A poche settimane da una sfida all’Ungheria decisiva per la qualificazione a Euro 2000 Gheorghe Hagi, leggenda del calcio romeno che in quel momento gioca in Turchia con il Galatasaray, è ospite in un programma televisivo condotto da Adrian Paunescu.
Paunescu è un poeta, trovatore del nazionalcomunismo di Ceausescu, agitatore culturale durante gli anni del regime. Il programma si chiama “Una possibilità per ciascuno”, va in onda fino a notte tardissima: gli ospiti sono sempre scrittori, cantanti, studiosi che dialogano di cultura e mitologia romena, attualità, economia. La fotografia austera, le luci soffuse, lo studio come una cantina.
Romania e Ungheria non sono buoni vicini. Calcisticamente, in quel momento, la Romania è nettamente superiore, ma soffre una specie di complesso di inferiorità, perché non ha mai sconfitto i magiari in una gara ufficiale. Sono sempre, non solo su un campo, i cugini poveri del sudest.
Nella partita d’andata, giocata in un clima ostile, l’Ungheria ha strappato un pareggio a pochi minuti dalla fine. Per tutto il tempo, dagli spalti, i rumeni si sono sentiti dare degli zingari, dei ladri. Vincere con l’Ungheria significa fare leva sullo spirito nazionale, specie in un momento in cui il primo progetto realmente liberale e riformista dalla caduta del regime di Ceausescu sta naufragando nelle acque burrascose del collasso economico. Paunescu ha invitato Hagi perché è convinto che la Nazionale abbia bisogno di lui per la battaglia decisiva con l’Ungheria.
Hagi aveva abbandonato la Nazionale quasi un anno prima, dopo l’eliminazione da Francia ‘98. Durante il programma i figlio di Paunescu aveva intonato una canzone che diceva «Ora la bandiera ti chiede di tornare, nel nome della madre e del padre». Paunescu padre aveva recitato, all’impronta, un’ode per lui. Poi aveva letto decine di messaggi di spettatori che chiedevano il suo rientro.
Hagi, visibilmente commosso, a un certo punto dice: «Aspettate tutti: ma se Piturca non mi ha neppure convocato!». In quel momento, in collegamento telefonico, il colpo di teatro: l’allenatore della Nazionale gli sussurra «ti aspettiamo, abbiamo bisogno di te». Fuori dagli studi si è riunita, intanto, una folla di tifosi. Sono le tre del mattino. Quando finalmente Hagi si decide ad accettare, Paunescu lo stringe in un abbraccio trionfale.
Lo bacia sulle guance, gli dice: «Ma chi sei, tu, che ti vuole tutto il Paese?».
Foto di ERIC CABANIS/AFP/Getty Images
Gheorghe Hagi è tutto in questo aneddoto.
Un Re - e dopotutto Regele è il soprannome con cui è celebre in Romania - che il popolo non dimentica neppure - soprattutto? - quando è in esilio.
Un Re che fuori dal suo regno cammina leggero, ma che quando attraversa i confini, entra nelle sue terre, non si rifiuta mai di portare il peso della responsabilità sulle spalle.
La sua carriera non è stata che l’equilibrio, il punto di tensione, tra la gestione della regalità e la ricerca, a volte senza successo, della sua legittimazione.
Realismo malinconico
Gheorghe Hagi non è stato soltanto uno dei mancini più forti del calcio europeo a cavallo degli anni tra gli anni ‘80 e la fine del millennio: per alcuni è stato, semplicemente, il Re dei mancini.
Nato a Costanza, sulle sponde del Mar Nero, nell’anno della presa del potere di Ceaușescu, famiglia di origini macedoni e un futuro già scritto, quello dei predestinati, Hagi cresce nel mito di Cruijff e Iordănescu.
La maglia della prima Nazionale la indossa a 13 anni, quando fa parte del Luceafarul, “La Stella dell’Alba”, la squadra creata dalle autorità comuniste a fine anni ‘70 affinché potessero giocarci le migliori promesse del Paese.
Dall’Under 21 neppure passa perché Mircea Lucescu, nel 1984, lo pretende nella Nazionale maggiore per l’Europeo francese. Due anni dopo sarebbe diventato pilastro imprescindibile e poi capitano.
Un gol in amichevole contro la Norvegia.
