giocatore del Lione al termine della vittoria (2-0) con il Nantes. Quest’estate sembrava dovesse andare via - PSG, Dortmund, in Italia si parlava della Lazio - e con la Nazionale Olimpica ha perso la finale con la Spagna, anche se Thierry Henry lo ha fatto giocare pochissimo lungo tutto il torneo. Alla fine Cherki ha firmato il rinnovo per altri due anni col Lione, condizione necessaria per il suo ritorno in campo. D’altra parte, fin da quando ha firmato il suo primo contratto da professionista a 16 anni dice che il suo sogno più grande è vincere tutto con il Lione. Tutto. Anche il Pallone d’Oro.
Pierre Sage, il suo allenatore, lo fa giocare ormai da tempo nella fascia centrale del campo, sulla trequarti dietro Lacazette. La sua influenza nel gioco passa attraverso un lavoro da raffinato playmaker offensivo, a legare il gioco tra le linee o sull’esterno, sfruttando più i suoi controlli e la tecnica dei suoi passaggi che le qualità da aletta dribblomane per cui è diventato famoso da prima che fosse adolescente. «Il mio gioco è cambiato», ha detto in una conferenza pre-partita lo scorso aprile «adesso mi dà tanto piacere dribblare quanto giocare di prima, fare le sponde». Certo, molte delle sue sponde sono anche quelle di tacco, giocate comunque difficili, artistiche. E le qualità da dribblomane ci sono sempre, come dimostra l’azione descritta sopra.
Cherki però vuole allontanarsi da quell’immagine, da quell’idea un po’ stereotipata e, se si parla di giovani talenti con origini nordafricane, come lui, legata a pregiudizi razziali. «Farò di tutto per non diventare un giocatore da highlights», ha detto qualche mese Cherki in un’intervista col magazine So Foot. Eppure è anche, è ancora, un giocatore da highlights. Dopo la partita col Nantes sia il Lione che la Ligue 1 lo hanno utilizzato proprio a questo scopo. Che male c’è in fin dei conti a essere un giocatore perfetto per gli highlights?
C’è una distorsione culturale per cui il dribbling è considerato un gesto inutile, se non addirittura in antitesi con l’efficacia. Un gesto che per qualcuno è diventato simbolo di egoismo, senza nessuno scopo collettivo. Inutile dire che, invece, il dribbling serve eccome, crea spazio, smuove le difese, e che i giocatori di questo tipo, quelli capaci di dribblare un camion sull’autostrada, sono tanto rari quanto preziosi, specialmente in un calcio di duelli, sempre più intenso, come quello contemporaneo.
Al pubblico conservatore però i dribblatori non piacciono. Chiedono loro di cambiare, di mostrare una maturità diversa. Anche a costo di vederli appassire come piante senza più acqua. Daniel Riolo, uno dei più conosciuti e influenti commentatori calcistici francese, ha detto che è rimasto impressionato da quell’intervista di Cherki a So Foot. «Ho visto un ragazzo determinato, che ha voglia di lavorare, di arrivare in alto. Vuole smarcarsi dall’immagine di quello che tiene troppo palla, fastidioso in campo, che gioco con la squadra. Ha voglia di migliorare». Appunto.
Daniel Riolo è diventato famoso con un libro dal titolo Racaille Football Club. Erano gli anni turbolenti della nazionale francese, quelli successivi allo sciopero di Kinshasa nel Mondiale 2010 quando, successivamente all’espulsione di Anelka dal gruppo, il resto della squadra si rifiutò di scendere dal pullman per allenarsi. Gli anni dello scandalo Zahia (una escort minorenne con cui sarebbero andati Benzema e Ribéry) e precedenti al ricatto di Benzema a Valbuena. Giocatori come Ribéry e Benzema per Riolo erano agenti disgregatori, simbolo della mancata integrazione francese, o meglio, come la chiama Riolo: dell’integrazione al contrario.
Non era un caso che la Francia faticasse a qualificarsi al Mondiale del 2014, quasi eliminata dall’Ucraina ai playoff. Appena quattro anni dopo, nell’edizione successiva, la Francia avrebbe vinto il Mondiale e un giocatore come Kylian Mbappé sarebbe diventato così importante da ricevere pressioni dal Presidente della Repubblica per non lasciare il PSG. I calciatori francesi oggi arrivano a Clairefontaine per il ritiro della Nazionale vestiti come se stessero sfilando (non tutti, ma neanche solo Jules Koundé) e hanno fatto sentire la loro voce durante le ultime elezioni legislative e, ancora oggi, sulla questione palestinese.
Che le cose avrebbero preso questa piega Riolo non poteva saperlo e, in ogni caso, è stato sufficiente aggiustare di poco il tiro: il suo libro più recente si chiama Caos Football Club, dove comunque parte del problema del calcio resta la sua ghettizzazione.
Sono temi delicati e scivolosi e al tempo stesso banali. Franck Ribéry non piaceva a certa borghesia francese perché 1) si è convertito all’Islam e 2) ha sempre parlato male. La sua caricatura nel programma satirico Les Guignols era piena di errori grammaticali e storpiature ma ne replicava anche la parlata da coatto - cioè da racaille, come dicono i francesi. Rayan Cherki non parla affatto così, per questo piace a quelli come Riolo.
Cherki è stato scoperto da un allenatore del Lione quando aveva sette anni e stava palleggiando, da solo, in un parcheggio vicino al campo dove stava giocando il fratello. Su di lui ci sono video di highlights individuali da quando ha più o meno tredici anni - in una partita con il Barcellona lo vediamo giocare contro Xavi Simons, un altro bambino prodigio che ha faticato per entrare nel mondo reale. La cosa buffa è che Cherki non era più piccolo degli altri, non doveva sopravvivere con la tecnica in un contesto ostile, come succede in molte storie di talenti simili al suo, no, lui era più grande degli altri, era un continuo di roulette alla Zidane ma poi usava il fisico per coprire eventuali sbavature.
