Un principe sa che ereditare la corona è solo questione di tempo.
Rui Costa non sembrava mai di fretta. Aveva qualcosa che sembrava flemma e invece era calma. Un modo di correre paziente e senz'ansia, una libertà dall'immediatezza del gesto. I calzettoni abbassati, i parastinchi a vista, tesseva gioco come se costruisse architetture. Non sembra casuale che abbia la passione dei puzzle, “quelli dai tre ai cinquemila pezzi”.
Dev'essere stato così da sempre, se alla prima stagione da professionista i tifosi del Fafe lo avevano soprannominato “Principino”. D'altronde, poi, il suo riferimento assoluto era Platini, ovvero “le Roi”. E il suo film preferito èBen Hur, la storia del riscatto di un principe.
Supplementari di Portogallo-Inghilterra, quarti di finale di Euro 2004. Rui avanza, calmo. Valuta. Tiene l'avversario a distanza, protegge la palla mentre quello gli si spalma addosso e cade. Poi tira forte sotto la traversa. Perché Rui Costa magari non segnava tanto, ma tirava forte.
Ha spiegato che grazie al suo ruolo non doveva picchiare in campo, e che non ne sarebbe stato capace.
Ha ricevuto due espulsioni in diciotto anni di calcio professionistico. La prima, da ragazzino al Fafe. La seconda, molto più importante, per un pasticcio in cui non aveva colpa. Durante un Portogallo-Germania delle qualificazione ai Mondiali '98, mentre esce per essere sostituito, l'arbitro gli mostra il cartellino rosso con l'accusa di rallentare volontariamente il gioco. I lusitani sono in vantaggio, ma l'inferiorità pesa e nel finale vengono raggiunti dai tedeschi. Le lacrime di Rui a bordo campo scendono insieme alla paura di non accedere alla Coppa del Mondo. Va proprio così. Alla fine di quella gara, ricevette le scuse dell'arbitro: “Ma io non sapevo che farmene”.
Metteva d'accordo chi ama la fantasia al potere e chi vuole pragmatismo. I suoi colpi di tacco, la palla sotto la suola, i tocchi d'esterno, erano sempre funzionali. Belli ma funzionali. E avevano qualcosa che si può chiamare umanità. Cercava di continuo un contatto visivo col pallone, come se potesse perderlo. Rui Costa non dava la sensazione di essere una macchina di potenza e tecnica, un super-uomo privo di dubbi: sembrava che le meraviglie gli uscissero dai piedi grazie a un intenso lavoro, non per un dono sovrannaturale.
Aveva equilibrio in campo e fuori. Niente sregolatezza, niente del numero dieci rappresentato dalla vulgata. Un genio senza gli eccessi del genio, che rovescia l'immagine dell'estroso tormentato, dell'inquieto che non sa contenere la sua diversità tecnica e per sfogarsi l'accende e l'adombra in base ai momenti.
Piedi superbi, visione spaziale e rapporto col tempo che sembravano estendersi oltre le possibilità umane. Avrebbe potuto esibirsi, mettere in mostra trick e controtrick per impressionare. Invece si limitava, probabilmente per una combinazione tra senso della misura e timidezza. Quando Trapattoni lo esortava a parlare di più in campo, lui rispondeva che non era nel suo carattere.
In viola.
Rui Manuel César Costa è nato il 29 marzo 1972. Appena venticinque mesi dopo, la “Rivoluzione dei garofani” avrebbe rovesciato il regime autoritario che schiacciava il Portogallo da quasi mezzo secolo.
È cresciuto a Damaia, quartiere popolare nel comune di Amadora, distretto di Lisbona, nella stessa casa dove lo zio aveva il negozio di ciabattino. Figlio unico, perché “proprio non avrebbero potuto allevarci, in due”. Da queste parti c'è il Palácio dos condes da Lousã, dove tra Ottocento e Novecento ha vissuto lo straordinario Manuel António Gomes, detto “Padre Himalaya” per la sua altezza, prete e scienziato, pioniere dell'energia solare e delle fonti rinnovabili.