Gheorghe Hagi ha sempre impresso al suo calcio, fin dall’inizio, una declinazione malinconica, trasognante.
Gli unici sprazzi di un realismo di stampo sovietico erano nei tiri, tiri che indirizzava, in serie, verso la porta avversaria, sempre con il solito piede. Tiri tesi, tiri potenti. Tiri ambiziosi, quasi strafottenti.
Nel 1986 Hagi gioca con lo Sportul Studentesc. A Bucarest, dove si è trasferito da Costanza, ha conosciuto il figlio di un proprietario terriero con velleità da giornalista, sono diventati amici: Hagi lo porta con sé nello spogliatoio affinché possa vendere ai suoi compagni formaggi e yogurt. A volte dormono insieme, nella stessa stanza del dormitorio in cui alloggia Hagi. Ma c’è solo un letto, e il ragazzo spesso si ranicchia in fondo, coperto da una pelle di pecora.
Quel ragazzo si chiamava Gigi Becali, sarebbe diventato uno dei più grandi agenti del calcio rumeno, capace di fare i soldi veri quando le barriere del comunismo sarebbero crollate, e la sua agenzia avrebbe piazzato i gioielli rappresentati - tra i quali lo stesso Hagi - in tutta Europa. Il cugino di Gigi, Giovanni, sarebbe invece diventato il proprietario (assai discusso) della Steaua, e Hagi il suo testimone di nozze.
Ai tempi dello Sportul. Da 0.40 anche una leggendaria vittoria contro l’Inter (che l’avrebbe però ribaltata al ritorno).
Hagi è talmente fuori contesto, allo Sportul, che la Steaua - che ha come manager Valentin Ceauṣescu, figlio adottivo del dittatore - lo reclama in prestito secco per una partita molto importante: la finale di Supercoppa Europea con la Dinamo Kiev. L’anno precedente la Steaua è stata la prima squadra dell’Est Europa a vincere una Coppa dei Campioni. L’accordo è che Hagi giochi quella partita e torni poi allo Sportul.
Non ci tornerà mai.
Hagi sarebbe diventato, come una splendida sinestesia, la Stella della Stella (che è ciò che significa Steaua), segnando (anche se sarebbe più corretto dire propiziando) il gol vittoria nella Supercoppa, su calcio di punizione.
Quando ci arriva Hagi, la Steaua è già in una fase calante: fatto che non gli eviterà di vincere tre Scudetti consecutivi, ma che lo vedrà anche uscire sconfitto in maniera pesante nella finale di Coppa dei Campioni del 1989, contro il Milan di Sacchi. In Romania, in quegli anni, poco sembra destinato a durare per sempre. Men che meno la permanenza di Hagi in Patria.
La Juventus ha adocchiato quel giovane promettente, con un’indole per il dribbling e la leadership, che sta al calcio romeno come la Casa poporului di Bucarest - che si dice sia uno dei tre edifici visibili dalla Luna - al resto dei palazzi del Paese. Nel 1988 ha proposto alla Steaua di tesserarlo in cambio della costruzione di un impianto di produzione FIAT a Bucarest: ma Nicolae Ceauṣescu ha ritenuto il piano troppo capitalistico, e non se ne è fatto più nulla.
«In quel momento stavamo bene, crescevamo in un contesto pacifico, gradevole. Eravamo acculturati, civilizzati», ha confessato Hagi della sua infanzia sotto il comunismo. «L’unico aspetto negativo era che non potevamo andare a giocare all’estero».
«Qui è tutto organizzato in modo che gli sportivi possano concentrarsi sulla preparazione e non manchi loro alcun aiuto materiale», raccontava Lucescu ai giornali italiani nel 1989. Ogni trasferta era un’occasione d’oro per ottenere una diaria molto alta, e tornare con vestiti e caviale da contrabbandare.
Il 9 Novembre, però, sarebbe arrivato presto. Nel giro di poco più di un mese, Ceauṣescu sarebbe stato arrestato, processato sommariamente, fucilato davanti a un muro il giorno di Natale. Per la Romania, per il suo calcio, e per Hagi, si sarebbe aperto uno scenario totalmente nuovo.
