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Il trio Casemiro-Kroos-Modric giocava un calcio eterno
31 ago 2022
Ricordo del centrocampo egemonico del calcio europeo.
(articolo)
21 min
(copertina)
Foto di Helios de la Rubia / Real Madrid via Getty Images
(copertina) Foto di Helios de la Rubia / Real Madrid via Getty Images
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Dopo quasi dieci anni di onorata militanza, lunedì scorso Carlos Henrique Casemiro ha annunciato il suo addio al Real Madrid. Florentino Perez, come già aveva fatto con altre leggende dell’ultimo ciclo, gli ha concesso la passerella. È stato uno dei pilastri della storia recente del Real Madrid. Sono stati tanti, nelle ultime stagioni, gli addii per i blancos: Zidane per due volte, Varane, Ramos e Marcelo, senza considerare separazioni più fredde come quelle di Isco e Bale.

Nessun commiato, forse, è stato commovente come quello di Casemiro. Nemmeno Carlo Ancelotti è riuscito a trattenere qualche lacrima: con i capelli sempre più bianchi e spettinati e la pelle delle guance sempre più cadente, sembrava Marlon Brando afflitto di fronte al cadavere di Sonny ne Il Padrino.

Il più commosso di tutti, ovviamente, era Casemiro stesso, interrotto dal pianto ad ogni frase. Se l’addio del brasiliano è stato così emotivo, è anche per il modo in cui si è sviluppata la sua storia d’amore con il Real Madrid. A differenza di altri suoi compagni, Casemiro non era arrivato in Spagna con l’aura da giovane prodigio. Nel 2011 aveva vinto il mondiale Under 20 col Brasile di Oscar e Coutinho, ed era noto per lo più per le sue qualità difensive – secondo Franco Baldini, che lo aveva cercato ai tempi della Roma, si trattava del nuovo Emerson – ma sembrava un centrocampista troppo limitato per poter immaginare una lunga carriera ai massimi livelli. È per questo, forse, che al microfono rivendica con orgoglio i primi mesi nel Castiglia, la seconda squadra del Madrid, utili per costruirsi una credibilità in un ambiente così elitario: «Quando sono andato via dal San Paolo sapevo bene che avrei giocato per la prima squadra, però prima avevo una sfida nel presente, che era giocare nel Real Madrid Castiglia».

Casemiro sembrava il classico specialista difensivo, utile in determinati momenti di partita, ma che difficilmente avrebbe potuto guadagnarsi un posto in una squadra zeppa di centrocampisti e mezzepunte di qualità. Non è un caso che anche Florentino Perez, prima di cedergli la parola, ricordi di lui due momenti lontani dalle serate di gloria più prestigiose, quasi a voler sottolineare gli sforzi e il sacrificio con cui, lontano da proclami, Casemiro ha costruito la sua leggenda sul Manzanarre: la salvezza in Segunda Division con il Castiglia, nel già citato primo anno in Spagna, e i minuti finali di Borussia Dortmund-Real Madrid della primavera 2014, dove i blancos, ancora tormentati dal fantasma della Decima e di Lewandowski dell’anno prima, erano a un solo gol dal farsi rimontare dalla squadra di Klopp nei quarti di Champions.

La Decima è stata la coppa che ha regalato al Real Madrid una rinnovata confidenza con la Champions. Casemiro non è stato tra i protagonisti principali di quel trionfo, appena 144 minuti disputati e fuori dai convocati per la finale. Se però il grande lascito della Decima è la consapevolezza da cui sono nate la Duodecima, la Decimotercera e la Decimocuarta, è vero anche che quello spirito non avrebbe potuto tradursi in realtà senza l’affermazione di Casemiro come titolare dei blancos. Se la tecnica di Kroos, Modric e Marcelo, il carisma di Ramos e la clutchness di Cristiano, hanno perpetuato la mistica del Real Madrid in Champions, Casemiro è colui che dato consistenza, nel presente, a quella mistica, che altrimenti sarebbe rimasta a vagare nel mondo dei luoghi comuni sul calcio, ancorata al passato del grande Real degli anni ‘50 o di quello di fine anni ‘90-inizio ‘00.

