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Resto del mondo: dicembre
17 dic 2015
Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata a tutti i campionati del pianeta Terra!
(articolo)
32 min
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Ecco a voi la nuovissima puntata di Resto del mondo, la rubrica mensile di brevi approfondimenti sulla situazione degli altri campionati del pianeta Terra. In questo episodio: il meraviglioso mondo dei Portland Timbers in MLS, il gioco dello Standard Liegi in Jupiler League, la strana sorpresa Heerenveen in Eredivisie. Ma anche: una gita nel campionato sudafricano, i paradossi di Zenone del campionato russo e l’incubo che sta vivendo la Steaua Bucarest. Poi i botti finali, assurdi, illogici, folli, della J. League.

Qui trovate la prima puntata, qui la seconda e qui la terza.

Buona lettura!

Romania

di Pietro Cabrio (@nogometniblog)

Distopia Steaua

Quella iniziata a luglio è probabilmente una delle peggiori stagioni di sempre per la Steaua Bucarest dalla caduta del regime di Nicolae Ceausescu, e negli ultimi anni di cose brutte, alla Steaua, ne sono successe parecchie. Trovare l’origine esatta dei seri problemi del club non è semplice, considerando non solo la quantità, ma anche tutte le personalità che in qualche modo hanno avuto un ruolo nella loro nascita.

I problemi della Steaua non sono sportivi, o almeno quello sportivo non è l'aspetto più preoccupante. I Ros-albastrii hanno vinto gli ultimi tre campionati e ora sono quinti in classifica a otto punti dall’Astra, in testa al campionato con 45 punti ottenuti in 22 partite. Le competizioni europee sono finite ad agosto: prima è arrivata l’eliminazione al terzo turno preliminare della Champions League contro il Partizan Belgrado, poi quella contro il Rosenborg nei playoff di Europa League. La squadra, come si può ipotizzare dai risultati, non è granché e degli ultimi buoni giocatori romeni sono rimasti solo Paul Papp, terzino destro con un passato al ChievoVerona, il trequartista Nicolae Stanciu e gli attaccanti esterni Alexandru Chipciu e Adrian Popa.

Nonostante la stagione anonima, le vere fonti di preoccupazione arrivano dalla dirigenza, dal governo e dalla giustizia romena. Esattamente un anno fa, la corte suprema giudicò non valide le condizioni con cui la Steaua venne comprata dall’imprenditore ed ex parlamentare Gigi Becali. Come conseguenza, la squadra dovette coprire il logo storico della società dagli schermi dello stadio, dalle tute dello staff e dalle maglie dei giocatori e le fu vietato di usare la propria denominazione.

Di fatto, dal dicembre 2014 la Steaua non è più la Steaua (anche se è riuscita a mantenere il nome), la prima squadra dell’est a vincere una Coppa dei Campioni e la più famosa del paese. È un’altra entità, guidata da un personaggio molto particolare come Gigi Becali. Da qualche settimana non gioca nemmeno più a Bucarest, ma a Pitesti, una città a 120 chilometri dalla capitale e dai due stadi in cui la Steaua era solita giocare: l’Arena Nationala per le partite più importanti e lo stadio Ghencea per il resto degli incontri. È cambiato anche lo stemma e pure negli album di figurine Panini in vendita in Romania è riportata solo la sigla FCSB.

Becali divenne il proprietario di maggioranza della Steaua nel 2003 e ufficialmente nel 2004. Era già presente in società con una quota di minoranza dal 1998, ovvero da quando la Steaua cessò di essere la squadra dell’esercito romeno. Dopo un inizio promettente e con molte aspettative, la gestione Becali si è trasformata in una delle presidenze peggiori che una squadra di calcio europea abbia mai avuto. La Steaua ha continuato a essere la squadra più importante e vincente di Romania, ma nell’ambiente societario non c’è mai stata nessun tipo di certezza. Becali ha spesso ordinato l’esclusione di alcuni giocatori della squadra perché ritenuti “scarsi” e non all’altezza e ha cambiato decine e decine di allenatori, spesso inspiegabilmente.

Venne arrestato nel 2013 all’aeroporto di Bucarest mentre tentava di fuggire in Israele. Fu condannato a tre anni per corruzione nell’ambito di una vendita di terreni con il Ministero della difesa. Un anno fa vennero arrestate anche due figure molto vicine a Becali: Mihai Stoica, ex amministratore delegato della Steaua, e Gheorghe Mustata, capo ultras accusato di tentato omicidio. Stoica fu condannato a tre anni e sei mesi per evasione fiscale e riciclaggio durante il processo che azzerò completamente i vertici del calcio nazionale e in cui venne arrestato anche Gheorghe Popescu, uno dei più forti calciatori romeni di sempre ed ex capitano del Barcellona. Non erano i primi guai giudiziari per Becali, che nel 2009 fu accusato di avere sequestrato i tre presunti ladri che rubarono la sua macchina.

Becali è stato rilasciato alcuni mesi fa e ha subito ribadito la sua volontà di sparire dalle cronache e dalla presidenza della Steaua. Oggi però è ancora al comando del club e non sembra aver intenzione di lasciare. Poche settimane fa si è dimesso l’allenatore Mirel Radoi e al suo posto è stato ingaggiato Laurentiu Reghecampf dai bulgari del Litex Lovech. Becali ha annunciato che nella sosta invernale rinforzerà la squadra e in una conferenza stampa ha detto che ha intenzione di «comprare mezza squadra dell’Astra», la prima in classifica. Ha poi criticato duramente alcuni giocatori attualmente in rosa e ha ordinato di escluderne altri. I tifosi intanto disertano in massa le partite, a cui non assistono mai più di qualche migliaio di spettatori.

