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Come Red Bull si è presa il calcio
26 nov 2024
La rete di club legata all'energy drink rimane l'esempio più peculiare e innovativo nel panorama delle multiproprietà.
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22 min
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IMAGO / Picture Point LE
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“A seguito di un'indagine approfondita e di diversi importanti cambiamenti strutturali e di governance apportati dai club (per quanto riguarda le questioni societarie, i finanziamenti, il personale, gli accordi di sponsorizzazione, eccetera), la CFCB [l'Organo di Controllo Finanziario dei Club] ha ritenuto che nessuna persona fisica o giuridica avesse più un'influenza decisiva su più di una squadra che partecipa a una competizione UEFA per club”.

Con queste parole nel giugno 2017 la UEFA ha dato il suo benestare alla partecipazione contemporanea in Champions League di Red Bull Salisburgo e RB Lipsia, chiudendo definitivamente la porta a una regolamentazione più stretta sulle multiproprietà nel calcio. In sostanza: Salisburgo e Lipsia sono due squadre che fanno riferimento alla stessa multinazionale di bibite ma per la UEFA sono gestite in maniera autonoma e quindi possono anche scontrarsi tra loro in Europa senza ricadere in alcun conflitto d’interesse.

L'esperimento portato avanti con successo dalla Red Bull è diventato quasi la norma in Europa, e negli ultimi 10 anni le multiproprietà come metodo di gestione delle squadre di calcio sono diventate sempre più comuni. Ancora oggi però quello della Red Bull rimane l'esperimento più caratteristico, principalmente per il fatto che impone il marchio dell’azienda e la propria estetica a ogni squadra che entra a far parte del gruppo. È l’unica multiproprietà, insomma, che tratta una squadra di calcio come se fosse a tutti gli effetti un altro prodotto da promuovere (con la parziale eccezione del City Football Group, che per alcune squadre ha imposto lo stesso "dress code"). Per questa stessa ragione fa impressione il modo in cui i tifosi finiscono per identificarsi nelle sue squadre, che hanno colori sociali e stemmi che fanno parte integrante della strategia di marketing di un energy drink.

È passato molto tempo da quando la Red Bull è sbarcata nel calcio ma le domande sono rimaste le stesse. Una tra tutti: quanto vantaggio competitivo comporta il metodo Red Bull rispetto agli avversari che non fanno parte di gruppi di multiproprietà? Visto quanto successo ha avuto il "modello Red Bull", non solo nei risultati ma anche nell'influenza tattica sul calcio contemporaneo la risposta sembrerebbe essere: molto.

Nel frattempo, tra l'altro, la Red Bull è riuscita ad alzare ulteriormente l’asticella delle ambizioni rispetto agli albori del suo progetto, quando raccontavamo di com’era nato e come si era sviluppato il piano delle "squadre in provetta".

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IL SUCCESSO DEL LIPSIA
Gli ultimi 10 anni hanno mostrato che il piano della Red Bull non era solo un progetto ambizioso nella testa di qualche direttore del marketing. L'idea che un certo stile di gioco adrenalinico basato su verticalità e riaggressione potesse comunicare il brand ha funzionato, e forse la cosa più sorprendente è che ha avuto anche successo sul campo.

Oggi lo "stile Red Bull" nel calcio è diventato a tutti gli effetti il tratto principale dell’attuale scuola tattica tedesca e non è un caso se uno degli ex allenatori della galassia Red Bull alla fine sia diventato CT della Germania. Nagelsmann, però, è persino più di un semplice CT: è il più importante allenatore tedesco della sua generazione. Se non bastasse, l'approdo di Jurgen Klopp, quest'anno diventato Global Head of Soccer del progetto Red Bull, è la definitiva conferma. «Considero il mio ruolo principalmente come un mentore per gli allenatori e i dirigenti dei club Red Bull», ha detto l'ex allenatore del Liverpool nel comunicato con cui ha spiegato le ragioni della sua decisione. «Ma in definitiva sono una parte di un'organizzazione unica, innovativa e orientata al futuro».