È stato il pezzo chiave che ha facilitato la vita a Kroos e Modric – ma anche a Isco e Marcelo. Gli ha permesso di esprimere a piacimento il proprio calcio, che a catena ha permesso a un Cristiano Ronaldo ultratrentenne di concentrarsi solo sulla finalizzazione, perché di far arrivare il pallone negli ultimi trenta metri si occupavano altri.

Il tortuoso sentiero del trio

Casemiro, Kroos e Modric sono stati i grandi signori dell’ultima epoca della Champions League, un trio così talentuoso, variegato e ben assortito da mettere in discussione l’egemonia di Busquets, Xavi e Iniesta come miglior centrocampo della storia della competizione. Eppure, difficilmente qualcuno avrebbe potuto pronosticarlo all’inizio dello scorso decennio. Casemiro, Kroos e Modric si sono ritrovati a giocare insieme in maniera quasi per caso. A livello individuale, nessuno dei tre ha avuto un percorso lineare con la maglia merengue.

Modric, per esempio, ha dovuto aspettare un quarto di finale di Champions ad Old Trafford, a marzo del 2013, per sciogliere i dubbi del madridismo intorno al suo acquisto. All’ultimo Real Madrid di Mourinho serviva un gol per raddrizzare l’eliminatoria contro l’ultimo Manchester United di Ferguson. Il croato era entrato al quarto d’ora del secondo tempo al posto di Arbeloa e aveva raddrizzato la partita, alla prima dimostrazione di grandezza con la maglia del Madrid. Quel gol glielo avremmo visto fare tante altre volte: la conduzione verso l’interno, l’accelerazione improvvisa, con il braccio che si allarga e inganna l’avversario sulla sua intenzione di calciare o di andare in direzione della porta, e infine il tiro a filo del secondo palo. L’Argentina al mondiale 2018, lo Shakhtar nell’autunno del 2020 e il Celta Vigo qualche giorno fa avrebbero assistito allo stesso spettacolo.

La particolarità del gol al Manchester United, però, è il rumore della palla che colpisce il palo prima di entrare, un suono sordo, violento, di legno che si spezza, a cui Javier Aznar su Revista Libero ha dedicato un pezzo raffinatissimo, dove, divorato dall’ansia per un eventuale ritiro del croato, suggerisce egoisticamente di centellinarne ogni minuto residuo, «come quei collezionisti che non tolgono mai i fumetti dal cellophane». Aznar dice che in quel momento è come se tutte le tessere di un puzzle si fossero incastrate, era appena nato il centrocampista destinato a dominare l’Europa.

Fino al gol di Old Trafford il futuro di Modric in Spagna sembrava in discussione: difficile da collocare in campo – nessuno tocca il pallone meglio del croato e pochi hanno la sua visione, ma non è né un regista, né una mezzala di possesso, né un trequartista – per un periodo a dicembre aveva perso addirittura il posto da titolare. A inizio 2013, secondo un sondaggio di Marca, è l’acquisto più deludente del mercato estivo, peggio di Alex Song del Barcellona.

Persino l’aristocratico Kroos, già stella delle giovanili della Germania, rifinitore del Bayern di Heynckes, regista di quello di Guardiola e campione del mondo in Brasile, ha avuto bisogno dei suoi mesi di adattamento per brillare al Bernabeu. Dopo un primo anno tra alti e bassi con Ancelotti, il secondo parte in modo disastroso sotto la gestione di Benitez. L’allenatore spagnolo lo costringe a giocare in maniera troppo rigida, spesso spalle alla porta e in posizione troppo avanzata. Non tocca il numero di palloni che desidera e non ha abbastanza libertà per impostare. Se Modric, autosufficiente sia per le qualità atletiche che per quella capacità misteriosa di sfuggire alla pressione con movimenti improvvisi del bacino, aveva comunque mantenuto un livello di prestazioni più elevato, Kroos sembrava soffocare tra le macerie di una gestione disastrosa, grottesca nel rapporto con i calciatori – Benitez che voleva insegnare a Ronaldo come tirare e che suggeriva a Modric di usare il piede debole invece di calciare con l’esterno, un vero e proprio reato nei confronti del patrimonio culturale.