Dal 2009 la Steaua ha raggiunto due volte la fase a gironi di Champions League e quella a eliminazione diretta in Europa League. Con una pessima gestione è riuscita a valorizzare a vendere comunque giocatori come Vlad Chiriches, Bogdan Stancu, Raul Rusescu e Florin Gardos. Circa la metà dei tifosi di calcio romeni tifa Steaua e verrebbe da chiedersi dove sarebbe potuta arrivare la squadra se nell’ultimo decennio avesse avuto una dirigenza “normale”. Oggi, le previsioni sul futuro della Steaua restano molto negative. Solo le dimissioni di Becali potrebbero cambiare la situazione e soprattutto terminare il contenzioso con l’esercito. Dimissioni che oggi non sembrano possibili.

MLS

di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

Providence Park, lo stadio dei Portland Timbers, ospita da una trentina d'anni una colonia di gatti randagi; il corn dog è stato inventato a Portland; i carretti di street food a Portland sono il triplo dei camion dell'immondizia; rispetto alla concorrente Seattle, su Etsy ci sono il 20% in più di unicorni in vendita provenienti da Portland. Se c'è una città hipster per eccellenza negli States, quella è Rose City.

Ed è a Portland, un po’ a sorpresa e un po’ no, che è andata a finire la MLS Cup del ventennale: nel cuore più boscaiolo della Cascadia Region, costa nord-ovest del Pacifico, là dove il soccer è più sentito, ma anche dove fino a oggi nessuno, neppure i Seattle Sounders, era ancora riuscito a vincere.

Nat Borchers <3 Liam Ridegwell <3 MLS Cup.

Sarà che nell'ultimo mese non ho guardato che partite della Division d'Honneur della Guadalupa e della AS Roma, ma la sfida tra Colombus Crew SC e Portland Timbers mi è sembrata una partita davvero divertente, piena di spunti ed episodi, degna di una finale: grappoli di occasioni, pali incomprensibili, parate miracolose e spettacolari, e poi un piano partita improntato per più di ottanta minuti (cioè dopo il secondo gol dei Timbers al settimo minuto) sul contenimento, peraltro svolto egregiamente dagli uomini di Caleb Porter. E poi c’è stato quel gol dopo soli 27 secondi di gioco, frutto della scaltrezza dell'argentino Diego Valeri. Il gol più veloce di sempre nella storia delle finali della Major League of Soccer.

0’27’’. C’est pas possible.

Diego Hernán Valeri è arrivato a Portland nel 2013, dopo una carriera spesa per lunga parte nel Lanús, che ha guidato alla vittoria dell'Apertura nel 2007, primo e finora unico titolo nazionale dei Granate, e una parentesi non troppo fortunata al Porto. Nell'ottobre del 2012 ha subito una rapina di fronte alla sua abitazione: gli hanno puntato una pistola alla gola, la moglie e la figlia piccola hanno fatto appena in tempo a rifugiarsi in casa. Cinque mesi dopo è emigrato negli States per farsi una vita più tranquilla.

Il successo di Portland, in buona sostanza, è merito dell’equilibrio tra creatività individuale e spirito di gruppo. Caleb Porter, coach dei Timbers con un passato onesto nel soccer dei college, ha disegnato la sua squadra attorno a una spina dorsale solida e imponente come il profilo dei monti di Cascadia, che parte dalla coppia difensiva formata da Nat Borchers e Liam Ridgewell, passa attraverso Darlington Nagbe e Valeri e termina con Melano e Adi.

Melano è il giovane argentino che ha segnato questo gol assurdo in finale di Conference.

Quella formata da Borchers e Ridgewell è stata una delle migliori coppie difensive della Regalar Season: Portland, per dire, ha subito 13 reti in meno dell’ultima stagione. In particolare Borchers è riuscito a imprimere alla sua già iconica figura barbuta un quid in più di eroicità, segnando nella finale di andata di Western Conference contro Dallas il gol, col senno di poi, definitivo per l’accesso alla finale.

Sì, quel rumore in sottofondo sono motoseghe.

Il turning point della stagione dei Timbers, il momento in cui Porter ha trovato la quadratura del cerchio, è quello in cui ha deciso di spostare Nagbe dalla fascia al ruolo di centrale di centrocampo puro.

Il rapporto tra il venticinquenne di origini liberiane (figlio di Joe Nagbe, un passato da professionista in Francia e molte presenze in Nazionale al fianco di Weah, scappato dal corno d’Africa negli anni ’90 per via della guerra civile) e Porter è consolidato: i due si conoscevano dai tempi del college, quando Caleb lo ha allenato negli Zips della University of Akron. Nel 2011 Nagbe è stato il primo pick al draft per i Timbers, alla loro stagione inaugurale in MLS. Un anno più tardi, Porter lo ha raggiunto a Rose City. Quello tra i due è un rapporto paternale. «Se vuole fare un passo avanti», ha dichiarato Porter in un’intervista a Grant Wahl, «È come nella canzone "Father & Son", giusto? It’s time to make a change».

Un giovanissimo Nagbe segna una rete, a quanto pare, assai importante per gli Zips della Akron University.