Il Milan aveva provato a bloccarlo per quaranta giorni, nel Febbraio del ‘90. Corioni, presidente del Bologna, che con la sua Saniplast, ditta che produceva arredi da bagno, aveva sponsorizzato la Dinamo e vantava collegamenti giusti con la Romania, aveva cullato per qualche mese l’affare per il suo Bologna, poi svanito.
E quando, a pochi giorni dall’inizio del Mondiale di Italia ‘90, il ministro dello sport Mircea Angelescu aveva annunciato che tre giocatori sotto i 28 anni per squadra avrebbero avuto il via libera - con gli introiti che sarebbero serviti a finanziare le attività sportive nel Paese - Gheorghe Hagi aveva già firmato per il Real Madrid.
«La Rivoluzione è stata fatta per me: per non rovinare la mia carriera». Ammesso che sia una frase che abbia detto davvero, non è implausibile ritrovarci tutto il cinismo e il realismo che caratterizzava i romeni nel post-Ceauṣescu: la convinzione che se la vita è ingenerosa, allora devi poterti prendere tutto quel che vuoi.
A pensarci bene, l’ambizioso programma calcistico di Gica Hagi.
Foto di Simon Bruty/Allsport
Escluso nella partita inaugurale con l’URSS, sostituito con il Camerun, la prima parte del Mondiale italiano di Hagi non è entusiasmante. Eppure è ancora la stella più attesa.
Sta vivendo un periodo particolare: il 15 Luglio, lo stesso giorno in cui è fissata l’elezione del nuovo presidente della Federcalcio, si sposerà. Il Real lo attende subito dopo. E nella partita successiva, l’ultima del girone, lo aspetta l’Argentina di Diego Maradona.
«Rimasi sveglio tutta la notte, pensando “Come sarà domani? Cosa farà? Cosa farò? Voglio giocare meglio di lui».
Hagi contro Maradona, prima parte.
Il mondo lo scopre, in buona sostanza, quella sera.
I due, in partita, si trovano spesso a duellare. Si stuzzicano, si puntano: non sempre ne esce vittorioso Diego. Finirà 1-1, Hagi verrà ammonito, ma non ne uscirà sminuito. Resta solo da chiedersi se il Real Madrid sia il contesto giusto in cui la sua stella può davvero cominciare a brillare.
Un salto troppo grande?
A venticinque anni Gica Hagi passa dal comunismo, dallo status di star incontrastata, al Real Madrid. A uno dei club più grandi del mondo, pieno di primedonne. Ma soprattutto a un contesto totalmente estraneo: lingua, cultura, il cibo stesso. I compagni, che non giocano più solo per lui.
Anche il Real, però, è in una fase calante: è appena finita, o si sta sfilacciando in lembi sdruciti, l’epopea della Quinta del Buitre. Hagi viene spesso utilizzato in un ruolo non suo, largo sulla sinistra, dove non può detonare il tiro, dove il suo estro è come ingabbiato. John Toshack non lo vede; il presidente onorario Di Stéfano, che siede in panchina al fianco di Camacho per un semestre, neppure.
Solo con l’arrivo di Radomir Antic, Hagi trova finalmente l’occasione di mettersi in mostra, soprattutto nella sua seconda stagione a Madrid. Da trequartista, e con la consapevolezza di poter godere della fiducia del tecnico, Hagi diventa un leader. Come sempre gli sarebbe successo, quando avrebbe potuto fare perno sulla certezza del suo posto nel mondo.
In quella stagione segna questo gol, contro l’Osasuna, surreale, ambizioso, un po’ pazzo: una soluzione non estemporanea, ma ricercata, provata, inseguita.
Qualche giorno dopo dirà «domenica ero imbambolato, ma l’ho rivisto in tv ed è una meraviglia. Tanti giocatori sognano un gol così, pochi riescono a farlo. E io sono tra quelli».
I miracoli di balistica sono la cifra stilistica di quella sua stagione. L’ultima perla la trova nelle Canarie, in un pomeriggio ventoso di inizio Giugno, quando segna il 2-0 con cui il Real potrebbe consacrarsi campione di Spagna: tale è, quando Hagi viene sostituito da Lasa a fine primo tempo. Invece finirà 3-2 per il Tenerife, con il titolo che all’ultimo respiro si smaterializza tra le mani dei madridisti.