Chi restituisce un senso alla presenza di Kroos al Bernabeu, oltre all’arrivo di Zidane, è Casemiro. Dopo le prime presenze nell’anno della Decima, la società lo spedisce al Porto, prestito con diritto di riscatto e controriscatto. Casemiro si afferma come equilibratore del 4-3-3 di Lopetegui. Ad aprile disputa una gran partita nell’andata dei quarti di finale di Champions contro il Bayern di Guardiola: al do Dragao i bavaresi cadono per 3-1. Casemiro è il bastione che difende lo spazio di fronte ai difensori centrali, per merito suo Thiago e Lewandowski non riescono mai a galleggiare in quella zona di campo. A fine stagione il Porto lo riscatta, ma il Real Madrid, su indicazione del nuovo allenatore Benitez, da sempre bisognoso di un incontrista per il suo doble pivote, esercita la recompra: per 7,5 milioni l’ex San Paolo torna al Bernabeu.

Benitez all’inizio gli dà fiducia, ma i musi lunghi del pubblico madridista e proprio di Florentino, allergici all’attitudine troppo difensiva del brasiliano – si tratta pur sempre di un centrocampista del Real Madrid! – lo inducono a rispedirlo in panchina. Chi non si fa problemi a rimetterlo al centro della mediana è Zinedine Zidane, interessato innanzitutto a trovare un equilibrio naturale tra gli undici in campo, senza dover mettere mano in maniera eccessiva, almeno all’inizio, all’impianto di gioco. Così Casemiro diventa la soluzione spontanea per armonizzare i talenti migliori del mondo. Sid Lowe, in un pezzo sul Guardian pubblicato alla vigilia della semifinale del 2016 contro il Manchester City, suggeriva che ad aver convinto Zidane a puntare su Casemiro fossero stati i suoi ultimi frustranti anni nei Galacticos, dove la cessione di Makélélé e l’assenza di equilibrio avevano precluso qualsiasi possibilità di vittoria a un gruppo irripetibile di fuoriclasse: «Nonostante tutti i Galacticos, o forse a causa loro, (Zidane nda) si è ritirato dal Madrid dopo tre stagioni senza trofei – quella siccità di vittorie era tra le ragioni per cui si è ritirato proprio in quel momento, difatti – e la sua diagnosi era chiara. Il talento da solo non fa una squadra». All'epoca della cessione di Makélélé, a cui fece seguito l'arrivo di Beckham, Zidane commentò amaramente: «Perché mettere un altro strato di vernice d’oro sulla Bentley se stai perdendo l’intero motore?»,

Zidane si immedesima nei suoi campioni, Kroos e Modric, e forse vede in Casemiro il giocatore che avrebbe voluto alle spalle negli ultimi anni di carriera. Il brasiliano, scelto per la sua presenza fisica e per uno stile difensivo all’inizio anche un po’ irruente e poco cerebrale – con una capacità sottovalutata di commettere fallo, fondamentale per una squadra dagli equilibri precari – riceve in cambio dal sistema liquido di Zidane l’occasione di smussare gli angoli del proprio gioco, di raffinare fino all’eccellenza assoluta le proprie letture senza palla e di specializzarsi in determinate soluzioni col pallone.

Breve cronistoria della CMK

Zidane schiera Casemiro titolare all’inizio di marzo 2016, una vittoria per 3-1 in casa del Levante. Da quel giorno, il Real Madrid conclude il campionato con dodici vittorie consecutive, tra cui un inaspettato successo in casa del Barça della MSN. Soprattutto, alla fine di quella stagione arriva l’undicesima Champions League. Quello del primo anno, è forse il Madrid di Zidane meno brillante. Eppure, già nel trionfo di San Siro sono evidenti i principi su cui fioriranno le tre Champions League consecutive: l’idea di rispondere a qualsiasi quesito del confronto con la propria superiorità tecnica, di combinare come un alchimista le caratteristiche dei giocatori e di badare all’equilibrio difensivo anche mentre si controlla la palla – parliamo di una squadra che invitava Cristiano Ronaldo a tirare di continuo pur di evitare transizioni.