In un bel reportage per Eight by Eight, Andrew Helms, dopo averlo incontrato e studiato (ad agosto, prima della svolta tattica), arrivava alla conclusione che se Nagbe fosse ancora in MLS e non, per dire, a Barcellona, sostanzialmente dipendeva dalla sua volontà di fare un salto di qualità.

Spostandolo al centro del campo Porter gli ha offerto un trampolino: ne ha fatto una specie di personalissimo Paul Scholes, centro nevralgico della manovra, specialista dei third pass (l’azione del secondo gol in finale è partita da un suo recupero formidabile). Prima della finale gli ha inviato un messaggio: «Ricorda che chi ha la palla comanda il gioco». È una citazione di Xavi.

Nagbe ha recentemente acquisito la cittadinanza statunitense. Pochi giorni più tardi Klinsmann lo ha convocato in Nazionale, facendolo esordire contro St. Vincent & the Grenadines. In questa settimana diventerà padre per la seconda volta. È il simbolo più adamantino, come sono adamantini tutti i simboli nella terra delle Grandi Opportunità, della storia dei Timbers inediti campioni, contro tutti i pronostici, della MLS Cup. Se non è questo realizzare il Grande Sogno Americano™, ditemi voi cosa, allora.

Sudafrica

di Andrea Bracco (@FalsoNueveBlog)

Se avete in programma una visita culturale in Sudafrica, il punto di partenza non può che essere Johannesburg. A Braamfontein, uno dei quartieri situati in centro città, potrete trovare tutti gli strumenti per capire cos'è stato questo paese nell'ultimo secolo; dal teatro nazionale al museo dell'apartheid, dalle università (visitabili anche per i turisti) fino alla scuola di musica, arrivando alla famosissima Statue of Eland. Un’opera che rappresenta la forza e la determinazione del popolo locale, che l'olandese Clive van den Berg ha immaginato sotto forma di un toro possente e arrabbiato.

Benvenuti a Braamfontein. Le partizioni NON rappresentano i tagli bovini.

La particolarità di Braamfontein però è un'altra. A livello sportivo, pur essendo una suburb zone principalmente frequentata da bianchi, ha nel calcio la disciplina più giocata. La Wits University è famosissima a livello formativo per aver inserito molte discipline sportive nei propri programmi, emulando di fatto i college americani.

Capolista insolita

Negli anni '20 nacquero così i Bidvest Wits, espressione massima del soccer a queste latitudini, oggi capolista in Premier Soccer League dopo anni di anonimato. Nonostante una bacheca dei trofei tristemente vuota, per i Clever Boys questo potrebbe essere l'anno buono per diversi motivi.

Innanzitutto la poca competitività della altre due squadre cittadine, Kaizer Chiefs e Orlando Pirates, distratte dai molti impegni internazionali. In secondo luogo, per l'importante impatto avuto dal tecnico Gavin Hunt, classe 1964, al suo secondo anno sulla panchina del club. Arrivato nel 2013 a Braamfontein con quattro titoli vinti in curriculum, Hunt non ci ha messo molto a rivoluzionare la mentalità di squadra e ambiente, oltre a valorizzare al massimo tutte le risorse che le università gli mettono annualmente a disposizione. Il suo 4-3-1-2 è pragmatico ed essenziale ed esalta in pieno le caratteristiche dei suoi due giocatori migliori. Il primo è Sibusiso Vilakazi, centrocampista centrale di 25 anni e unico componente della rosa nel giro della Nazionale. I suoi quattro gol segnati in questo primo terzo di stagione sono stati determinanti: hanno portato punti preziosi e risolto diverse situazioni complicate. Daine Klate è il secondo top player a disposizione di Hunt e da quando ha avanzato il suo raggio d'azione è diventato un giocatore decisivo.

Benni McCarthy & Daine Klate. Passato e presente nel segno della thug life.

Klate nasce come centrocampista offensivo, ma oggi si gioca il titolo di capocannoniere, avendo già segnato sei gol in campionato. Il traguardo è lontano, ma Hunt in una recente intervista ha svelato la strada per arrivarci: «Si vince solo giocando bene, da squadra. Dare un'identità a questo gruppo è il mio compito, i risultati sono la naturale conseguenza».

Soweto insegue

Il 2015 è stato un anno molto importante per le due squadre di Soweto. La più importante (e grossa) township di Johannesburg, situata nel nord-ovest della città. Nel quartiere che ha avuto un ruolo fondamentale nella lotta all'apartheid, Kaizer Chiefs e Orlando Pirates da anni si contendono il dominio territoriale. I “Capi”, fondati negli anni '70 dalla stella locale Kaizer Motaung, si sono portati a casa due degli ultimi tre campionati, succedendo a un biennio dominato dai “Pirati”. Quest'anno, però, entrambe erano chiamate a giocarsi il prestigio in campo internazionale e non è andata esattamente secondo le previsioni. I Kaizer Chiefs sono stati eliminati al primo turno nella CAF Champions League, sconfitti sia in casa che in trasferta dal Raja di Casablanca. Gli AmaKhosi (soprannome in lingua zulu) si sono allora concentrati sul torneo locale, il cui inizio è stato incoraggiante fino a un mese fa, quando nel derby è arrivata una brutta sconfitta per 3-1.

Unguenti cosparsi per il campo prima del derby.