Al Maestro, la squadra giovanile locale ha dedicato il Torneio Rui Costa, che ha raggiunto le venticinque edizioni. In quel Damaia Ginásio Clube lui ci aveva trascorso molto tempo, tra i cinque e i nove anni, alternando calcio e hockey su pista. Poi arrivò il grande salto nella squadra del suo cuore. Perché la prima parola che Rui ha detto nella sua vita è stata “gol”. La seconda, “Benfica”.
13 marzo 1982, ore 10. Campo 4 del centro sportivo, senza erba.
Rui Costa ha nove anni e deve dimostrare il suo valore sotto gli occhi di Eusébio, che sta al di là di una recinzione. Si sta giocando l'opportunità di entrare nelle giovanili del Benfica, lo sta facendo di fronte al più grande calciatore portoghese d'ogni tempo. Il provino ha inizio. Rui Costa evita due avversari con un pallonetto. Rui Costa salta tre avversari e va in porta da solo. Eusébio ferma tutto, Rui Costa viene preso. Sono passati dieci minuti.
Il campo del Damaia Ginásio Clube, dietro casa, dov'è cominciato tutto.
Rispetto ai suoi nove anni, la prima squadra e lo stadio “Da Luz” sono lontani. Non è detto che ci arriverà.
Intanto gioca nelle formazioni giovanili e fa il raccattapalle, e se gli rifiutano un autografo ci resta male; dirà poi: “Per questo adesso mi fa molto piacere firmarli, soprattutto ai bambini”. Il Benfica è un'ossessione. A sedici anni viene ricoverato in ospedale per un'appendicite, ma quella sera le Águias affrontano la semifinale di Coppa Campioni contro lo Steaua Bucarest. Rui Costa scambia la sua cartella clinica con quella del compagno di stanza, i cui esami sono negativi. Viene dimesso, corre a vedere la partita alla tv, il Benfica vince due a zero, e a ogni gol lui esulta e vomita.
Nel 1990 viene mandato in prestito all'AD Fafe, nel distretto di Braga. Lui piange, chiede spiegazioni per la cessione, “Mi risposero che mi voleva solo il Fafe”.
Nonostante si ritrovi in seconda divisione, a quasi quattrocento chilometri, nella stagione in cui il Benfica vince il campionato, quella sarà un'esperienza positiva. Gioca titolare, trova il modo di legarsi al luogo. Una dimostrazione è che, qualche mese fa, sia andato a festeggiare la promozione del Fafe (dalla Terceira alla Segunda Divisão) congratulandosi e firmando autografi. Tutto per il ricordo di pochi mesi, quelli del suo esordio da professionista, quasi trent'anni prima.
Un passaggio cruciale sarà il Mondiale Under 20 del giugno 1991. Perché, oltre al prestigio del titolo, la competizione si tiene in Portogallo e lui ha un ruolo da protagonista. Nella selezione ospitante ci sono anche Figo, Peixe, João Pinto.
La squadra arriva in finale: a Lisbona, allo stadio “Da Luz”, davanti a quasi 130mila tifosi. Contro il Brasile di Élber e Roberto Carlos, dopo lo 0-0 nei tempi regolamentari si va ai rigori. Quello decisivo lo segna proprio Rui Costa. Medaglia d'oro.
Finale della Coppa di Portogallo 1992/93. Il suo primo trofeo con un club. In quella squadra che stravince la finale, ci sono anche Futre e João Pinto.
Ha vestito e amato tre maglie, se escludiamo l'anno in prestito. E sia quando lasciò il Benfica, sia quando salutò Firenze, fu per problemi finanziari delle società. “Io sono un fedele” ha detto una volta. Aveva bisogno di sentirsi coinvolto. Era uno che girava per Firenze con una guida turistica in mano, e a chi chiedeva spiegazioni diceva: “È per capirla meglio, perché mi entri nel sangue”.
Nell'autobiografia che uscì alla fine degli anni Novanta, Il mio 10 per Firenze (AN.MA. & San Marco Sport Events, 1998), scriveva: “Mi sono spesso chiesto se si può essere felici quando si corre dietro ad un pallone. No, non può bastare; però se a questo si aggiunge che la salute è buona, che accanto si hanno una donna splendida e un bambino meraviglioso, che i tuoi genitori ti sono sempre stati vicini e che le tue città si chiamano Lisbona e Firenze, allora è impossibile non essere felici”. Ecco, forse è semplice.