Lo consideravano un ribelle. Ma un ribelle di quelli duri a morire, concreti, che non si sfogavano con le parole, ma con i fatti. E un orgoglioso, che non sa accettare la sconfitta senza dimostrare la sua stizza.
«Credo ci sia lo 0,01 per cento di possibilità che Hagi firmi per il Brescia», dirà il suo agente Becali quando la volontà di lasciare Madrid, a fine stagione, diventerà fin troppo evidente.
Certo, il passaggio dal Real a una neopromossa, seppur nel campionato che è, in quel momento, il migliore al mondo, sembra davvero una fantasia poco credibile.
Due settimane dopo viene presentato con la maglia delle Rondinelle.
Casomai ci fosse bisogno di un “perché”
Comprendere il senso del trasferimento di Gica Hagi a Brescia, nell’hic et nunc, era impossibile, oltre che sterile. Arrivava in Italia per fare cosa? Per ritrovare sé stesso? O per abbracciare la provincia che era, in fondo, la sua vera dimensione?
A Brescia si era ricreata una piccola comunità romena: c’era Mircea Lucescu, tecnico dalla visionarietà DaDa, che viveva alle pendice dei Ronchi, le colline della cittadina, con il figlio Razvan, portiere del Crema; Ioan Sabau, lettore accanito della Bibbia; Florin Raducioiu, Dorinel Mateut. Anche i magazzinieri erano romeni: uno, Gabri, ex allenatore di pugilato, si era stabilito nella casa del custode dello stadio.
A nessuno, in quel momento, il tesseramento di Hagi era sembrata un’operazione di rilancio. Piuttosto, un buen retiro perfetto per ammortizzare il processo di affievolimento di una supernova troppo precoce.
E ora qualcosa di eminentemente Hagi-esque.
Lo consideravano un ribelle. E forse, in fondo, lo era davvero. Insofferente alle gerarchie, riottoso. Si fa espellere alla prima partita, contro il Napoli, per un fallo non tanto ingenuo quanto orgoglioso. In Italia avremmo imparato a riconoscerlo come uno focoso, fumantino, dal sinistro letale quanto dal carattere inarginabile. In Romania, invece, lo consideravano - e lo considerano ancora - una specie di maître-à-penser, un uomo integerrimo, di grandi doti morali, intelligente. E non è detto che le due facce non coincidano, in una qualche zona d’imperscrutabilità.
Emil Cioran diceva che la follia, in fondo, non è che un dispiacere che ha smesso di evolversi: la follia di Gica Hagi, invece, connaturata alla scelta di rimanere a Brescia, anche di fronte alla retrocessione, anche di fronte alla prospettiva di un anno di purgatorio nell’anno dei Mondiali americani del ‘94, è l’esatto opposto.
La sua sembra la maturazione di un dispiacere, una specie di penitenza autoinflitta, da sublimare fino al punto in cui le ferite non si sono finalmente cicatrizzate, e si può tornare a vedere la luce.
Lui diceva di essere rimasto per dimostrare di non essere un codardo. Qualcuno gli rimproverava che la codardia, invece, era tutta lì, nel nascondersi alle propaggini dell’impero quando lo reclamavano palcoscenici più prestigiosi.
Insieme a Hagi, quell’anno, in Serie B, gioca anche Gabriel Omar Batistuta. A un certo punto della stagione Hagi un’intervista fissata con un giornale americano: però ci ripensa, non vuole più concederla. Lucescu lo fa ragionare. Con le buone, prima. Poi minacciandolo di multarlo, di tenerlo fuori squadra.
«Sarebbe potuto essere il secondo migliore al mondo, dopo Maradona» dirà il tecnico. «Ma è un grande giocatore con zero etica del lavoro. La Coppa del Mondo è la sua ultima occasione».
L’ultimo ballo
Angel Iordănescu, alle porte di USA ‘94, definiva la sua Romania come una squadra forgiata da «l’abitudine alla sofferenza, dalla capacità di risolvere problemi contingenti, dal rifiuto di seguire le mode».
Hagi veniva considerato già un rifiuto del calcio italiano, una scoria radioattiva, un oggetto non identificabile con una traiettoria troppo bizzarra per risultare credibile. Lui diceva di aver trovato, a Brescia, «l’orgoglio in fondo al mio cuore. Prima, non l’avevo».