Da lì in poi i ragazzi di Steve Komphela hanno perso terreno dalla vetta e oggi guardano la cima dal quarto posto, con otto punti da recuperare ai Wits.

Diverso il discorso che riguarda i Pirates, loro sì autori di una campagna in Confederations Cup (equivalente della nostra Europa League) davvero da applausi. Dopo aver ottenuto vari scalpi illustri, il gruppo allenato dall'ex meteora cagliaritana Eric Tinkler ha perso di misura la doppia finale sul campo dell'Étoile du Sahel. Con diverse partite da recuperare, gli Orlando Pirates possono dire ancora la loro per la lotta al vertice, ma non possono più sbagliare, visti i numerosi stop di inizio campionato. Questa due realtà rappresentano anche l'eccezione per quanto riguarda le presenze allo stadio: infatti gli impianti sudafricani, rimessi a nuovo per il Mondiale 2010, sono oggi autentiche cattedrali nel deserto per pochi intimi, mentre per il derby sono stati staccati oltre trentamila biglietti.

Russia

di Alberto Farinone (@AlbertoFarinone)

Il campionato dei "ciapa no"

Negli ultimi turni di campionato prima della lunga sosta invernale, che si protrarrà fino a marzo inoltrato, le grandi di Russia hanno fatto a gara a chi lasciava più punti per strada, permettendo a compagini che sembravano tagliate fuori da ogni obiettivo di prestigio di rientrare in corsa. Il CSKA è primo in classifica nonostante un mese di novembre nero, nel quale è uscito prematuramente dalla Champions League e ha racimolato una vittoria nelle ultime quattro gare di campionato, con appena due reti messe a segno.

Improvvisamente, l'ex squadra dell'Armata Rossa ha smesso di girare: Natkho e Roman Erëmenko non stanno mantenendo lo stesso incredibile rendimento della passata stagione; Dzagoev è calato dopo un promettente avvio; Musa e Doumbia si sono inceppati (entrambi a secco da ottobre!) e la difesa—come da tradizione—sbanda con una certa facilità. Paradossalmente però i "Soldati" non ne hanno risentito più di tanto in classifica, conservando un buon margine di vantaggio: le più dirette inseguitrici, infatti, non hanno minimamente approfittato di tutti questi passi falsi della capolista.

A cominciare dallo Zenit, implacabile in Europa e sciupone in patria. Si è ormai perso il conto delle occasioni buttate via, soprattutto in casa, contro avversari abbordabili (l'Ufa è soltanto l'ultimo di una lunga lista che comprende anche Krylya Sovetov, Amkar, Mordovia...). E lontano dal Petrovskiy sono arrivati tonfi ancor più fragorosi, come la roboante sconfitta per 4-1 subita in quel di Grozny.

Evidente anche il calo fisico-atletico della Lokomotiv (5 punti nelle ultime 5 partite), che sta palesando quei limiti strutturali dei quali avevamo già accennato nell'approfondimento del mese scorso: manovra lenta e prevedibile contro difese chiuse, dipendenza totale dalla vena realizzativa di Niasse e alternative non all'altezza dei titolari. Al secondo posto troviamo così il Rostov del santone turkmeno Berdyev: i "Selmashi" hanno, a loro volta, rallentato la propria marcia, ma—almeno nel loro caso—non si può certo fargliene una colpa, visto che stanno disputando comunque un'annata parecchio superiore alle attese.

Severa lezione di calcio subita dallo Zenit in Cecenia.

KRASNODAR!

Nelle ultime due stagioni il Krasnodar aveva mostrato il gioco più spettacolare di Russia: un calcio moderno e tecnico, fatto di fraseggi corti, inserimenti senza palla dei centrocampisti, continui cambi di posizione, nessun riferimento fisso. In estate però—a causa delle solite sanzioni inflitte dalla UEFA per il mancato rispetto del Fair play finanziario—il ricco patron Galitsky non ha potuto far compiere un ulteriore salto di qualità al suo ambizioso progetto e questo clima di frustrazione si è riversato anche sulla squadra, il cui rendimento nell'attuale Russian Premier Liga è stato piuttosto balbettante. Proprio negli ultimi tempi il Krasnodar sembra aver però ingranato, come testimoniato anche dal primato nel girone di Europa League, ottenuto ai danni del Borussia Dortmund. Il simbolo della riscossa neroverde è Pavel Mamaev, centrocampista dai piedi buoni che sembrava essersi perso per strada, ma che a Krasnodar si è riscoperto incursore coi fiocchi: già 14 le reti segnate in tutte le competizioni!

Cosa c'è di meglio di un derby vinto in rimonta e all'ultimo respiro?

La speranza Promes

Lo Spartak ha concluso l'anno in leggera crescita, ma rimane una squadra indecifrabile, che sta disputando—tanto per cambiare—una stagione altalenante. Alenichev, tecnico scelto tra lo scetticismo generale, vista la poca esperienza a certi livelli, dà l'impressione di non avere le idee troppo chiare, alternando continui cambi di modulo per un assetto tattico ancora da trovare. L’unica certezza, finora, è Quincy Promes. Il 23enne aveva avuto un impatto notevole, per nulla scontato, al suo primo anno in Russia e in questa stagione sta confermando tutto il suo valore.

Il futuro numero 7 degli Oranje?