Eppure, anche la pressione deve aver avuto una parte importante nella sua vita.
Al primo allenamento, Eusébio lo cacciò perché aveva detto una parolaccia, e Rui uscì dal campo zoppicando per nascondere al padre la verità dietro un infortunio. Appena lasciò il calcio giocato e diventò dirigente del Benfica, disse: “Credo di essere abbastanza in grado di sostenere le aspettative”. E al suo arrivo al Milan, stuzzicato sull'acquisto parallelo di Zidane da parte del Real, aveva risposto in un modo scherzoso ma significativo: “Se lui è stato pagato il doppio, meglio per me. Avrò meno responsabilità”.
A diciannove anni, nell'estate che segue la vittoria del Mondiale Under 20, viene trattenuto dal Benfica in prima squadra. Il club intuisce d'aver formato un giocatore fuori dal comune.
A lanciarlo in prima squadra è Sven-Göran Eriksson. Esordisce nel settembre 1991, in campionato. La prima da titolare, a novembre, è una sfida di Coppa Campioni contro l'Arsenal. Il Benfica vince, ed è la prima volta nella storia per una squadra portoghese in casa dei Gunners.
Il resto viene da sé. Al torneo di Tolone 1992, Rui Costa è capocannoniere e miglior giocatore; una doppietta che l'anno precedente aveva compiuto Alan Shearer. In tre anni con il Benfica si prende un campionato e una coppa portoghese, e fa una semifinale di Coppa delle Coppe. Nell'estate '94 è un craque che tutti vogliono. Deve andare al Barcellona, su intercessione di Crujff. È tutto fatto, Rui ha anche fatto la foto con la maglia blaugrana. Invece il Benfica cambia presidente e l'accordo salta.
C'è un aneddoto di quegli anni. Quarti di finale di Coppa UEFA, 1992-93, Juventus-Benfica. A Torino la Juve sta vincendo 3-0, mancano pochi minuti. Rui Costa è in campo dall'inizio, ha visto Roberto Baggio uscire a inizio secondo tempo e vuole chiedergli la maglia. Dà occhiate nervose alla panchina, dove Baggio sta seduto, ha paura che arrivi qualcuno più veloce. Passa quegli ultimi minuti a giocare esattamente davanti alla panchina della Juve. Appena l'arbitro fischia la fine, è lui il primo a raggiungere Baggio, è lui a ottenere la maglia. Anni dopo gli racconterà la storia. E da allora, ogni volta che hanno giocato contro, si sono scambiati la maglia.
Benfica-Arsenal 2-1, Coppa delle Coppe 1993/94, semifinale d'andata. Il Maestro serve un assist meraviglioso per il primo gol e realizza il secondo. Nella telecronaca, Gianni Cerqueti dice: “Molte squadre italiane sono interessate a Rui Costa”. Poche settimane dopo va alla Fiorentina.
Il Maestro, lo chiamano in tutto il mondo. Non molto personale, ma adatto. Un po' perché pare che da calciatore leggesse romanzi, drammi teatrali e manuali di storia, per rimediare all'interruzione degli studi. Un po' perché in campo era un direttore d'orchestra, tema su cui è incentrato il recente e bel video promozionale del Benfica dove Rui appunto dirige con la bacchetta.
Soprattutto, il soprannome si sposa con la sua attitudine naturale a insegnare. A fine carriera confesserà di aver sempre fumato e di non averlo mai detto “per non dare un cattivo esempio ai giovani”. Quando gioca al Milan dà consigli a Kakà, che poi dirà: “C'era un rapporto come tra professore e alunno”.
Aveva però la generosità di offrire quello che sapeva anche a giovani meno quotati. Riccardo Taddei, per esempio, ha fatto un'onesta carriera tra B e C, ma quando era una promessa della Fiorentina andava a casa di Rui, che metteva i video delle proprie giocate e gliele spiegava. Oppure Luca Vigiani, che il giorno dell'esordio in A tremava dall'emozione nello spogliatoio, e venne preso per mano dal Maestro e accompagnato così fino al campo.
