Alla fine l’ha vinta lo stesso il Real Madrid e non si è più parlato del gol annullato a Benzema a pochi minuti dalla fine del primo tempo. Un gol che, però, è tanto significativo della partita e delle differenze tra le due squadre quanto lo è stato quello decisivo di Vinicius Junior. A pochi minuti dalla fine del primo tempo, dicevamo, Alaba si alza sulla linea del centrocampo e da sinistra lancia in diagonale per Benzema, scattato alle spalle di van Dijk e davanti a Robertson. Benzema controlla col destro sullo spigolo dell’area piccola, rientra prendendo in controtempo Robertson che lo aveva recuperato e poi per qualche ragione esita prima di tirare di sinistro. Alisson gli arriva quasi addosso e lui si gira con l’interno destro dando quasi le spalle alla porta. Alisson cade in ginocchio ma anche Benzema non ha la coordinazione per passarla con l’esterno a Vinicius Junior al centro dell’area, ammesso che fosse quello che voleva davvero fare.
Mentre anche Benzema finisce inginocchiato, dal suo piede esce un passaggio strozzato a metà strada tra Alisson, che si tuffa per deviarlo ma poi tira indietro la mano, e Konaté, il cui piede sembra muoversi da solo e toccare la palla in direzione del portiere. Retropassaggio o meno poco importa perché Alisson non ha modo di bloccare la palla che gli sbatte sul ginocchio, sul rimpallo si avventa Valverde che prova a calciare di sinistro: Konaté si oppone in scivolata e - lo capiremo bene solo dal replay - respinge il tiro sul ginocchio di Fabinho che era entrato a sandwich da dietro. La palla, magicamente, come se in ginocchio avesse pronunciato le parole di un rito sciamanico, torna a Benzema che mette dentro di sinistro con una certa fretta e violenza.
Al di là delle questioni più strettamente arbitrali, degli errori individuali e dei temi tattici (analizzati nei dettagli Fabio Barcellona) questa è la classica azione in cui il Real Madrid sembra creare un pericolo letteralmente dal nulla. Con la complicità non trascurabile della fortuna, dice qualcuno, ma che non può essere solo fortuna dopo che succede una, due, tre, quattro volte. Il Madrid che trasforma la partita di calcio in un flipper da spingere col bacino come Verdone in Troppo Forte, che ha un rapporto sensuale, intimo, speciale con i momenti caotici. Che anela al caos, lo desidera e lo aspetta a volte anche per tutta la partita. Il Madrid che sembra spingere la palla in porta col pensiero, con la pura forza di volontà, con un mucchio di giocatori assurdamente sicuri di sé.
Sicuri di potercela fare anche con due gol da recuperare a mezz’ora dalla fine contro il PSG, a dieci minuti dalla fine con il Chelsea che ha segnato tre gol al Bernabeu, sotto di due gol con il Manchester City e stavolta a tempo scaduto. Giocatori che se gli crolla il mondo addosso non si spostano, che non battono ciglio quando le squadre migliori del mondo li mettono con le spalle al muro e che, anzi, sembrano a proprio agio proprio con le spalle al muro, che indossano alla perfezione i panni degli sfavoriti. Una squadra raccontata come underdog anche se tra di loro c’è uno dei due o tre portieri migliori al mondo degli ultimi dieci anni, un Pallone d’Oro, un futuro Pallone d’Oro, il centrocampista titolare della Nazionale brasiliana anche lui più o meno da un decennio, quello con più talento della Germania campione del mondo nel 2014. E ditemi voi se questi possono essere underdog.
Il fatto è che non sappiamo come raccontare questo Real Madrid. Ricadiamo sempre, involontariamente, in schemi predefiniti, in luoghi comuni che sono anche luoghi deserti, spiazzi di terra ventosi senza anima viva. Tiriamo fuori l’eroe di pezza che attraversa mille difficoltà, che sembra sul punto di cadere e poi, alla fine, ce la fa quasi per miracolo. Il piccolo Davide con le guance rosa che armato solo di fionda sconfigge il gigante-guerriero Golia assetato di sangue. Sono riduzioni superficiali che però in qualche modo penetrano attraverso tutti gli strati di cui è fatto quello che chiamiamo “il mondo del calcio” arrivando fino ai suoi protagonisti.
In una lettera pubblicata su The Player’s Tribune quasi due anni e mezzo fa, Jurgen Klopp raccontava che per caricare i giocatori del Borussia Dortmund prima della partita con il Bayern Monaco mostrava loro delle scene di Rocky IV. Klopp dice che tra le scene che ha mostrato ai suoi giocatori ci sono quelle in cui Ivan Drago si allena con dei cavi che lo collegano a dei computer circondato da scienziati, mentre Rocky è solo in mezzo alla neve della Siberia. Nella sua metafora Ivan Drago era il Bayern - «il meglio di tutto! La migliore tecnologia! Le migliori macchine!» - e ovviamente Rocky era il Borussia - «Siamo più piccoli, sì. Ma abbiamo il cuore di un campione! Possiamo fare l’impossibile!».