Ancor più della rapidità di base, del dribbling secco o del tiro notevole, a impressionare è soprattutto la concretezza di Promes, che lo ha portato ad avere una media di una rete ogni due partite in Russia. Indicato come uno degli elementi da cui dovrà ripartire la Nazionale olandese, l'ex Twente è già finito sul taccuino di diversi top club europei, nonostante abbia dichiarato che intende rimanere allo Spartak almeno fino a quando non avrà sollevato un trofeo con il club moscovita. Manterrà fede alla promessa?

Olanda

di Chris Holter (@calcio_olandese)

«Mentre guardavo i miei ragazzi giocare ho sentito un trasporto incredibile e credo che anche il pubblico stesse apprezzando particolarmente quello che stavano facendo in campo. Allora ho capito che quello che facciamo piace alla gente e che vorrei rimanere qua a lungo». Senza frenare le emozioni, Foppe de Haan ha raccontato così la vittoria per 3 a 0 dell’Heerenveen sul Roda e le sue intenzioni per il futuro, chiudendo una conferenza stampa, tra le lacrime intervallate da qualche sorso d’acqua, ben diversa da quelle che siamo abituati a vedere in Italia.

Il pianto davanti ai giornalisti è stato motivato dallo stesso de Haan, che a giugno compirà 73 anni, definendosi un “tipico uomo anziano” e, per questo motivo, considerato da alcuni membri della dirigenza non idoneo a continuare il suo lavoro sulla panchina dei "Superfriezen", sulla quale si è seduto, anche se in qualità di allenatore ad interim, lo scorso ottobre, dopo la cacciata di Dwight Lodeweges.

L’idea era affidare la squadra, al tempo quindicesima e con un solo punto di margine dalla zona play-off, a un uomo esperto, in attesa di trovare la figura adatta a prendere le redini di una delle più grandi fucine di talenti calcistici dei Paesi Bassi. Gli immediati risultati, però, hanno riportato l’entusiasmo all’Abe Lenstra Stadion e immediatamente in Frisia si è iniziato a parlare di effetto Foppe, riferendosi agli straordinari risultati ottenuti dall’Heerenveen tra il 1992 e il 2004 quando, con l’uomo di Lippenhuizen in cabina di comando, i frisoni hanno partecipato alla fase finale della Champions League, l’unica della loro quasi centenaria storia. La campagna europea, chiusasi con il quasi inevitabile ultimo posto nel girone, non ha visto i "Trots van het Noorden" sfigurare, avendo vinto una gara contro l’Olympiakos e pareggiato al Mestalla contro il Valencia.

L’Heerenveen veste i colori della bandiera della Frisia, con i tipici petali di pompeblêden, la ninfea rossa, che adornano una divisa a righe verticali bianche e blu. Gioca nel piccolo stadio Abe Lenstra, intitolato all’eroe locale capace di ribaltare il risultato a venti minuti al termine contro l’Ajax di Rinus Michels in vantaggio per 5 a 0.

Ricordo di Abe Lenstra.

Negli scorsi anni il club ha lanciato due grandi centravanti olandesi, van Nistelrooy e Huntelaar, un trend che sta continuando anche recentemente. I tifosi dell’Heerenveen sanno ormai di non potersi affezionare troppo ai propri beniamini. Di fronte a una buona offerta il calciatore partirà, consentendo al club di mantenere le proprie finanze al sicuro e di poter investire nello scouting e nello sviluppo dei giovani calciatori, cosa di cui lo stesso de Haan ha detto di essere molto fiero.

La stagione 2015-16, iniziata con Lodeweges in panchina, seppur iniziata con una vittoria, sembrava destinata a far patire gli appassionati di calcio di una cittadina che conta poco più di 30mila abitanti. Fatale, dopo una serie di risultati negativi, è stata la sconfitta per 5 a 2 contro il Feyenoord, arrivata lo scorso 18 ottobre.

Poco meno di due mesi dopo il cambio di allenatore, l’Heerenveen ha vinto quattro delle sette partite giocate, raddrizzando la difesa (solo 6 i gol subiti in altrettante partite, prima del sonoro 5 a 2 patito in casa dell’Ajax, a dispetto dei 16 con Lodeweges in panchina) e restituendo un equilibrio alla squadra, precedentemente apparsa troppo fragile dietro e incapace di trasformare in rete le azioni create grazie ad un 4-3-3 a trazione superoffensiva voluto dalla precedente guida tecnica.

De Haan, uomo di grande esperienza calcistica, ha effettuato alcuni accorgimenti, schierando la squadra con un modulo diverso a seconda dell’avversario affrontato: dal più accorto 4-3-2-1 con cui si è andati di scena all’Amsterdam ArenA a uno spregiudicato, quasi utopistico, 3-4-3 visto in occasione della vittoria casalinga sul Roda la settimana prima.

Vincitore di due Europei con l’Olanda Under-21 (2006 e 2007), Foppe de Haan ha sempre avuto una grande predisposizione ad allenare i ragazzi. Dopo l’avventura come Commissario Tecnico della Nazionale di Tuvalu, con la quale ha partecipato ai Giochi del Pacifico del 2011, il settantaduenne è tornato nella provincia dove è nato, la Frisia, per lavorare nel settore giovanile dell’Heerenveen, trovandosi, poi, a guidare una rosa composta da una trentina di giocatori, quasi tutti giovanissimi.