Alla vigilia della finale, in molti avrebbero dato l’Atletico Madrid per vincente: una squadra in grado di resistere prima alla MSN e poi alla versione più offensiva del Bayern di Guardiola. La vittoria sembrava la conseguenza logica di un percorso così arduo, la giusta vendetta per la finale di due anni prima. Il Real Madrid era troppo grigio per potersi meritare la vittoria. Eppure, era bastata una serie di scambi palla nei primi minuti a ricordare quanto fossero speciali i giocatori di Zidane. Non era stata una partita brillante, ma la qualità dei blancos aveva raffreddato il furore dell’Atletico, fino al triste epilogo di Oblak immobile nella serie dei rigori.

Per qualcuno il successo del 2016 resta in parte casuale. Troppo morbidi Roma, Wolfsburg e il Manchester City di Pellegrini nel cammino verso la finale. Secondo i più critici, c’è poco della mano di Zidane in quella vittoria: più della sua idea di calcio liquido, del calcio che avremmo associato a Kroos e Modric cioè, a portare il Madrid alla vittoria erano stati la solidità di Casemiro e un Bale a cui bastava semplicemente mandare il pallone, in qualsiasi condizione di gioco e di marcatura, per fare la differenza.

I trionfi in Liga e in Champions del 2016/17, allora, spazzano via ogni dubbio e ci mostrano la versione più brillante del ciclo di Zidane, che conclude la stagione con Isco nel 4-3-1-2 e un modo indecifrabile di occupare il campo. Il secondo tempo dell’andata dei quarti di finale all’Allianz Arena col Bayern Monaco, il doppio confronto con l’Atletico Madrid in semifinale e il secondo tempo della finale di Cardiff contro la Juve sono il manifesto del Real Madrid di Zidane, i più grandi picchi di talento della storia recente della calcio. Ognuna di quelle partite racconta qualcosa dell’unicità dei giocatori di quella squadra e del terzetto di centrocampo in particolare.

L’egemonia

Bayern-Real Madrid dimostra come la tecnica, quando raggiunge le vette di Kroos e Modric, possa adeguarsi a qualsiasi contesto. Come scritto da Fabio Barcellona dopo una vittoria della squadra di Zidane in casa della Juventus, «la tecnica è lo strumento che utilizza per apprendere e migliorare, ampliando le possibilità tattiche della squadra». Bayern-Real Madrid è una partita dai mille volti: prima controllo territoriale del Bayern, poi scambio continuo di transizioni e infine, con i tedeschi in dieci, attacco posizionale degli spagnoli. Siamo abituati a pensare alla tecnica, al tocco, come a una risorsa legata alle fasi di controllo della partita: laddove ci sono pochi spazi, occorre sensibilità nei piedi per sfruttare ogni centimetro e aggirare il sistema difensivo avversario. Invece, la qualità nel tocco di Modric e Kroos si dispiegava in tutto il suo splendore anche nelle transizioni. A ogni palla contesa, Casemiro o i centrali si occupavano di portarla dalla propria parte. Poi stava a loro due ripulirla del tutto con un controllo orientato nello stretto o con un appoggio: dopo la seconda palla, non c’era mai traffico da cui Kroos e Modric non potessero magicamente sottrarre la sfera.

Lontani dalla confusione, si trattava solo di organizzare la transizione. Nessuno dei due è mai stato un giocatore da spazi aperti, ma avevano un modo di coniugare la tecnica in movimento che li rendeva maestosi anche nel ribaltare il campo: il segreto era la capacità di condurre e scaricare senza mai fermarsi, restando sempre vicini per accompagnare la transizione, mentre anche gli altri compagni si avvicinavano a loro per partecipare. Era come se Kroos, Modric e chi ripartiva insieme a loro, iniziando a scambiarsi il possesso per risalire il campo, rimanessero legati grazie a un filo invisibile, il pallone, che li costringeva a rimanere vicini, fino magari a trovare uno sfogo in profondità, quella sera all’Allianz Arena le corse di Benzema, Cristiano Ronaldo e Asensio.