Il rapporto con Firenze dà l'impressione di avere una grande spinta emotiva, a prescindere dal campo, dai risultati. “Ho sollevato pochi trofei con la maglia viola, ma il vostro affetto non l'avrei scambiato con nessun’altra coppa” scrive Rui Costa ai tifosi, qualche settimana fa, quando si scusa per non poter partecipare alla festa per i novant'anni di storia della Fiorentina. Lui che lasciava la macchina davanti al bar fuori dallo stadio Franchi, per stare tra i tifosi dopo la partita.
Un contatto continuo, eccezionale. Una pulsione difficile da frenare, se è vero che il Maestro chattava coi tifosi, nascosto da un nickname, sul sito ufficiale di Giancarlo Antognoni. Proprio l'uomo che andò a prenderlo a Lisbona e lo portò a Firenze. Dove, considererà Rui molti anni dopo, “Mi hanno trattato come se fossi nato lì”.
Oggi sulla panchina della Viola siede quello che per lui, professionalmente, è il rovescio. Paulo Sousa ha un anno e mezzo più di lui, insieme sono cresciuti nel Benfica. Poi, uno restò e l'altro andò ai rivali dello Sporting. Uno andò alla Fiorentina, l'altro alla Juventus. Uno al Milan, l'altro all'Inter. In realtà sono stati e sono ancora molto amici, anzi Rui diceva d'averlo preso a modello.
L'intesa con Batistuta aveva “una profondità impressionante”, mai raggiunta con nessun altro, per ammissione del Maestro stesso. In panchina ha visto passare tanti allenatori, personalità forti, come Terim, Malesani e Trapattoni. E Claudio Ranieri, con cui lui ebbe frizioni ma anche affetto, Ranieri che l'avrebbe definito “come un figlio”. In maglia viola, Rui si ritrovò anche a giocare contro il Benfica, nel 1997, quarti della Coppa delle Coppe: “Uno dei momenti più duri della mia carriera” dirà.
In maglia viola trascorse sette stagioni. “Non è giocare per un club, è giocare per una città” continua a dire a distanza di anni. Vinse due coppe Italia e una Supercoppa italiana. Non molto, forse, per la qualità che aveva quella squadra. Eppure il calore sa restituire molto altro. La festa notturna al Franchi, al rientro dopo la conquista della coppa Italia 1996, è qualcosa che appartiene alla memoria di tifosi e giocatori. Come anche la festa d'addio di Rui, dove quasi diecimila persone gli resero e al tempo stesso ricevettero gratitudine. C'è un video di quella festa, mi sembra un documento notevole: fa collocare Rui Costa e quel contesto intero in un calcio che si stava facendo moderno, ma ancora non lo era. O almeno, noi non eravamo pronti.
Il film della vittoria della Coppa Italia 1995/96.
È l'acquisto più caro della presidenza Berlusconi e dell'intera storia del Milan. Ci aveva provato il Parma, sembrava fatta con la Lazio, invece arriva la telefonata di Galliani e cambia il percorso. 85 miliardi di lire, che provano a salvare la società di Cecchi Gori dal naufragio. Cecchi Gori che pochi giorni prima spergiurava: “Macché, lo tengo, è il migliore”. Rui non smentisce che sul suo acquisto abbia pesato anche un'altra telefonata, fatta direttamente da Shevchenko a Berlusconi.
Per il Maestro, salutare Firenze è uno shock. Ha fatto resistenza al pensiero (“Quando ho saputo che la Fiorentina doveva vendere tutti, ero sicuro che la cosa non mi riguardava”), poi si è lasciato andare: “Mi sono sentito male, molto male, ho pianto” racconterà.
Un elemento di continuità è l'allenatore, Fatih Terim, che Rui ha già avuto a Firenze, dov'era stato il primo a concedergli massima libertà di movimento, senza sacrifici. Un modello, per lui: “Se diventassi allenatore vorrei essere come Terim. Crede nei suoi giocatori, sa stimolarli”. Non indugerò ancora sulla simbolicità dei soprannomi, mi limiterò a ricordare che quello dell'attuale Ct turco è l'Imperatore.
Il disordine quotidiano di atleti ordinatissimi: Nesta, Shevchenko e Rui Costa alle prese con un messaggio d'auguri.
A Milano il Maestro troverà le vittorie pesanti che non aveva trovato prima. La Champions League 2003, il campionato 2003/04 e la Supercoppa europea.