Le eccezioni si chiamano Erwin Mulder, portiere arrivato dal Feyenoord (dove era stato chiuso da Vermeer), e il capitano Joey van den Berg. Cresciuto calcisticamente nell’Heerenveen, van den Berg ha dovuto aspettare i ventisette anni per diventare titolare nella sua squadra del cuore. Compiuti i vent’anni, infatti, fu scartato da Verbeek, allora allenatore della prima squadra, e sembrava destinato a quell’eterno peregrinare cui vanno incontro i tanti talenti mai sbocciati.

Di lui, mentre giocava in Hoofdklasse (la quarta serie in Olanda), si accorse Art Langeler, che lo volle immediatamente per entrare a far parte della sua squadra, lo Zwolle, che galleggiava in Eerste Divisie e che si preparava all’assalto dell’Eredivisie e a diventare una delle più interessanti novità del panorama calcistico olandese, vincendo Coppa d’Olanda e Supercoppa ai danni dell’Ajax. Nel gennaio 2013 l’Heerenveen stacca un assegno da oltre 500mila euro per riportare a casa van den Berg, cui viene affidata la fascia di capitano e la posizione di rifinitore alle spalle del trio d’attacco. De Haan, però, decide di reinventarlo difensore centrale, arretrando il suo raggio d’azione di oltre 30 metri, ma approfittando del carisma e dell’esperienza che un calciatore che va per i trenta può trasmettere a chi ha appena vent’anni.

Lo spostamento di van den Berg sulla linea dei difensori ha generato, a catena, anche il cambio di ruolo per Jerry St. Juste, nato come difensore centrale, ma con una chiara predisposizione ad avanzare il proprio raggio d’azione, sia per ragioni di solidità (il ragazzo, alto 182 cm per 68 kg, sembra un po’ mingherlino per fare il centrale di difesa) che per motivi tecnici, dato che vederlo avanzare palla al piede è tutt’altro che raro. Con un fratello nella Nazionale olandese di calcio a 5, St. Juste si candida a essere uno dei talenti più interessanti dell’Eredivisie: dotato di buona tecnica e con una discreta visione di gioco, è stato immediatamente schierato da de Haan come vertice basso del centrocampo, incarnando un’ideale moderno di regista difensivo.

Accanto a lui, de Haan ha scelto Morten Thorsby, centrocampista centrale norvegese di soli 19 anni, diventato titolare a metà campionato, prendendo il posto di Simon Thern (figlio di Jonas, dal 1992 al 1997 in Italia, con le maglie di Napoli e Roma), trasformato in una riserva di lusso.

Da buon olandese, de Haan ha nel proprio DNA la predisposizione al gioco sugli esterni. Più arretrati ci sono Pele van Anholt, prodotto delle giovanili dell’Heerenveen e quasi un senatore, a dispetto dei suoi 24 anni, e Caner Cavlan, arrivato in estate dal De Graafschap e subito distintosi per la sua propensione a occupare diverse zone del campo. Con de Haan in panchina, il ventitreenne dal doppio passaporto (olandese e turco) ha giocato come terzino in una linea a quattro, fluidificante in un 3-5-2, interno di centrocampo e persino nel tridente alle spalle dell’unica punta. Con i suoi 1113 minuti giocati finora, Cavlan è uno dei calciatori più utilizzati in stagione.

Guardando la tabella delle presenze e dei minuti giocati, dopo il portiere Mulder i più presenti sono i giocatori offensivi. Sia per Lodeweges che per de Haan, infatti, è stato impossibile rinunciare a Luciano Slagveer, anche lui uscito dalle giovanili della squadra, e Sam Larsson, capace quest’anno di confermarsi dopo la scorsa, ottima, stagione di esordio. Pedine fondamentali per orchestrare i contropiedi e servire assist all’unica punta te Vrede (anche lui arrivato in estate come uno degli scarti del Feyenoord), hanno entrambi saputo conquistare l’attenzione degli uomini mercato di mezza Europa. Soprattutto Larsson, recente campione d’Europa con la Svezia Under-21, ha attirato su di sé le attenzioni del Borussia Dortmund e c’è da scommettere, perciò, che la sua esperienza in Eredivisie non durerà ancora a lungo.

Belgio

di Alessandro Piccolo (@calciobelga)

La rimonta tentata dallo Standard e i meriti di Yannick Ferrera

Dopo una partenza a dir poco pessima, lo Standard Liegi ha cambiato allenatore, sostituendo Slavo Muslin con Yannick Ferrera, che ha trovato finalmente la giusta marcia in campionato. I "Rouches" non perdono dal 1° novembre, quando vennero sconfitti dalla neopromossa Sint-Truiden.

Il gioco di Yannick Ferrera, fatto di triangolazioni veloci e movimenti quasi calcettistici, ha iniziato a fare proseliti in Belgio sin da quando allenava il Saint-Trond. Michel Preud’homme, mentore e grande amico di Yannick, l’ha anche provato sulla sua stessa pelle. Così, la chiamata di una big, sebbene in crisi, non ha tardato ad arrivare: al termine della sesta giornata il giovane Ferrera è passato dal Sint-Truiden allo Standard Liegi. Dopo un inizio complicato, la squadra ha ingranato e, in seguito alla vittoria contro lo Charleroi, ha iniziato a scalare posizioni e a riprendersi la parte sinistra della classifica.

Sebbene per ritornare ai propri livelli serva ancora tanto lavoro, i miglioramenti finora sono stati oggettivi. Nelle prime 10 giornate i "Reds" hanno subito 24 gol, mentre nelle seguenti 8 ne hanno subiti soltanto 9. Tra le vittorie più importanti spicca quella nel “Classico” di Jupiler League contro l’Anderlecht.

