Di solito, quando una squadra è talmente più dominante rispetto alle proprie avversarie dirette da rendere il confronto noioso, per mantenere vivo l’interesse il termine di paragone si rivolge al passato. I Golden State Warriors erano già entrati nella storia della NBA con il titolo vinto nella scorsa stagione, le 67 vittorie in regular season e un differenziale di punti di +10.01 (il settimo più alto di sempre). Quest’anno, però, hanno fatto un ulteriore passo avanti nella storia—e se prima il discorso si fermava a “una delle migliori di sempre”, ora la narrativa che circonda questa squadra è: “Ma non è che siamo davanti alla migliore di sempre?”.
Non era mai successo prima di oggi che una squadra NBA aprisse la stagione con 20 vittorie e 0 sconfitte, e solo nel baseball è successa una cosa simile—sì, ma nel 1884, non nel 2015. Non è mai successo che una squadra tirasse così bene. Non è mai successo che una squadra battesse le avversarie con 15 punti di scarto di media. Non è mai successo che un singolo giocatore segnasse più di 3.6 triple a partita o che avesse un PER superiore a 32. Potrei andare avanti ancora per molto, ma avete afferrato il concetto.
Questo significa che continuerà per sempre così, che gli Warriors non perderanno mai e Steph Curry continuerà a segnare ogni pallone che esce dalle sue mani? No, non può essere così. Ma questo non cambia di una virgola quello che è stato raggiunto in queste prime 20 partite: i Golden State Warriors fanno già parte della storia NBA indipendentemente da come andrà a finire questa regular season o i prossimi playoff. Perché vincere il titolo darebbe una luce diversa a tutto quello che è stato raggiunto, certo, ma vincere il titolo è anche dannatamente difficile—basta un infortunio al momento sbagliato, un accoppiamento sfavorevole, un qualsiasi dettaglio per cambiare il risultato di una stagione. Ma questo non cambia il processo che sta dietro a esso, o il fatto che questi Golden State Warriors se la possano giocare per il titolo di miglior squadra di sempre.
Il dominatore
Per qualche motivo, il trionfo della scorsa stagione è stato messo in dubbio prima dell’inizio di questa: si diceva che gli Warriors erano stati fortunati (ma quale squadra campione NBA non lo è stata?), che la squadra avrebbe risentito enormemente della mancanza di Steve Kerr (bloccato dai postumi di un’operazione estiva alla schiena), che sarebbero stati sazi e che il premio di MVP doveva andare James Harden (votato anche dai suoi colleghi nella prima edizione dei “Players Awards”). Ecco, diciamo che questi ragionamenti erano privi di senso prima e lo sono ancora di più alla luce dell’inizio da 20 vittorie e 0 sconfitte.
In particolare, Steph Curry pare ulteriormente migliorato rispetto a quello che l’anno scorso aveva già vinto il premio di MVP, e non c’è molta discussione sul fatto che sia—oggi, 3 dicembre 2015—il miglior giocatore della Lega. Le cifre raccontano solo fino a un certo punto il dominio tecnico e tattico che esercita sulle partite: quando lui è in campo le difese hanno come principale obiettivo quello di togliergli-quella-maledetta-palla-dalle-mani, e ciò nonostante riesce a segnare 32 punti di media in 34 minuti di gioco, con insensate percentuali effettive dal campo al 65%, cifre riuscite solamente a Wilt Chamberlain, ma con un volume di tiri nettamente inferiore (14 tiri tentati contro i 20 di Curry).
Steph è il pianeta attorno a cui gira tutto, dai compagni agli avversari fino alla Lega stessa. La sua forza di gravità, intesa come attenzioni e accorgimenti delle difese in base a dove si trova, non ha eguali nella NBA: come ben spiegato da questo pezzo di ESPN, ormai Curry è in grado di mandare in crisi chi si trova davanti anche senza toccare la palla, per il solo fatto di esistere. Quello che lo rende ancora più dominante è che lui lo sa e sfrutta tutto il terrore delle difese avversarie per torturarle in maniera quasi sadica, manco fosse Ramsay Bolton di Game of Thrones.
Certe triple insensate che si prende—e molto spesso segna—sono la sfacciata sfida di chi si sente invincibile, del tipo: “Ah, volete passare dietro questo blocco? E io vi segno da 9 metri, così imparate”. Quando gioca con questa arroganza e questa fiducia nei suoi mezzi, Curry costringe gli avversari a sottomettersi al suo volere, aprendo metri e metri di spazio ai suoi compagni, che ormai sanno perfettamente come e quando si creeranno opportunità per segnare. C’è un motivo se gli Warriors segnano 117.8 punti su 100 possessi con lui in campo e solo 102.9 senza, passando da un irreale +21.8 di Net Rating a un buon, ma non eccezionale +3.4.