Stavolta non ha troppo spazio sul palcoscenico, la squadra ha molta bellezza e più fuoriclasse. Ma come aveva saputo convivere con Batistuta, e anzi si era esaltato al servizio di una stella, così Rui riesce a cantare nel coro del Milan.
In cinque stagioni e quasi duecento partite, si stabilisce un rapporto importante con i tifosi, a dispetto della natura policentrica della squadra. Anche a dispetto di un calcio meno vistoso, da parte sua: un calcio fatto di saggezza e lampi della consueta classe, ma senza troppi assist né gol. Si ricorda bene il mio amico del '97: “Altra vaga reminiscenza che potrebbe essere falsa: non segnava tanto”.
Quando Rui torna da avversario con la maglia del Benfica, l'abbraccio di San Siro racconta l'intensità di quel periodo assieme.
Il rapporto con l'Italia ha radici ancora vive che continuano a segnarlo. In un programma tv dov'era ospite, hanno dedicato una parte a Rui Costa che parla in italiano. Gli hanno sottoposto lunghe frasi in portoghese e lui le ha tradotte. Questa cosa faceva molto ridere il pubblico e il conduttore, che commentava: “L'italiano è una lingua straordinaria”.
Si era parlato, quest'estate, di un ritorno a Firenze da direttore sportivo. A quarantaquattro anni, il doppio dei ventidue che aveva la prima volta. Non se n'è fatto nulla, ma sarebbe stato anche un bel modo di intrecciare il percorso, ancora una volta, con quello di Paulo Sousa.
Gli anni al Milan. Con tanto di Mozart.
Poi c'è la Nazionale. Una storia non lunghissima ma vibrante, che comincia nel '93 e finisce con l'amaro Europeo 2004. La sconfitta in finale di una squadra che presentava contemporaneamente lui, Deco, Figo e il diciannovenne Cristiano Ronaldo.
“La mia generazione ha fatto qualcosa di unico” sosteneva Rui Costa nel 2008, quando gli veniva chiesto se avessero raccolto poco. Abbiamo gettato le basi, spiegava, portando la nazionale ad arrivare seconda a Euro 2004, terza a Euro 2000, quarta ai Mondiali 2006. In effetti, otto anni dopo quell'intervista, il Portogallo vincerà il suo primo trofeo internazionale. E oggi si dice “Ronaldo” e si pensa a Cristiano. E c'è un Rui Costa campione del mondo di ciclismo, pure...
La sconfitta in finale con la Grecia, comunque, nell'Estádio da Luz di Lisbona, tra le ultime luci della sua carriera, il Maestro la definirà come la peggiore sconfitta e l'unico rimpianto da calciatore. È anche la gara che segna il suo addio alla nazionale, come già aveva deciso, dopo 94 presenze.
Alle Águias torna per chiudere la carriera: “Una scelta molto sentimentale” ammette. Leggenda vuole che gli abbiano tenuto vuoto l'armadietto che usava da ragazzo, in attesa del ritorno. Nella prima stagione, 2006/07, gioca poco e sembra voler fare un cameo. L'ultimo anno si fa oltre quaranta partite, quasi tutte per intero, con 7 gol e 6 assist.
L'ultima volta in campo, l'11 maggio 2008, ha la dez addosso. Esce tra gli applausi del “Da Luz”, si toglie la maglia e la offre a suo padre, che lo abbraccia davanti alla panchina.
Alle Águias ci è rimasto, da direttore sportivo. Benfica, Lisbona. Le radici hanno per lui evidentemente un'importanza speciale. La casa d'infanzia di Damaia, il luogo che ricorda l'umiltà delle sue origini e che altri magari preferirebbero dimenticare, quella casa lui l'ha acquistata.
Forse non è riuscito a ricevere la corona che spetta a un principe. Non ha vinto il Pallone d'Oro, non ha guidato la sua nazionale a un grande trofeo. Resta e resterà nell'immaginario come un grandissimo, un maestro di calcio, e per qualcuno potrebbe non bastare. Qualcuno a cui l'ossessione della corona può impedire di essere felice. Qualcuno che abusa di una tecnica superiore per ricevere l'acclamazione. Qualcun altro. Perché invece Rui Costa sembra aver seguito le parole di un altro maestro portoghese, Fernando Pessoa: “Siediti al sole. Abdica e sii re di te stesso”.