Ed ha ben chiaro che se c’è qualcosa che può fare la differenza, in quel Mondiale, è la determinazione. E la fiducia nei propri mezzi. «Noi siamo artisti. Gli altri: no».
Nella partita d’esordio Gica segna un gol da quaranta metri con la Colombia, uno dei più belli segnati da fuori area nella storia della competizione.
Se il contraccolpo subito dopo la disfatta con la Svizzera nella seconda partita del girone (in cui Hagi segna un altro gol dei suoi) avesse trovato i romeni meno agguerriti, forse oggi ricorderemmo il suo Mondiale anche solo per quello. Invece la Romania passa, e davanti al suo cammino il sorteggio pone l’Argentina.
Ancora il 18 Giugno, a quattro anni di distanza. Stavolta, però, senza Diego, squalificato pochi giorni prima per doping.
L’Argentina è una squadra che in assenza del suo uomo più carismatico e rappresentativo si sta praticamente sbriciolando. «Se perdiamo sarà lutto nazionale», dice Balbo. E Hagi è abbastanza convinto di voler far piombare il Paese sudamericano in questa malaonda.
Ne uscirà una partita che Daniele Manusia, in un pezzo di un bel po’ di anni fa, ha riconosciuto, a ragione, come una delle più belle nella storia dei Mondiali. I romeni passano in vantaggio con una punizione velenosa di Ilie Dumitrescu. Pochi minuti dopo Batistuta pareggia. È passato appena un quarto d’ora, e chi si sta facendo idea che i fili della partita possano essere mossi dall’emozionalità del batti e ribatti non sa ancora che ci sarà spazio anche per quel tipo di sublime meno appariscente e vistoso, che - insieme alle prodezze balistiche - apparteneva a Gica Hagi.
Siamo al 26’. Redondo perde palla al limite. Il pallone rimbalza un po’ tra le gambe di argentini e romeni fin quando non arriva al terzino destro Dan Petrescu: il difensore appoggia a Hagi, largo sulla fascia destra. Tre avversari gli si fanno incontro: se abbiamo capito che tipo di giocatore fosse Hagi sappiamo già che sta per distorcere la linea spazio-temporale con una delle sue “pause”.
In effetti Hagi, dopo aver congelato per un frangente di secondo il gioco, smarca con un tocco leggiadro di sinistro Dumitrescu, che gliela ridà. La combinazione tra i due porta Hagi al limite dell’area. È coperto da Oscar Ruggeri e Fernando Cáceres. Rallenta, ma in realtà il pensiero sta viaggiando alla massima accelerazione.
Calcola angoli, inclinazioni, studia linee di passaggio la cui visione può essere dettata solo da un occhio superiore.
Hagi contro Maradona, seconda parte.
L’esecuzione del passaggio non rende fede, non appieno, all’intuizione: è un passaggio quasi arrogante, eppure con qualcosa di gentile. Perfetto, di quella rotondità melliflua che hanno tutte le perfezioni che fatichiamo a riconoscere come tali all’impronta, ma che si cristallizzano, un istante immediatamente dopo, nella nostra memoria. La perfezione del passaggio sta nel tocco, minimale, quasi automatico, che serve a spingerlo in porta.
Ovviamente, per conferire un ulteriore senso di definitività alla sua prestazione, Hagi segnerà anche il gol che sigillerà la vittoria. «Mi hanno detto che la vittoria con l’Argentina è stata come una seconda rivoluzione», dirà.
Quella Romania si fermerà solo ai calci di rigore, ai quarti, contro la Svezia. Al ritorno in Patria i giocatori romeni vengono accolti da una folla festante. La Federazione li premia con quasi 35mila dollari a testa. Una compagnia di taxi offre loro corse vita natural durante. Il boato più forte, ovviamente, è per Gica Hagi quando si affaccia sulla pensilina.
A cosa serve un idolo?
«Un calciatore genera denaro, non si fa generare dal denaro. Non dovrebbe proprio pensarci». Dopo USA 94 Hagi ha un’offerta importante sul piatto, lo cerca il Tottenham. Poi, però, riceve una chiamata da Johan Crujiff. Il suo idolo d’infanzia vuole portarlo a Barcellona.
L’accoglienza, per Gica Hagi, che ha pur sempre giocato con il Real, non è propriamente amichevole. Da parte di nessuno.