L’aneddoto era presentato come prova della sua fallibilità, degli errori che servono per crescere - perché i suoi giocatori erano troppo giovani e appena un paio di loro conosceva Rocky (strano, comunque) - ma se mi è tornato in mente pochi giorni prima di questa finale, è perché adesso sono Klopp e la sua squadra attuale ad essere finiti a fare la parte di Golia. Se dovesse mostrare di nuovo Rocky IV, stavolta dovrebbe indicare Ivan Drago e dire “ecco, noi siamo questo”.
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Quale immagine si avvicina a quella di Ivan Drago più di Trent Alexander-Arnold che calcia le punizioni con dei sensori cerebrali attaccati alla testa e dei fili che gli percorrono la schiena fino a un piccolo computer che tiene in vita come un marsupio? Chi rappresenta oggi «il meglio di tutto» più del Liverpool di Kloop, la squadra che tutti vogliono imitare, che mette insieme intensità e gioco di posizione, sistema e talento individuale? Allargando lo sguardo, chi più di Klopp e Guardiola rappresenta il calcio “evoluto”, quello degli “scienziati”, quello che piace agli “Einstein” a cui si riferisce Mourinho nel post in cui celebra la vittoria della Roma in Conference League (e che quindi individua come sui detrattori)?
E cosa c’è di più lontano da questo calcio di quello del Real Madrid di Ancelotti che vince tirando in porta quattro volte in tutta la partita, prendendola due; della Roma con il 33% del possesso palla, che segna alla prima occasione e poi si chiude per il resto del tempo? Cosa c’è di più opposto all’attenzione con cui TAA allena i calci di punizione dei giocatori del Real Madrid che - come ha raccontato poi Dani Ceballos - giocavano a carte poche ore prima del fischio di inizio?
Niente è più distante dalla profonda concentrazione di Salah nel tunnel del Parc de Princes, che vive il ritardo dovuto ai problemi di organizzazione come una tortura, e in campo prega con il capo chino, muovendo le labbra, del sorriso da invasato con cui Benzema ha reagito al gol del momentaneo 4-2 di Bernardo Silva nella partita di andata con il Manchester City, di quella certezza interiore che qualcosa potesse comunque succedere a loro favore e che, anzi, sarebbe successa senza neanche sforzarsi troppo di farla succedere.
Benzema sembra sorridere degli sforzi del Manchester City. Poveri illusi. Karim Benzema, semplicemente, sa.
Oppure valutate quest’altra immagine. Come tutti i giocatori del Liverpool, prima di entrare in campo Naby Keita studia il libro degli schemi con un membro dello staff tecnico. Non lo guarda tanto per guardare, fa domande, chiede precisazioni. Vuole entrare in campo preparato, programmato. Poco dopo invece sta per prendere parte alla gara Eduardo Camavinga, che guarda lo svolgersi del gioco vicino ad Ancelotti, con le mani sui fianchi. Mentre Camavinga aspetta, però, si fa male Valverde e dall’inquadratura larga della regia si vede un membro dello staff di Ancelotti parlare con il quarto uomo, già con la lavagnetta in mano, indicando proprio Valverde. Probabilmente doveva uscire qualcun altro ma in seguito all’infortunio hanno cambiato idea. Così, al volo.
Camavinga sta per entrare in campo ma si gira e torna indietro, chiede spiegazioni al membro dello staff ma quello non sa niente, allora chiama Ancelotti che gli dice due cose da lontano, muovendo una mano un po’ a caso, senza dargli troppa importanza. Camavinga prende il posto di Modric che a sua volta prende quello di Valverde. Tutto qui. Non c’è molto altro da dire. Gli altri dettagli, sembrerebbe, li gestiranno loro. Giocate su, che c’è da discutere.
Il Real Madrid sembra dare forma plastica ai tempi caotici in cui viviamo, con quella sensazione di incredulità che ha accompagnato tutti i momenti significativi e tragici della nostra epoca. Sta succedendo davvero o è solo un meme? Al tempo stesso, il Madrid propone un’idea di calcio vicina alla lotta per la sopravvivenza, in cui la capacità di reagire all’imprevisto, di far fronte a situazioni estreme, ha preso quasi le dimensioni di una religione, di un’ideologia; ma in cui la vera legge sottostante, l’unica logica possibile, è quella della giungla in cui vince il più forte. Curtois è più forte di Salah e Mané. Vinicius Jr. è stato più bravo, più adatto, di Trent Alexander Arnold nell’occasione da gol. Valverde è stato più svelto, furbo di Konaté e Alisson, ha sentito l’odore dell’errore come un predatore sente la paura. Ecco fino a che punto si può ridurre la complessità di questo Real Madrid.