Da notare la bravura degli attaccanti dello Standard Liegi nel non dare punti di riferimento agli avversari.

Quel match accentuò ulteriormente le difficoltà dell’Anderlecht nel trasformare in una vera squadra una serie di individualità che nessun altro in Belgio può permettersi, ma allo stesso tempo è il giusto apogeo della rivoluzione messa in atto da Ferrera nello Standard.

L’allenatore è stato bravo non solo a far ritrovare giocatori di grande talento come Knockaert e Trebel, ritornato il centrocampista che conoscevamo, abile in fase di interdizione e in quella di impostazione, ma anche a rendere la sua rosa elastica al punto giusto. Il tecnico belga ama infatti variare il modulo in base all’avversario e alla mentalità con cui vuole approcciare la gara e ha i giocatori giusti per farlo. Nelle ultime 6 gare ha alternato 5 moduli diversi ed è riuscito quasi sempre a leggere bene la gara, anche quando il risultato non gli ha sorriso.

Il gioco di Ferrera è basato su veloci triangolazioni a centrocampo; movimento continuo e cambi di posizione degli attaccanti; tagli a cercare la profondità e difesa solida. Ferrera ha solo 35 anni, ma ha già la maturità e l’esperienza per imporsi su giocatori che hanno appena qualche anno in meno di lui. Il belga ha iniziato ad allenare nel 2004, all’età di ventiquattro anni, come responsabile del settore giovanile dell’Anderlecht. In seguito è stato allenatore in seconda nel Gent di Preud’homme, che ha poi seguito in Arabia Saudita all’Al-Shabab.

Ha esordito come primo tecnico con lo Charleroi, dal quale è stato esonerato dopo pochi mesi, una delle parentesi peggiori della sua breve carriera. Nel luglio del 2013 è stato chiamato dal STVV, retrocesso in Tweede Klasse un anno prima, dopo essere rimasto nella massima serie per ben 18 anni. È riuscito a riportarli in Pro League e da qui è passato, qualche mese fa, allo Standard Liegi, chiudendo la sua esperienza in gialloblù con una media di 2.03 punti a partita.

Consapevole di avere ancora margini di miglioramento, Ferrera proverà a lavorare soprattutto sul cinismo sotto porta e nella concentrazione, che potrebbero permettere ai "Rouches" di conquistare ancora una volta i Play Off I. E magari il prossimo anno ritrovare anche l’Europa, nella quale un tempo erano sempre avversari difficili e temuti.

Giappone

di Gabriele Anello (@nellosplendor)

Spettacolo doveva essere, spettacolo è stato

La J. League si è conclusa il 5 dicembre, nonostante la regular season sia finita il 22 novembre. Quest’anno il massimo campionato giapponese è tornato al format con due stage, usato fino al 2004 e poi abbandonato prima di esser ripreso nel 2015.

Non c’è tifoso o osservatore straniero che non abbia maledetto questa mossa. Eppure la JFA ha ottenuto quello che voleva: un prolungamento dello spettacolo, che però rischiava di falsare i risultati di un’intera stagione, che aveva visto dominare il Sanfrecce Hiroshima, che ha chiuso con 74 punti. Due in più degli Urawa Red Diamonds, ancora una volta superati sulla linea di traguardo. Ben undici le lunghezze di ritardo del Gamba Osaka, troppo impegnato con la caccia alla Champions League asiatica e giunto terzo. Solo queste tre formazioni hanno giocato la fase finale dei play-off. Ma non sono poche?

https://twitter.com/Bbcbuta/status/612247063414226944

Il J. League Championship ha questa formula: la squadra con più punti in classifica si qualifica per una finale andata e ritorno. Nel frattempo, vengono disputate altre due partite secche: la vincitrice di uno stage con più punti avrebbe giocato in casa contro la terza in classifica, mentre la vincitrice dell’altro stage avrebbe affrontato la seconda.

Le cose sono andate diversamente. Il Sanfrecce Hiroshima ha vinto il second stage ed è anche arrivato primo in classifica, qualificandosi direttamente per la finale di quest’appendice. Numeri alla mano, gli Urawa Red Diamonds hanno vinto il primo stage e sono arrivati secondi in classifica, mentre il Gamba è “solamente” arrivato.

Quindi, il Sanfrecce Hiroshima avrebbe dovuto aspettare in finale la vincente tra Sanfrecce Hiroshima - Urawa Red Diamonds e Urawa Red Diamonds - Gamba Osaka. Una follia assoluta, ridotta a una gara sola.

Lo schema originale.

Il 28 novembre si è giocata la gara secca tra gli Urawa e il Gamba. Una partita brutta, che i "Reds" avrebbero meritato di vincere. Eppure sono stati beffati non solo dalla sfortuna, ma anche dall’arbitro, che ha negato loro un rigore e mezzo. Il tutto mentre un tifoso dei "Reds" ha pure insultato il brasiliano del Gamba Patric su Twitter, scatenando un putiferio forse eccessivo.

Come se non bastasse, la gara ha prodotto i trenta secondi più folli del 2015 calcistico non a livello giapponese, ma mondiale. Chiusi i tempi regolamentari sull’1-1 (gol di Konno e Ljubijankic), la gara si stava per chiudere con il passaggio degli Urawa Reds dopo 120 minuti. E invece la J. League decide di sorprenderci.