Istantanea dalla partita contro Utah: i Jazz vivono un buon parziale volando sul +3 con palla in mano, gli Warriors sembrano in reale difficoltà davanti alla stazza di Gobert e Favors, lui intanto aspetta di entrare con la faccia di chi sa già cosa succederà. Infatti entra, prende il rimbalzo, va dall’altra parte e segna da tre. Poi segnerà un’altra tripla decisiva per spezzare la parità. E tutto questo è sembrato inevitabile.
Da questo punto di vista, il dominio mentale sulla partita è ai livelli di un Jordan, di un Bryant o di un James: quando c’è lui si gioca la sua partita, con le sue regole e secondo la sua volontà—altrimenti bisogna solamente sperare che sbagli i tiri che gli vengono “concessi”. E anche quando non gli vengono concessi, lui se li prende comunque, perché è troppo più rapido, intelligente e furbo per essere contrastato. Le cose che ha fatto contro Charlotte giusto ieri notte, specialmente nel terzo quarto, non dovrebbero essere permesse a un umano normale. Non dovrebbe essere permesso di decidere, di punto in bianco, al più alto livello del mondo, “Ok adesso questa partita la vinco nel terzo quarto segnando da qualsiasi posizione” e poi farlo davvero.
Solo a novembre.
Il “sidekick”
L’unico modo che è stato trovato finora per evitare di essere vivisezionati da Steph, oltre a pregare, è togliergli la palla dalle mani—vale a dire evitare del tutto il problema per quanti più possibili possessi a partita. È qui che entra in gioco però il vero game-changer dei Golden State Warriors, vale a dire Draymond Green, che in questo inizio di stagione è diventato la spalla ideale per Curry e il secondo giocatore più importante della squadra, anche più del secondo Splash Brother Klay Thompson.
I numeri dei due vanno di pari passo: il Net Rating con lui in campo è addirittura superiore a quello di Steph (+22.0) e crolla a livelli simili quando esce (+3.7), ed è la combinazione dei due nel pick and roll alto a essere un enigma finora irrisolvibile per qualsiasi difesa:
Situazione standard: Curry viene raddoppiato a metà campo pur di impedirgli il tiro, Draymond riceve e sfrutta la situazione di 4 contro 3. Se viene lasciato libero, tira con oltre il 38% da tre; se si ruota su di lui, è abbastanza intelligente e veloce per a) battere il recupero e arrivare al ferro per un sottomano; b) premiare il taglio di un compagno (come Livingston in questo caso); c) alzare un lob per Festus Ezeli à-la-Blake-Griffin-to-DeAndre-Jordan; d) servire il tiratore libero in angolo per una tripla comoda. Sa fare tutto alla massima velocità e alla massima precisione, per questo nessuno ha ancora capito come fermarli.
In un certo senso, Green è il primo e principale beneficiario del pianeta-Steph: è grazie a lui se sta viaggiando a oltre 7 assist di media, cifre che non si vedevano per un lungo “vero” da quando Chamberlain decise un bel giorno di far vedere a tutti che la sapeva anche passare. Di situazioni come quella qui sopra se ne trovano a decine in ogni partita, e per quanto il pick and roll alto “semplice” venga usato soprattutto nei finali di gara, non c’è realmente una difesa giusta per contenerlo—si può solo battezzare il peggiore tiratore in campo, ma chiedete ai Cleveland Cavs come è andata nello scorso giugno quando Andre Iguodala è stato sfidato al tiro in maniera quasi imbarazzante e anche oggi sta tirando col 48% da tre.
Ma Green non è l’unico a saper fare quel lavoro—anzi, di “playmaking 4” ce ne sono sempre di più nella Lega. Quello che lo rende unico è l’apporto difensivo che riesce a dare, marcando tutti e cinque i ruoli e dando una versatilità pressoché totale ai campioni in carica. Green è in grado di cambiare su tutti i piccoli grazie alla rapidità di piedi e le braccia chilometriche, marcare i lunghi in post grazie al baricentro basso e il busto massiccio, proteggere il ferro (3° migliore in tutta la NBA dietro Gobert e Ibaka) e guidare verbalmente tutti i compagni con la sua boccaccia sempre accesa. È quasi ingiusto che un singolo giocatore sia in grado di fare tutto questo da solo—di solito una frontline possiede tutte queste caratteristiche in due o tre giocatori, non nello stesso.