Pochi mesi prima, Klopp aveva lasciato Liverpool dicendosi sfinito. La decisione di avere un ruolo dirigenziale non ha sorpreso molto, quindi, ma la scelta di farlo per la Red Bull invece sì. Nonostante sia famoso per essere il volto di molti marchi pubblicitari, infatti, Klopp aveva costruito la sua carriera su una specie di aura proletaria, legando la sua storia a club che sembravano molto lontani da quelli Red Bull: il Mainz in cui è cresciuto, il Borussia Dortmund e il Liverpool. Soprattutto le ultime due sono squadre dall’enorme massa popolare, che fanno vanto della loro tradizione e di una visione del calcio come un fenomeno sociale più che un semplice sport. Un tratto identitario per la città in cui giocano.

Lo stesso Klopp aveva parlato in modo duro nei confronti delle squadre in multiproprietà e dei fondi sovrani entrati nel calcio. Va detto che in passato aveva però difeso il RB Lipsia, pur non toccando la questione delle multiproprietà e della regola del 50+1: «So quanto il Lipsia sia criticato dai tradizionalisti del calcio. Anch'io sono un tradizionalista. Tuttavia, credo che il Lipsia non abbia tolto nulla ai club tradizionali. Hanno solo intrapreso una nuova strada», ha detto due anni fa. «All'inizio, in terza o quarta divisione, il denaro giocava un ruolo importante. Ma ora non hanno più soldi di qualsiasi altro club della Bundesliga. Si qualificano per la Champions League, quindi hanno più soldi a disposizione, certo. Il loro budget salariale però non è superiore a quello del Dortmund o del Bayern». Il fatto che la Red Bull sia riuscito ad avere lui come volto del proprio progetto, insomma, è una grande vittoria.

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I tifosi del Mainz hanno immediatamente fatto sapere a Klopp cosa ne pensavano.

Dalla promozione in Bundesliga, il RB Lipsia è diventato in breve tempo una delle squadre di riferimento del campionato tedesco. Il via libera della UEFA alla partecipazione alle competizioni europee le ha aperto le porte della Champions League, che ormai è una abitudine, e i proventi che sono seguiti l'hanno resa la squadra di punta del progetto, quella dove far confluire i maggiori investimenti e puntare ai migliori allenatori e giocatori.

Il momento di picco è arrivato nella stagione 2020/21, quando con Julian Nagelsmann è arrivata in semifinale di Champions League e al secondo posto in Bundesliga (quest'ultimo già raggiunto con Ralph Hasenhüttl nella Bundesliga 2016/17, nella prima partecipazione della sua storia). Con Nagelsmann sembrava possibile che la squadra raggiungesse prima o poi anche il titolo, ma dopo la sua partenza (proprio per il Bayern Monaco) non ci si è mai più avvicinata. Nella stagione successiva, però, ha comunque vinto il suo primo trofeo, ovvero la Coppa di Germania, con Domenico Tedesco in panchina, poi bissata nella stagione successiva con Marco Rose. La sua prima vittoria è anche la più significativa, quella che ha risuonato di più in Germania, dove la cultura democratica nel calcio è molto sviluppata. Dall’altra parte, poi, c’era il Friburgo di Christian Streich, una squadra totalmente di proprietà dei propri tifosi. «Un club non appartiene a una sola persona, appartiene ai suoi membri e alle persone che si identificano con esso», aveva detto proprio Christian Streich per rimarcare la differenza concettuale tra il Friburgo e il RB Lipsia.

A fine partita, mentre i giocatori dell'RB Lipsia ritiravano le medaglie dei vincitori e sollevavano il trofeo, dalla curva dei tifosi del Friburgo si è srotolato un enorme striscione con scritto solo: “Red Bull merda”.

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È significativo, di questo striscione, che i tifosi non se la prendano con la squadra avversaria, cioè il Lipsia, ma direttamente con la Red Bull, accusata di corrompere il calcio tedesco. Questa aggressività da parte dei tifosi avversari tedeschi non è mai scemata fin dal primo momento in cui il Lipsia è apparso in Bundesliga. La situazione non si è normalizzata, insomma, e la presenza della Red Bull continua ad essere vista come un problema all’interno dell’ecosistema tedesco perché ne mina la natura stessa.