Il canale Telefoot a un certo punto ha fatto anche una piccola serie per ricostruire la sua storia. Con la faccia seria anche a sedici, diciassette anni, Cherki cita i suoi modelli, dice di ispirarsi ai più grandi talenti emersi da Lione: Karim, ovviamente, perché nonostante i problemi in Nazionale parliamo di un Pallone d’Oro che ha vinto tutto col Real Madrid; e poi Nabil, cioè Fekir. Non nomina invece lo spauracchio di Hatem Ben Arfa, il giocatore forse a cui somiglia di più, sia per la precocità che per il tipo di talento.
Un esempio in negativo, però, di come non esista talento sufficientemente grande (Ben Arfa è, a detta di molti suoi ex compagni di squadra e avversari, il giocatore più forte che abbiano mai visto dopo Messi) per proteggerti dalle pressioni. Ben Arfa è stato esposto sin da piccolo alle telecamere e non se l’è mai cavata granché bene, troppo sincero, troppo emotivo, troppo nudo. Però è strano vedere Cherki che prende lezioni di comunicazione da un tizio che gli insegna a dire “sono convinto” invece di “credo che” nelle interviste… dov’è il limite tra essere preparati, non essere nudi, ed essere finti?
Tutto questo si lega anche al suo modo di giocare. Al suo tentativo di essere un giocatore a cui nessuno possa rinfacciare di non giocare con la squadra. È come se Rayan Cherki avesse adottato il punto di vista dei suoi critici, aderendo ai loro giudizi anche se andavano parzialmente contro la sua natura.
Ma è anche una questione di convenienza. Cherki sa di non avere l’esplosività per giocare sull’esterno ad alto livello. Le sue progressioni sono limitate a poche decine di metri ed è il dribbling tecnico quello con cui si procura spazio, ma deve farlo in continuazione per non farsi recuperare e sommergere dai recuperi, dalle ondate difensive. Cherki non ha il fisico di Ben Arfa, che nonostante fosse sotto il metro e ottanta aveva un passo lungo e una leggerezza nella corsa che gli permettevano di mangiarsi il campo in pochi secondi. Cherki ha il fisico pesante da pugile (il suo secondo sport), è rapido ma quella rapidità è l’unica velocità in suo possesso, non sembra accelerare.
Cherki ha molto più bisogno dei propri compagni di quanto non ne avesse Ben Arfa. Forse il vero spauracchio da cui dovrebbe restare lontano è quello di Yoann Gourcuff, playmaker solitario (non a caso, nell’immaginario della Francia di Riolo, vittima del bullo Ribéry in Nazionale, proprio in quel terribile Mondiale 2010). Il fatto che qualcuno abbia in mente il modo in cui giocava a diciassette, diciotto anni, non lo riguarda tanto da vicino quanto il fatto che debba adattarsi a un calcio in cui non è del tutto autosufficiente.
Resta un giocatore pericoloso, sempre più pericoloso mano a mano che si avvicina alla porta avversaria, e a suo modo utile, anche quando prova a fare tutto da solo. La settimana scorsa contro i Rangers di Glasgow, in Europa League, è partito da destra all’altezza del limite dell’area, si è accentrato usando la sponda di un compagno e poi è entrato in area con una croqueta bruciante, passando in mezzo a due avversari. Poi però si è trovato di fronte a un muro, altri difensori, e non sapeva cosa fare. Se non fosse arrivato Malick Fofana, da sinistra, a calciare in porta, non sarebbe stato un assist, il suo.
Il suo secondo assist di quella partita (finita 4-1 per il Lione, in Scozia) invece è stato più pulito. Sempre a destra, entrando in area sul sinistro con un doppio passo e poi sterzando verso il fondo del campo prima di mettere dentro un cross rasoterra, sempre per Fofana sul secondo palo. Una giocata, questa, che mette maggiormente in luce le sue qualità: la tecnica, certo, i dribbling, il modo in cui fa perdere l’equilibrio ai giocatori che lo marcano, ma anche e soprattutto il fatto che è praticamente ambidestro.
Ci lavora da quando ha quattro anni, dice, sul suo piede debole, il destro. E oggi Cherki porta palla, passa e tira indifferentemente con entrambi i piedi. Il che, come nel caso di giocatori come Kvaratskhelia, lo rende praticamente immarcabile. Non puoi impedirgli il tiro col sinistro e al tempo stesso il cross col destro. E se temporeggi troppo, se aspetti sperando che prenda una decisione conservativa, ti passa semplicemente attraverso.
Cherki sa di avere bisogno dei suoi compagni di squadra. Sa di essere molto più un giocatore da collettivo di quello che pensano i suoi critici. Tempo fa, quando stava facendo i primi passi da professionista, quando gli hanno chiesto quali erano i suoi obiettivi, lui ha risposto: «Giocare bene col mio club, entrare definitivamente in prima squadra e lasciare un segno nella storia del calcio francese».
Lo ha detto così, senza una pausa tra entrare in prima squadra e nella storia del calcio francese, come se non ci fosse niente tra queste due cose, come se per lui fosse solo una questione di diventare, professionista, giocare con continuità, non avere problemi, e allora sì, per forza, lascerà un segno. La strada è lunga e non dipenderà solo da lui, o dalle sue qualità. Per Rayan Cherki essere egoista non è un’opzione.