Per tutti questi motivi Green—pur non arrivando ai due metri di altezza—è stato definito “il miglior centro della NBA”: nei 594 minuti in cui è stato schierato da 5 nelle ultime due stagioni, gli Warriors hanno battuto gli avversari di 31.2 punti su 100 possessi—per dare un’idea della distanza di cui stiamo parlando, tra gli Warriors imbattuti e i Sixers mai vincenti fino a due giorni fa passano ne passano 28.9.
The lineup of death
Come se Curry e Green non fossero abbastanza già di loro, gli Warriors hanno anche la possibilità di mettere in campo quello che è già stato ribattezzato “The Lineup of Death”, il quintetto della morte, ovverosia quello formato da Curry, Thompson, Iguodala, Barnes e Green. L’unico paragone che mi viene in mente per descriverlo è il Quarto D’Ora Granata del Grande Torino: a Oakland non c’è nessun ferroviere a fare i tre squilli di tromba e Steph Curry non si arrotola le maniche come Valentino Mazzola, ma anche gli Warriors—che tendono a “costeggiare” molti tratti di partita, da cui si spiegano le oltre 16 palle perse a gara—a un certo punto decidono di fare sul serio e aprire in due gli avversari.
Quel quintetto non solo mette in campo cinque tiratori, ma anche cinque passatori, palleggiatori e atleti in grado di punire qualsiasi scelta la difesa sia costretta a fare. In più, nella loro metà campo sono in grado di cambiare su tutti i blocchi, impedire le ricezioni in post basso, raddoppiare alla velocità della luce su chiunque e generalmente negare all’attacco la creazione di qualsiasi vantaggio, mentre il cronometro dei 24 secondi inesorabilmente si avvia allo scadere.
Risultato: 154.7 di rating offensivo, 84.8 di difensivo, +69.9 di differenziale, 72.9% di canestri assistiti, una percentuale reale al tiro che sfiora l’80% e un ritmo insostenibile di 109.75 possessi in 64 minuti finora. Da qualunque parte lo si prenda c’è sempre qualcosa che sfugge e l’unico modo per attaccarli è punirli a rimbalzo offensivo, dove necessariamente devono soffrire un po’ la mancanza di chili e le rotazioni frenetiche (gli Warriors recuperano meno del 73% dei rimbalzi difensivi, un dato che sarebbe penultimo nella Lega su tutta la stagione). Ma a parte quello non c’è molto da poter fare, se non attaccare Green e Curry per creargli problemi di falli a inizio partita, forzare tante palle perse “vive” che permettano di avere punti facili in contropiede e sperare in una serata storta al tiro. Tutte cose che i Clippers erano riusciti a fare una settimana fa, per di più in casa loro e con quattro giorni di riposo alle spalle. Non è bastato nemmeno quello.
34 W di fila o 73-9?
Quindi, dopo aver polverizzato la miglior partenza di sempre, qual è il prossimo record a cui gli Warriors possono puntare? Migliorare le 33 vittorie consecutive dei Los Angeles Lakers del 1971/72 oppure battere l’inavvicinabile 72-10 dei Chicago Bulls del 1995/96? Sono entrambi record epocali e per questo incredibilmente difficili da battere, ma la vera notizia in questo momento non se o quando ci riusciranno, ma il fatto stesso che lo possano fare. Già solo questo dovrebbe rendere l’idea di che tipo di squadra stiamo parlando. Questi Warriors sono meglio di quelle squadre? Non lo sappiamo. È assolutamente impossibile che lo diventino? Non sappiamo nemmeno questo.
Però, come detto in questo pezzo sul Bleacher Report: «Se non vi va bene l’idea che gli Warriors possano diventare la miglior squadra di sempre, forse è perché non pensate che il concetto di progresso si applichi alla NBA così come a quasi tutto il resto. La scienza medica, la ricerca spaziale, l’innovazione tecnologica—tutti ambiti che sono in parabola ascendente. Diventiamo più intelligenti, abbiamo strumenti più precisi, impariamo di più, e miglioriamo in tutto questo». Aggiungo io: perché nello sport—e nello specifico in questa NBA—non può succedere lo stesso e avere oggi, nel 2015 che sta per diventare 2016, proprio davanti ai nostri occhi, la miglior squadra di basket di tutti i tempi?