In Germania, infatti, continua ad avere grande importanza la regola del 50+1, che ha permesso ai tifosi di essere parte integrante della gestione della squadra e di non essere considerati soltanto clienti. A Lipsia, la Red Bull ha circumnavigato questa regola prendendo la quasi totalità della gestione del club attraverso una società per azioni imponendo un controllo ferreo su quello che i tifosi possono mostrare all’interno dello stadio. Questo è un altro nodo perché la cultura del tifo in Germania è anche intrinsecamente politica. Le curve si esprimono regolarmente su questioni sociali e politiche, mentre questo a Lipsia è stato vietato.

Quando nel 2018 alcuni tifosi del RB Lipsia hanno mostrato uno striscione con scritto "ama il calcio – odia il sessismo", per dire, hanno ricevuto una lettera con cui venivano bannati dallo stadio. «Noi sosteniamo alcuni valori fondamentali, tra cui l'antirazzismo e l'antidiscriminazione», ha detto all’epoca il CEO Mintzlaff «Ma non ci consideriamo una piattaforma per messaggi politici, qualunque essi siano». La maggioranza dei tifosi di Lipsia ha finito per adeguarsi al dettame societario e porta in curva solo cose che fanno riferimento alla squadra dei tori rossi.

Nel frattempo la Red Bull ha continuato ad espandersi nel calcio anche al di fuori della Germania. Nel 2020 si era parlato di un interessamento verso la squadra danese del Brondby, una delle più famose, ma la cosa era stata accolta con orrore dai tifosi secondo cui “la Red Bull rappresenta tutto ciò che disprezziamo e che abbiamo lottato per non diventare". Alla fine l'interessamento è stato smentito dal presidente Jan Bech Andersen. Nello stesso periodo però era già partito il piano di espansione in Sudamerica, dove la Red Bull aveva già una squadra. In Brasile, per la precisione.

BRAGANTINO
Il Bragantino, club fondato nel 1928 nella città di Bragaça Paulista (nello stato di San Paolo), negli anni ‘90 aveva avuto un discreto successo pur facendo parte del calcio minore brasiliano. In una situazione economica delicata, alla fine degli anni ‘10 aveva respinto la proposta di fondersi con l’Oeste. In questo contesto, nel 2020 la Red Bull ha rilevato le quote societarie e con un investimento di “soli” 10 milioni di euro, che sono serviti nella prima stagione a risistemare lo stadio, il centro sportivo e pagare gli stipendi, con la squadra che intanto era appena stata promossa nella Serie A brasiliana. La squadra che la Reb Bull aveva già in Brasile, chiamata Red Bull Brazil, di conseguenza è diventata la seconda squadra del Red Bull Bragantino.

Anche in questo caso i colori e lo stemma sono stati cambiati per inquadrarli dentro l’immagine aziendale: da bianconero la squadra è diventata biancorossa e lo stemma è quello con i due tori, solo con scritto Bragantino dentro. Non ci sono state proteste degne di nota dai tifosi locali, che sono in sostanza passati in blocco alla nuova squadra. Nelle ultime cinque stagioni la squadra è sempre rimasta in Serie A, con il sesto posto come miglior piazzamento. In questa stagione, a sorpresa, la squadra è in zona retrocessione. Lo stadio da 15mila posti si riempie di media per un terzo e su Reddit qualcuno scherza: "Il RB Bragantino ha davvero dei tifosi o è solo uno schema di riciclaggio di denaro della Red Bull?".

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Una foto di Mauro Silva, uno dei grandi centrocampisti brasiliani e ex giocatore del Bragantino vicecampione del Brasile nel 1991, per apprezzare l'incredibile maglia dell'epoca.

Ralf Rangnick, all’epoca direttore generale e direttore sportivo globale dell'RB Lipsia, ha dichiarato: «È importante per la Red Bull garantire nei prossimi anni lo sviluppo di un maggior numero di giocatori in località come New York o il Brasile, che per noi potrebbero essere dei rinforzi». Alla Red Bull interessava avere una testa di ponte all’interno del florido mercato brasiliano, ed è stato scelto il Bragantino, ma poteva essere qualsiasi altra squadra in situazioni simili. La mentalità in questo senso è di "stampo coloniale", con la periferia dell’impero che è assoggettata per il bene del centro (in questo caso l'asse tra Salisburgo e Lipsia).