Crujiff, dopo un litigio nello spogliatoio arrivato alla stampa, lo mette fuori rosa. Il reintegro è lento, difficoltoso. Il pubblico lo stuzzica, lui non raccoglie le provocazioni. Un giorno si presenta sul pallone per battere una punizione. I tifosi sembrano scontenti, c’è un brusio di malumore. Gica bacia lo stemma sulla maglia, non si allontana dalla posizione. Vuole fargli capire che è uno di loro. E che è un testardo.
Il calcio, dice oggi Gica Hagi, è tutta una questione di geometria. Eppure una caratteristica importante del suo calcio - tanto quanto la sua sensibilità di tocco - a rivederlo giocare oggi era una forza decisamente moderna, una brutalità astuta e implacabile nelle conclusioni da fuori area.
«Me lo hanno sempre detto tutti i miei allenatori, da quando avevo 12 anni: appena puoi, tira. Il 70% dei miei gol è venuto così, da fuori area».
A volte moooooolto fuori l’area (e complice la nebbia).
L’idillio con i blaugrana non arriverà mai: le Arcadia di Gica Hagi non sono mai state piazze così gloriose, e in fondo possiamo dirlo, la fortuna non gli ha mai davvero sorriso.
A 30 anni, come tutti i re saliti al trono troppo giovani, Hagi è già morto e risorto due volte, resistito a golpe e tumulti, eppure nondimeno ancora alla ricerca di una legittimazione.
Per trovarla, per capire se casomai c’è qualcosa che non va in lui, o se è solo - come spesso accade - una questione di contesti, e di affinità elettive, sceglie di accettare il Galatasaray.
L’allenatore, Fatih Terim, arriva a offrire di metterci il proprio portafogli, pur di ingaggiarlo. L’Oriente lo abbraccia, pronto a sfamarne la voglia di gloria. Hagi ci mette tutta la sua esperienza, ma soprattutto il talento.
Perché il talento, quello non invecchia.
Mai.
Se siete arrivati fin qua perché dovreste negarvi 12 minuti di prodezze con il Galatasaray?
Quattro titoli turchi consecutivi sarebbero molto, ma per Hagi, forse, non erano abbastanza. Per chiudere il cerchio, per tornare al punto di partenza con il movimento perfetto e compiuto di una sua parabola su punizione, di un suo tiro arcuato da quaranta metri, di un suo passaggio semplicemente irreale, ci vuole una notte come quella di Copenaghen del 17 Maggio del 2000.
Quella in cui il Galatasaray alza - prima squadra turca nella storia - la Coppa Uefa, anche nonostante la sua espulsione per una spinta istintiva, di reazione, a Tony Adams. Espulso di fronte agli inglesi: sarà una scena che si ripeterà ancora a poche settimane di distanza, quando con la Romania starà giocando l’Europeo.
Sembrava che quel cartellino rosso in finale avrebbe messo fine alla sua carriera con la Nazionale, e invece un insperato passaggio del turno finirà per dargli un’altra chance, l’ultima.
Contro l’Italia: verrà espulso, ancora una volta, in quella che sarà - stavolta sì - la sua ultima partita con la Romania.
Foto di Shaun Botterill /Allsport
L’ultima di un Re che accetta l’inevitabilità del confino, ma che prima di abbandonare le sponde della sua terra elettiva sceglie di battersi all’arma bianca, fino alla morte.
O all’umiliazione, dipende dai punti di vista.
Il Re è morto, viva il Re
Mancano pochi minuti alla fine del primo tempo. Hagi prende il pallone nella sua metà campo e si libera del capannello di ragazzini che vogliono toccargli la corona: ne fa fuori tre con un cambio di ritmo repentino. Si sta involando verso la porta di Királi quando viene steso: atterra malamente, sulla spalla, ed è costretto a uscire dal campo in barella.
I compagni, a fine partita, ostentano Gica, sollevandolo verso il pubblico giubilante. Dalla prima sconfitta dell’Ungheria nasceranno i germogli della qualificazione all’Europeo che sarà anche l’ultimo di Hagi. Lui, con la spalla bendata e un sorriso sincero, in quel momento ancora non lo sa.
E allora si gode quel tipo di ovazione che viene normalmente tributata solo ai grandi condottieri, ai calciatori esteticamente annichilenti.
E, ovviamente, ai re.