E se proprio non c’era modo di sfondare in verticale, allora Kroos e Modric potevano decidere di arrestare l’avanzata, fare un passo indietro e convertire la transizione in un giro palla tranquillo, di quelli con cui far pesare la propria egemonia tecnica sull’avversario. Alcuni possessi del Madrid fluivano da una catena laterale all’altra, come acqua all’interno dei solchi, senza l’obiettivo di arrivare subito in area, ma solo per far correre a vuoto gli avversari e sfiancarli all’idea di dover affrontare dei giocatori tanto più forti. Gli scambi del Real Madrid di Zidane come la scena del ballo nel Gattopardo di Visconti, una sequenza di pura eleganza trasposta nel presente da un’altra epoca, che mette in soggezione gli avversari e crea un senso di malinconia in chi non ama il calcio troppo frenetico e automatizzato delle ultime stagioni – l’ultima esibizione del genere lo scorso aprile in casa del Chelsea. Il maestro della gestione di quei possessi era Kroos: il Madrid addensava uomini sul suo lato, il sinistro, partiva una serie di scambi corti finché Kroos, di prima, pressato, apriva il piattone e con la precisione di un golfista alzava la palla per il cambio gioco.

Cristiano Ronaldo è stato il volto delle tre Champions consecutive, un finalizzatore senza precedenti, con una capacità sovrannaturale di concentrare gli sforzi nei momenti decisivi. Tuttavia, il senso profondo del Madrid di Zidane stava altrove, proprio in quei torelli improvvisati ogni volta che Kroos e Modric si avvicinavano ai compagni per farsi dare palla. Sono loro, sotto la guida di Zidane, ad aver plasmato il calcio liquido, un modo di stare in campo senza una struttura fissa, dove anche ciò che sulla carta non sembra funzionale – centrocampisti schiacciati sulla stessa linea o addirittura a pestarsi i piedi con i difensori – in realtà ha una sua coerenza, perché risponde alla logica di chi gode di piedi e testa superiori, non di calciatori normali.

È il motivo per cui il Madrid degli ultimi anni è stato difficile da affrontare, non solo per i suoi avversari, ma anche per chi ne scrive o prova ad analizzarlo, perché laddove sarebbe facile provare a descrivere la partita dall’alto, evidenziando principi e disposizioni in campo, arrivano la tecnica, il carisma e il cervello di giocatori come Kroos, Modric e Casemiro a imbrogliare tutto, a complicare ogni tentativo di fare ordine. Come si spiegano, altrimenti, due mezzali ipertecniche che si abbassano quasi da difensori centrali e un mediano difensivo che si alza dietro i centrocampisti avversari?

È stato questo, negli ultimi sei anni, il movimento che più ha definito il Real Madrid. Era strano, le prime volte, osservare il triangolo di centrocampo che si invertiva. Pian piano ci siamo abituati e ne abbiamo afferrato la logica. «Ci sono cose come gli scambi di posizione che fanno in partita, a volte Toni o Luka si abbassano per uscire dalla pressione e Casemiro si alza... Su questo non mi intrometto, i tifosi del Madrid possono stare tranquilli», ha detto lo scorso inverno Ancelotti riguardo le rotazioni del suo centrocampo, ripartendo come al solito il merito tra i suoi campioni. All’inizio, sembrava soprattutto un modo di liberarsi dell’impaccio Casemiro in prima costruzione: il brasiliano, il meno dotato tra i titolari, lontano dal possesso basso per evitare di perdere palla in maniera pericolosa – e il movimento di Casemiro che si alza per lasciare spazio in impostazione ai compagni, ripetuto per ben due volte, permette al Madrid di creare l’azione del gol di Vinicius nell’ultima finale col Liverpool.

Casemiro si alza alle spalle di Thiago e permette a Carvajal di condurre verso il centro. Carvajal scarica su di lui e Casemiro apre per Modric a destra.