Gli investimenti sono tarati in tal senso, in modo da rendere le squadre competitive a sufficienza per permettere ai giocatori di trovarsi in un ambiente favorevole alla crescita, prima di essere spediti in Europa se ritenuti all’altezza. Ad oggi ci sono due esempi in tal senso: il primo è stato l’ala sinistra Luis Phelipe, ora 23enne, che dal Red Bull Brazil è passato al Bragantino appena acquistato e da lì poi in Austria, senza però convincere il Salisburgo che l’ha scartato non rinnovandogli neanche il contratto (oggi gioca in Romania). Poi c’è stato il difensore centrale ventenne Douglas Mendes, acquistato nell’agosto del 2022 dal Red Bull Bragantino per 2 milioni dal Ponte Preta e poi venduto per 2 milioni al Red Bull Salisburgo nell’estate 2023 (dopo qualche mese nella seconda squadra è stato rimandato al Red Bull Bragantino in prestito).

Se il Bragantino vince qualcosa tanto meglio (ha raggiunto una finale di Copa Sudamericana nel 2021), ma il suo scopo è unicamente quello di essere un pezzo della catena di montaggio del sistema Red Bull. Un sistema che nel frattempo sta sviluppando sempre più rami, uno di questi è arrivato in Giappone.

OMIYA ARDIJA
L’ultima squadra in ordine cronologico ad entrare nel gruppo Red Bull è l’Omiya Ardija in Giappone. In questo caso l’ecosistema giapponese ha aiutato l’entrata del colosso austriaco e i suoi metodi di marketing così sfacciati.

In Giappone, fin da quando si è sviluppato il calcio a metà Novecento, infatti è normale che le squadre siano emanazioni di aziende più o meno grandi (il discorso è lungo e legato allo stile di vita giapponese dalla prima industrializzazione). A differenza dello stile Red Bull, però mantengano legami con l’azienda solo a livello di maggioranza all’interno della proprietà e magari di sponsor sulla maglia, ma non di nome. Per la verità, in Giappone questo sistema era pensato inizialmente per far identificare i lavoratori con l'azienda, più che per fare pubblicità a un marchio. Questo vale per quasi tutte le squadre giapponesi di alto livello, per cui si può tracciare l’origine dalla formazione amatoriale di un’azienda a metà novecento.

L’Omiya Ardija ad esempio è nata nel 1968 come la squadra della società di telecomunicazioni NTT, la più grande del Giappone, ma da subito ha perso ogni riferimento alla casa madre, sia nel nome che come sponsor. L’entrata in campo della Red Bull come proprietaria di una squadra giapponese non ha quindi suscitato levate di scudi. D'altra parte, la squadra campione in carica è il Vissel Kobe, di proprietà della società e-commerce Rakuten dal 2004, società che appena arrivata ha cambiato il colore della squadra dalle strisce bianconere al grana aziendale (cosa che però, va detto, aveva fatto infuriare i tifosi all’epoca).

Il motivo per cui l’entrata della Red Bull in Giappone ha dovuto attendere tanto quindi è un altro. Nonostante l’ecosistema così favorevole al calcio in provetta, fino al 2020 il regolamento della J. League prevedeva che la maggioranza all’interno della proprietà dovesse essere sempre giapponese (per questo motivo ad esempio il City Group nel 2014 prese solo il 20% degli Yokohama Marinos, lasciando la maggioranza delle quote alla Nissan).

Alla conferenza stampa per ufficializzare l’acquisizione dell’Omiya Ardija di inizio novembre a Tokyo c’era anche Mario Gomez, ora direttore tecnico della divisione calcio della Red Bull, che ha dichiarato che la Red Bull non ha intenzione di «giocare nella J2 [la Serie B giapponese, ndr] per 10 anni» e cercherà di rafforzare il club con l’obiettivo di vincere il titolo entro il 2030. È previsto che Klopp arrivi in Giappone a visitare la nuova squadra a gennaio.