Al minuto 120, il centrale difensivo del Gamba, Niwa, opta per un retropassaggio per il suo portiere. Peccato che venga fuori una sorta di pallonetto che per poco non diventa un autogol. Higashiguchi non ci arriva, ma la palla finisce sul palo. Dopo la rimessa in gioco, in venti secondi arriva il cross di Yonekura per il destro di Fujiharu, che mette dentro il 2-1.

La follia più assoluta. Potrei dirvi che Patric ha poi segnato il 3-1 un minuto dopo, ma la gara era già finita lì.

Inutile dire che i tifosi dei "Reds"—i più feroci contro l’introduzione della 2-stage season—non hanno mancato di sottolineare come il Gamba sia arrivato all’ultimo atto pur avendo nove punti di svantaggio in classifica. Ciò nonostante, il karma ci ha subito regalato un’altra sorpesa.

Quattro giorni più tardi si gioca l’andata della finale a Osaka contro il Sanfrecce Hiroshima, superfavorito. Eppure il Gamba va in vantaggio sfruttando un’indecisione della difesa viola, prima che l’ultimo quarto d’ora diventi una follia. Il pareggio incredibile di Douglas non ferma i neroazzurri, che ribattono e siglano il secondo gol con Konno. Sembra fatta.

E invece Sasaki pareggia al minuto 91, mentre al 96’—dopo almeno tre rimpalli e quattro tiri respinti o mancati—Kashiwa mette dentro il gol del 3-2. Da questo contraccolpo psicologico il Gamba non si riprende più.

Al minuto 1:16 potete vedere un Higashiguchi imbestialito che tira una mina addosso agli avversari. C’è da capirlo…

Il ritorno è stato quasi una formalità. Konno ha segnato il terzo gol in tre gare di questo format finale (nella vita farebbe il difensore/mediano, ma tant’è…), eppure il Sanfrecce ha rimontato ancora una volta con una rete di Asano e si è aggiudicato il terzo titolo nelle ultime quattro stagioni.

Il merito è tutto di Hajime Moriyasu, che nell’inverno 2011-12 ha preso una squadra buona, ma non eccezionale, e l’ha trasformata in una dinastia vincente. Vista la marea di allenatori stranieri che ha invaso la panchina della Nazionale nipponica, siamo sicuri che lui non sia il candidato giusto per il ruolo?

Austria

di Giangiacomo Ceresara (@BLOGdesliga)

Ole Kayode, ovvero di come anche in Austria vengano fuori i talenti

Per quanto risulti difficile da credere, la Bundesliga austriaca non è un campionato privo di talento. Di eccellenti giocatori, emersi proprio nel campionato austriaco, ce ne sono eccome. Per esempio Marc Janko, bomber arrivato a indossare la casacca del Porto, gli attualissimi Sadio Manè e Kevin Kampl, autori di eccellenti stagioni rispettivamente al Southampton e al Bayer Leverkusen.

Molti di loro provengono dall’academy del Red Bull Salisburgo, ma anche Vienna ha fornito diversi ottimi giocatori. Nikica Jelavic, una carriera niente male nel Regno Unito, Erwin Hoffer, vecchia conoscenza del Napoli e Robert Beric, tra i migliori attaccanti nella attuale Ligue 1: tutti provenienti dal Rapid. Anche l'Austria Vienna però non è da meno: da record le cessioni di Barazite al Monaco, nel 2012, di Dragovic al Basilea e di Afolabi al Sochaux. Senza dimenticare Philipp Hosiner, anche lui in Francia, e Omer Damari.

Proprio a Vienna, quest'anno, si sta già cominciando a parlare della next big thing, un giocatore che presto potrebbe finire sotto le luci della ribalta a livello europeo. Tobi Olarenwaju Ayobami Kayode, per gli amici Ole o Larry, nato l'8 maggio di 22 anni fa a Ibadan, in Nigeria. Dopo aver completato la trafila delle giovanili in una delle accademie africane della Red Bull, nel 2011 si trasferisce in Svizzera, al Lucerna, ma non riesce ad ambientarsi e torna in Africa. Per il resto, dal 2010 al 2013, se ne va più che altro in giro per l’Africa. Gioca in Ghana e in Costa d’Avorio. La svolta arriva nel 2013, quando viene acquistato dal Maccabi Netanya, club israeliano, per poco meno di 100.000 dollari. In una stagione e mezza, Kayode segna 13 gol in 31 partite, mettendo in mostra un repertorio tecnico e una rapidità d'azione di rara efficacia. Si rivela un centravanti veloce, capace di saltare l'uomo e bravo anche a giocare con la squadra. Una completezza pregiata di questi tempi.

Gol decisivo contro lo Sturm Graz.

Nonostante le tante richieste, alla fine riesce a prenderlo l’Autria Vienna per quasi mezzo milione di euro. Un investimento importante, ma ripagato praticamente da subito: 19 partite giocate, 8 gol e 5 assist messi a referto, giocatore con il più alto impatto offensivo dell'Austria Vienna e tra i migliori in Bundesliga. Assist all'esordio, contro il Wolfsberger, primo gol nella gara successiva, nella vittoria per 3-1 contro l'Altach. Ma gol anche in partite importanti, come quello decisivo contro lo Sturm Graz o la rete del pareggio a Salisburgo, in una gara complicata. Kayode si candida a prossima next big thing della Bundesliga austriaca.

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