Modric arretra e come un incantatore si porta dietro tre avversari. Casemiro si alza ulteriormente dietro gli uomini in pressione su Modric. Il croato va in verticale da Carvajal che appoggia a Casemiro.

Casemiro apre sulla destra per Valverde, che avanzerà e troverà l’assist per Vinicius.

Ad avvantaggiarsi davvero di questo movimento è Toni Kroos, che aveva bisogno di toccare più palloni possibile fronte alla porta per dare il suo ritmo alla partita. Da quella posizione, incastonato a metà tra il centrale e il terzino sinistro, poteva connettersi con il compagno nel mezzo spazio, aprire su Marcelo già alto o cambiare gioco a destra dopo aver dialogato con la catena di sinistra. Kroos non è mai stato virtuoso come Modric, non ha quel tipo di talento capace di travolgere ogni contesto; piuttosto, il tedesco è colui che il contesto lo crea, grazie a una pulizia nel calcio che suEcos del Balon era stata paragonata a quella di Platini, Prohaska e Netzer. La palla che esce dai piedi di Kroos, che si tratti di un passaggio rasoterra o di un’apertura, è semplicemente di un’altra qualità, costringe i compagni e la partita a conformarsi al suo volere.

La capacità del numero otto di attivare le catene laterali, sul corto o con i cambi gioco, influiva non solo sulla fase di possesso, ma anche su quella difensiva. Spesso il possesso del Madrid viaggiava da una fascia all’altra senza apparenti velleità di bucare il centro. Per sostenere una squadra zeppa di talenti offensivi, l’equilibrio doveva essere il primo pensiero, anche con la palla: perderla in prossimità della linea laterale, quindi, era meglio che perderla al centro. Se i centrocampisti, invece di scaglionarsi in verticale, si avvicinano alla palla fino anche ad appiattirsi, è perché è sempre bene avere uno scarico sicuro con cui conservare il possesso, piuttosto che alzare troppi uomini sopra la linea della palla e prendersi rischi in transizione: la porta, tanto, si può raggiungere in un secondo momento grazie alla tecnica e all’associazione con attaccanti e terzini tanto straordinari quanto loro.

Col tempo, il valore del trio di centrocampo Modric-Casemiro-Kroos è rimasto sempre lo stesso. Il calcio intorno a loro è cambiato, ma non è cambiato il senso di timore sacro provato dagli avversari al loro cospetto nei momenti decisivi della Champions League. Rispetto a qualche anno fa il Madrid è meno brillante, le fasi di dominio sulla partita si sono assottigliate, ma sono ancora sufficienti a vincere le eliminatorie: la differenza di talento resta incolmabile e può bastare anche un istante, il tempo di recuperare palla e inventarsi un lancio d’esterno, com’è successo a Modric nella gara di ritorno col Chelsea di quest’anno.

Dei tre, nonostante sia il più anziano, il croato probabilmente è quello invecchiato meglio. Casemiro ha disputato grandi partite contro il PSG e in finale, ma non ha avuto una buona stagione. Kroos, in alcuni frangenti della Champions, è sembrato per la prima volta superato dal tempo, in un calcio che purtroppo, per la strada che ha preso, pare rifiutarsi di creare centrocampisti con un tocco degno del suo. Modric invece no, se c’era da spendersi in rientri profondi non si tirava indietro e la sua tecnica non ha mai smesso di splendere. Non è eresia chiedersi se sia meglio l’ultima versione del croato o quella del primo triennio di Zidane.

La brillantezza con cui è invecchiato Modric resta un mistero, così come resta un mistero, in generale, il suo calcio. Un talento universale, con un inventario sconfinato, impossibile da incasellare in etichette. Qual è la giocata che definisce Modric? I lanci con l’esterno? I dribbling di spalle col controllo orientato? Le corse in profondità sulla destra da incursore, come quella da cui nasce il 3-1 di Cristiano Ronaldo nella finale di Cardiff? E che dire del suo modo di condurre palla, con gli avversari che, per pura riverenza, sembrano prostrarsi ai suoi cambi di ritmo come gli apostoli davanti a Cristo nella Trasfigurazione di Raffaello? – e sarà il candore della maglia del Real, o le sue lunghe ciocche bionde, a darmi l’impressione di quest’aura cristologica. Come aveva scritto Abel Rojas, Modric è diventato più di un semplice calciatore, la sua presenza in campo riesce a toccare anche gli aspetti intangibili del gioco: «Il suo eccezionale repertorio, avvolto in una semplicità conquistatrice, ha superato la barriera della realtà per trasformarsi in un’influenza astratta che infonde rispetto nei suoi avversari e che, soprattutto, rende più grande chi veste la sua stessa maglia».