L’Omiya Ardija è la seconda squadra della città di Saitama, grosso sobborgo di Tokyo, la prima sono i ben più famosi Urawa Reds (squadra del conglomerato Mitsubishi), una delle squadre più importanti della storia del calcio giapponese. All’ombra degli Urawa Reds, l’Omiya Ardija raccoglie tifo solo locale e ha uno stadio da 15mila posti che raramente fa tutto esaurito. Negli anni ha fatto da pendolo tra le varie divisioni e quest’anno è stata appena promossa in seconda divisione dopo aver vinto la terza. Come sembra chiaro da questa fase storica del progetto Red Bull nel calcio, il fatto di essere una piccola, con uno stadio di proprietà e storicamente senza grandi ambizioni di trofei è visto come un vantaggio. Quello che sembra volere la Red Bull è sì scalare le gerarchie per assestarsi in alto nella J.League, ma soprattutto un accesso al florido vivaio giapponese che gli permetta di raccoglierne i frutti migliori, cioè quelli in grado di entrare nelle sue squadre europee.

In questo caso la Red Bull ha detto di voler mantenere il nome e i colori della squadra (arancione e blu) optando per utilizzare la denominazione RB Omiya Ardija (come nel caso del RB Lipsia) e non Red Bull Omiya Ardija come negli altri casi. Una decisione che forse deriva da un nome già piuttosto lungo per la presenza del soprannome Ardija, che curiosamente viene dallo spagnolo ardilla (scoiattolo), animale simbolo della zona di Omiya e presente sia sullo stemma della squadra che come mascotte. Insomma: la squadra “toro rosso dello scoiattolo di Omiya” forse suonava fin troppo strano anche per un mondo peculiare come quello dei nomi delle squadre giapponesi.

Ad essere stato toccato quindi è soltanto lo stemma, con i due tori rossi che hanno preso il posto dello scoiattolo, ma sempre con un contorno arancione e blu. Non è ancora chiaro invece cosa succederà alla mascotte, che in Giappone sono parte integrante dell’identità della squadra (sia in formato grafico che in costume allo stadio) e sono amate dai tifosi. In questo caso le mascotte sono due e si chiamano Ardi e Miya, sono uno scoiattolo maschio e uno femmina, vestono le magliette arancio blu della squadra e il loro destino purtroppo sembra segnato (a meno che non si decida per due scoiattoli che indossano il costume di un toro rosso, in caso sarebbe una bella idea).

Il calcio giapponese a livello di nazionale sta vivendo un periodo positivo, grazie soprattutto all’esodo in massa dei giocatori giapponesi in Europa, ma a livello di club la situazione non è rosea: con l’economia giapponese stagnante da anni, sono fin troppi i club indebitati o che hanno ridotto il proprio budget negli ultimi anni. La Red Bull ha colto l’occasione e non è detto che sia l’unico modello di multiproprietà a farlo nel breve periodo (Ineos e BlueCo potrebbero essere altri due grossi gruppi industriali a fare lo stesso nei prossimi anni). Semplicemente sembra il più preparato per sfruttare da subito il contesto.

RED BULL PARIS?
Proprio negli stessi mesi in cui si consumava la trattativa giapponese, la Red Bull è entrata anche nel campionato francese, acquisendo assieme al gruppo LVMH l’attuale seconda squadra parigina del Paris FC (nata poco dopo il PSG ma mai realmente rivale diretta, avendo giocato sempre nelle serie inferiori). Nella sua prima conferenza stampa come proprietario del Paris FC, Antoine Arnault di LVMH ha però confermato che la Red Bull sarà solo un’azionista di minoranza, una mossa inusuale per la multinazionale austriaca.

Da capire se apparirà in futuro come sponsor sulla maglia, ma sicuramente non di più a livello estetico, perché l’80% delle quote sono di LVMH: «Non è affatto la stessa logica che hanno il Lipsia, il Salisburgo e altri club. Qui si tratta davvero di un partner sportivo», ha detto Antoine Arnault. La Red Bull sarà parte integrante del processo calcistico attraverso il suo know how a livello di calcio giovanile, visto che nel piano descritto da Arnault il Paris FC si concentrerà soprattutto sul raccogliere i migliori talenti dell’area metropolitana di Parigi, così da avere presto in rosa dai 6 agli 8 giocatori cresciuti nel proprio settore giovanile.