Si tratta, appunto, di una riduzione, che però è anche una cristallizzazione di qualcosa che è indubbiamente presente in questo Real Madrid e nella simbologia che lo avvolge. Sembra, anzi, che questa sia la loro missione. Che vogliano - consapevolmente o meno - dimostrare di essere più vicini all’essenza del calcio di quanto lo siano i loro avversari meglio preparati, meglio programmati. Che il calcio si regga su un filo sottile sospeso nel vuoto, quello del talento individuale e delle connessioni che si creano tra i vari talenti. Che in fondo tutta quella programmazione, i cavi e i monitor di Ivan Drago e TAA, non servono a niente. O insomma, ti portano magari in finale, tre volte in cinque anni, ma non è detto ti facciano vincere. Questo è quello in cui credono, questo è quello a cui loro si allenano, ad abbracciare l’imprevisto, a interpretare la confusione, ad adattarsi a ogni singolo momento senza dare per scontato il momento successivo.
Dopo la partita, in conferenza stampa, la prima domanda rivolta a Klopp non era neanche una domanda, quanto piuttosto una semplice constatazione. «Incredibile ma vero», ha detto un giornalista, e l’ha dovuto ripetere due volte perché Klopp sembrava non capire, specificando la seconda volta: «Incredibile, considerando la performance». Klopp è scoppiato in una risata nervosa e ha iniziato a sistemare le bottigliette che aveva davanti a sé vicino al microfono. «Non c’è niente di incredibile, è solo il risultato di una partita di calcio». E sembra un’ulteriore vittoria di quel modo di intendere il calcio, aver ridotto Jurgen Klopp senza argomenti per spiegare quanto successo. Costringerlo a negare che esista l’incredibile, anche se ce l’ha avuto davanti al naso per novanta minuti, a fingere che si tratti di una sconfitta come le altre. Una sconfitta in finale di Champions League - la sua terza su quattro giocate - a cui arrivava da favorito, che doveva essere la sua consacrazione, di quella squadra che ha costruito meticolosamente e che sembra arrivata a un punto di svolta (Mané andrà via quasi sicuramente subito, Salah o quest’estate o gratuitamente quella dopo). Come è potuto accadere? E chi lo sa.
«Quindi, nell’era in cui la maggior parte degli allenatori sposa una filosofia», ha scritto Jonathan Wilson sul Guardian, nell’era «del dominio del gioco di posizione di Guardiola e del gegenpressing di Jurgemn Klopp, il primo allenatore a vincere quattro volte la Champions League è Carlo Ancelotti, che è quanto di più mutevole e pragmatico ci sia».
Questo sembra diventato il nuovo paradigma: da una parte c’è la normalità, quello che la stragrande maggioranza dei professionisti accetta come la strada migliore - il metodo, la messa a punto di un sistema di gioco che applica e ibrida diversi princìpi, che studia e analizza, misura e pesa cercando di mettere il calciatore nelle condizioni migliori possibili per giocare la sua partita - e dall’altra l’eccezionalità quotidiana, il fatto irripetibile che si ripete, lo stupore di chi vince resistendo, per pura forza oppositiva, per quel tipo di genio artistico inspiegabile, che sconvolge e pone domande senza offrire risposte. Da una parte chi prova a controllare più cose possibili - e dove non controlli quanto meno puoi indirizzare, preparare - e dall’altra chi aspetta di entrare in campo con le mani sui fianchi come un pesce che aspetta di essere gettato in acqua dopo che il pescatore gli ha sfilato l’amo di bocca.
È una chiave interpretativa che quanto meno ci fa capire perché così tante persone riescano a partecipare del successo del Real Madrid, sentendosi persino vicini al club più vincente della storia del calcio, che di recente ha anche provato a distruggere questa stessa coppa a cui sembra legato da un sortilegio, portandosi via i titoli conquistati e cambiandogli nome come un’auto a cui sostituire la targa. Più della vittoria di un Davide in fondo non così piccolo, ricchissimo e abituato a uccidere giganti un po’ ingenui, è la vittoria di un calcio in cui per quanto ci si possa sforzare di controllare più cose possibile c’è sempre una componente misteriosa, nebbiosa, impossibile da tenere in mano, da mettere in barattolo, che si solleva dall’erba del campo quando lo decide lei e che puoi soltanto evocare, crederci.
E l’idea che nel calcio - almeno in una singola partita, giocata da calciatori di livello stellare - ci sia qualcosa che nessuno può veramente allenare o programmare, non fa che rendere ancora più eroico lo sforzo umanissimo di chi invece ci prova a canalizzare questa energia, a dargli forma e struttura, a costruire con sforzo collettivo un’idea di calcio che sia abitabile, in cui muoversi liberamente al riparo dal freddo e dalle intemperie. Sempre con la consapevolezza che un uragano e un’alluvione possono costringerti a ricominciare ogni volta da capo.