Los Reyes de Europa

È impossibile trovare partite di Champions League dove le squadre rimangano in perfetto controllo tattico. Il livello dei giocatori e la tensione emotiva dovuta al peso e alla storia della competizione sono talmente alti che arriva sempre una fase della gara dove ogni equilibrio si rompe, il campo si allunga e gli errori si moltiplicano. Al Madrid, con Zidane e soprattutto con Ancelotti, non interessava a dominare a pieno la partita, ma grazie a Kroos e Modric ha potuto permettersi di accettare con serenità la mutevolezza delle eliminatorie, perché, a differenza degli avversari, i suoi centrocampisti avrebbero saputo come muoversi.

C’è chi, come il Manchester City di Guardiola, negli ultimi anni ha provato a minimizzare i rischi e le situazioni convulse per avvicinarsi alla coppa. C’è chi, invece, quelle incertezze così endemiche della Champions le ha accettate, come chi supino in mare chiude gli occhi e si lascia trasportare dalla corrente. Se le squadre si sbottonano e la partita diventa uno scambio di colpi, è sempre il Madrid a rimanere in piedi.

La triade Modric-Casemiro-Kroos è stata la grande costante di tutte le vittorie degli ultimi anni, il vero volto dietro quel concetto astratto di mistica che, un po’ per pigrizia, un po’ per romanticismo, applichiamo alla CasaBlanca. Un centrocampo così talentuoso e al contempo ben bilanciato, è il segreto per cui non esisteva situazione compromessa per il Real Madrid, che tante volte usciva dai momenti di tempesta della partita con una soluzione in tasca. Casemiro, Kroos e Modric, sono forse il motivo principale per cui, come aveva scritto sempre Abel Rojas, la Champions League, che di solito tratta tutti i suoi protagonisti con la severità di Dio nell’Antico Testamento, con il Real Madrid si comporta come un’adolescente innamorata.

Senza Casemiro, saranno sostenibili Kroos e Modric insieme? Già lo scorso anno c’erano momenti in cui non lo sembravano. Nella finale di Parigi, ad esempio, Kroos sembrava nettamente il giocatore più in difficoltà degli spagnoli, vittima della partita laddove una volta avrebbe imposto il contesto. Una sua sostituzione sembrava la scelta più logica, non per Ancelotti, che con quel rispetto sacro, quasi d’altri tempi, nel talento, lo ha lasciato in campo, venendo ripagato da un’ultimissimo scorcio di gara dove Kroos è tornato a decidere a cosa si dovesse giocare – a nascondere la palla al Liverpool, cioè – ogni volta che si passava da lui, come fosse tornato all’improvviso nella miglior versione di sé.

A fine stagione Kroos e Modric andranno in scadenza. Nel 2019, al momento della firma, Kroos aveva addirittura ipotizzato di ritirarsi a fine contratto: «Allora avrò 33 anni e quella potrebbe essere una buona età per ritirarsi, ma anche per decidere se fare altro o meno», aveva detto. Negli ultimi anni il Madrid si è cautelato con una serie di centrocampista dalle grandi prospettive: Valverde e Camavinga, già decisivi nell’ultima Champions, e Tchouaméni quest’estate. Per le caratteristiche dei sostituti, anche la dirigenza deve essersi convinta che sia inutile cercare dei doppioni di Casemiro, Kroos e Modric. Un centrocampo così non ci sarà mai più e la mistica del Real Madrid dovrà trasmettersi ai piedi di qualcun altro.

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