La Red Bull da anni pesca in Francia soprattutto per il Lipsia e con questa mossa mette un piede nel sistema francese di sviluppo di giocatori. Vedremo come evolverà la questione, se questa strada sarà ripetuta anche in un altro campionato, magari europeo.

LEEDS
Intanto questa estate la Red Bull è entrata come socio di minoranza nel Leeds United, una delle squadre storiche del calcio inglese che, tolta la breve parentesi con Marcelo Bielsa, da tempo non riesce a raggiungere il suo potenziale. Leeds è la più grande città con un solo club del Regno Unito. Il suo stadio Elland Road è da 38mila posti e il Leeds ha 27mila abbonati, un'enormità per un club di seconda divisione.

Per il potenziale inespresso della squadra, esattamente come successo a Lipsia, la Red Bull aveva adocchiato il Leeds da almeno 10 anni, ma non era riuscito ancora a trovare l'occasione. La squadra è attualmente in Championship ed è di proprietà della 49ers Enterprises (il fondo d’investimento americano della franchigia NFL dei San Francisco 49ers) dalla scorsa estate, quando ha completato un'operazione di acquisizione da 170 milioni di sterline. Come per il Paris FC anche in questo caso la Red Bull ha preso quote di minoranza (il 10%).

Come detto, questa dell'investimento da socio di minoranza è una grande novità a livello di piano strategico. Fino ad ora la Red Bull aveva veicolato il proprio messaggio facendosi artefice diretta dei successi, permettendo l'identificazione del marchio col successo della squadra. In questo caso, invece, Red Bull sarà solo main sponsor, almeno per ora. «L'ambizione di riportare il Leeds United in Premier League e di affermarsi nel miglior campionato di calcio del mondo si sposa molto bene con la Red Bull», ha dichiarato alla presentazione del nuovo progetto il CEO Oliver Mintzlaff.

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Nella maglietta di questa stagione sono quindi apparsi i due tori rossi come sponsor di maglia, una scelta che non ha reso felici i tifosi del Leeds che storicamente associano il rosso ai rivali del Manchester United e del Liverpool. E in questa stagione sugli spalti si sono viste molte di più le nuove magliette da trasferta che quelle da casa, perché in quelle da trasferta i tori non sono rossi. Ma per i tifosi la vera paura è che in futuro la Red Bull possa entrare come proprietaria vera e propria, cambiando nome, stemma e colori sociali.

C'è da dire che il Leeds è una di quelle squadre inglesi che non hanno mai avuto uno stemma stabile lungo la loro centenaria storia. Anche la maglia è cambiata spesso: inizialmente striscia blu e bianca, poi gialla e blu come colori primari, nel 1961 l’allenatore Don Revie sceglie di cambiare per un completo totalmente bianco per ispirarsi al grande Real Madrid di quell’epoca. Da quel momento la squadra compie una scalata fino a vincere il titolo e diventare una delle grandi squadre inglesi degli anni ‘70, portando la divisa bianca a diventare immutabile. Certo, un cambiamento oggi avrebbe un altro sapore, soprattutto perché fatto per ragioni commerciali nemmeno appartenenti alla squadra in sé.

Il presidente del Leeds, Paraag Marathe, che è anche presidente della 49ers Enterprises, ha detto che il nome dello stadio, del club e lo stemma non verranno modificati. Ovviamente, si intende implicitamente: per ora. Quando arriverà il momento in cui la Red Bull potrà permettersi di modificare i simboli di una squadra storica del calcio inglese?

LA RED BULL IN ITALIA
Dalle ultime indiscrezioni, sembra che Red Bull possa fare questo passo proprio nel campionato italiano. Delle caratteristiche preferite dalla multinazionale austriaca, l'unica che manca a gran parte dei club italiani è quello dello stadio di proprietà. Come sappiamo, sono pochissime le squadre che ce l’hanno ed è difficilissimo costruirne uno nuovo.

Forse è per questo che nel 2016 si parlò dell’Udinese come possibile nuova squadra Red Bull. In questi anni però la famiglia Pozzo è rimasta saldamente in controllo, sviluppando anzi una sua versione delle multiproprietà col Watford in Inghilterra e il Granada in Spagna (poi ceduto nel 2016). Negli ultimi mesi, quindi, sono spuntate altre due possibili candidate, e cioè il Torino e il Genoa - due tra i club più antichi e prestigiosi del calcio italiano.

Proprio i rumor riguardanti il Torino si sono fatti sempre più insistenti nelle ultime settimane. L’estate scorsa la Red Bull è diventata uno degli sponsor del club piemontese e la prospettiva è stata ulteriormente facilitata dal conflitto sempre più aspro tra la presidenza di Urbano Cairo e la tifoseria, ormai in aperta contestazione. Il 28 ottobre La Stampa è uscita con un articolo dal titolo “Toro in vendita”, in cui si parla di ulteriori incontri tra Cairo e la Red Bull per una possibile espansione futura della sponsorizzazione, fino anche alla cessione della squadra. Per ora sono solo contatti preliminari che però, sempre secondo La Stampa, avrebbero portato come danno collaterale alla cessione di Bellanova, in modo da rendere più appetibili i conti ai futuri acquirenti. Lo stesso giorno Cairo ha smentito tutto, ribadendo che il Torino non è in vendita, ma La Stampa ha insistito: gli incontri ci sono stati e a confermare l'interesse di Red Bull nei confronti della Serie A ci sarebbero anche fonti legate a JP Morgan e agli ambienti legali milanesi.

A Torino il vero nodo sarebbe lo stadio di proprietà. La concessione del comune dell’Olimpico Grande Torino scade la prossima estate, e fino ad ora la Red Bull non si è mai mossa se non per squadre in cui poteva avere il controllo completo degli impianti. Uno dei motivi che avevano portato a scegliere Lipsia era proprio lo stadio appena costruito per i Mondiale 2006 e pronto per essere lasciato ad una squadra. Da questo punto di vista, la pista che porta al Genoa, che insieme alla Sampdoria si è mossa da tempo per rilevare lo stadio Ferraris, potrebbe sembrare più solida, senza contare la situazione difficile in cui versa il fondo 777, che ancora ha la proprietà della squadra. Chissà magari la Red Bull potrebbe rilevare dal fondo 777 la squadra e poi prendere anche lo stadio Ferraris dal comune.

Il problema, come in Germania, potrebbe essere però l'opposizione da parte dei tifosi. Se il calcio italiano è diverso da quello tedesco e non ha come principio cardine la democrazia all’interno delle società di calcio, in Italia più che in Germania c’è un legame molto forte tra la tifoseria e i simboli della squadra, a partire dalla sua identità estetica. I colori e le forme della maglia e dello stemma sono argomenti che in Italia ancora dividono i tifosi, che si sentono custodi della tradizione ereditata. Per il Torino, per esempio, la maglia granata è tanto importante quanto il nome stesso della squadra, e questo forse potrebbe far optare la multinazionale austriaca per un rebranding “leggero”. D'altra parte, per una squadra che ha un toro nello stemma non sarebbe troppo difficile trovare un compromesso. Cosa che ovviamente non potrebbe succedere nel caso del Genoa.

Il paradosso della nave di Teseo non vale nel calcio, perché pur cambiando col tempo tutti i calciatori, i tifosi sanno che una squadra rimane se stessa anche per via dei colori sociali e dello stemma che la rappresenta. Questo a Genova lo sanno i tifosi anche più che in altre squadre italiane: la maglia del Genoa è a spicchi rosso blu e con un grifone sul petto, e negli anni i cambiamenti sono stati minimi per entrambe le cose. Vedere cancellata quella storia porterebbe anche in Italia a delle domande scomode: quanto vale la competitività che il mondo Red Bull porta con sé? Quanto vale un simbolo come un grifone? Quanto vale la storia, la comunità che sta dietro un paio di colori su una maglietta? E quanto vale la strategia di marketing che un'azienda vuole proiettarci sopra?

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