
Ecco a voi la nuovissima puntata di Resto del mondo, la rubrica mensile di brevi approfondimenti sulla situazione degli altri campionati del pianeta Terra. In questa puntata: le vittorie del campionato di Boca Juniors, IFK Norköpping e Rosenborg; la situazione dei playoff in J. League e MLS; la definizione della corsa al titolo nella Süper Lig turca e nella Bundesliga austriaca. Ma anche le cose più interessanti della Jupiler League e della Premier League russa e la situazione del Partizan Belgrado. Qui trovate la prima puntata e qui la seconda.
Buona lettura!
Argentina
di Aguante Futbol (@AguanteFutbol)
Tra le trenta partecipanti è stato il Boca ad aggiudicarsi il primo campionato argentino “unificato”, estrema volontà di Don Julio Grondona ed erede dei tornei semestrali Inicial e Final, per i nostalgici Apertura e Clausura.
Per gli "xeneizes" si tratta di un titolo dall’importanza particolare, arrivato dopo un’astinenza iniziata nel 2011 e fondamentale per restituire morale a un ambiente depresso a causa dei recenti successi, soprattutto in campo internazionale, ottenuti dal River Plate. Ma nel torneo attuale c’è stata ben poca storia e, nonostante la vittoria matematica sia arrivata soltanto alla penultima giornata, il Boca ha di fatto dominato dall’inizio alla fine, raccogliendo sessantaquattro punti (sei più del San Lorenzo), grazie a venti vittorie, quattro pareggi e sei sconfitte.
Uno dei principali simboli della cavalcata azul y oro è senza dubbio il DT Rodolfo Arruabarrena, nome non nuovo in Italia, soprattutto per i tifosi dell’Inter. Arrivato a Casa Amarilla nel 2014 con altre aspettative e altre prospettive, il "Vasco" doveva essere il tecnico giovane ed emergente cui affidare un progetto tecnico nuovo, ambizioso, ma di lungo termine. Con un vero grande imperativo: uscire dall'onda lunghissima dell'era Bianchi/Riquelme trovando al Boca una nuova identità, anche con nuovi riferimenti in campo, possibilmente provenienti dalle giovanili.
Un progetto difficile, non impossibile, ma stravolto nel 2015, quando gli "xeneizes" hanno decisamente cambiato registro sul mercato, acquistando giocatori di temperamento ed esperienza come Tobio, Pérez, Lodeiro, Monzón, Osvaldo e soprattutto Carlitos Tévez.
Il Boca nel corso del torneo ha messo in mostra di essere innanzitutto una squadra arcigna, fisica ed estremamente concreta (dieci delle venti vittorie attuali sono arrivate con appena un gol di scarto). Arruabarrena non ha portato alla Bombonera un gioco spumeggiante, ma gli "xeneizes" hanno sempre saputo attingere al proprio arsenale per portare a casa punti importanti e pesanti, indipendentemente dall’avversario.
Il lavoro effettuato dal "Vasco" può essere visto come un’estremizzazione dell’impronta di gioco storica della squadra azul y oro, identificata da sempre con un fútbol ruvido e operaio, fatto di cuore, garra e intensità. Uno stile che però ha sempre richiesto un’artista capace di trasformare tutto questo in gol, magie e grandi giocate: lo è stato Maradona, lo è stato Riquelme. Ma in questo Boca, prima del grande ritorno di Tévez, Arruabarrena ha dovuto rinunciare alla luce, mettendo in campo più aggressività, più fisicità e un’occupazione degli spazi rivolta esclusivamente al soffocamento del gioco avversario. Una strategia non entusiasmante, ma perfetta per esaltare i giocatori a disposizione.
Con l’arrivo dell’ "Apache" il "Vasco" ha trovato la soluzione ideale per migliorare la struttura della squadra senza minarne le fondamenta, perché Carlitos non è l’enganche visionario, ma un giocatore dalla classe feroce, l’evoluzione moderna del 10 boquense, per la capacità di intendere e interpretare il gioco in modo europeo e per il carisma e la passione tipicamente sudamericana.
L'utilità di Tévez. Partita bloccata e difficile contro l'Argentinos Juniors, sbloccata da questa magia in pieno recupero.
Il ritorno a casa dell’ "Apache" non poteva avere inizio migliore: due titoli in pochi mesi, la dieci sulle spalle e un popolo che lo ha abbracciato con un calore unico. Il giocatore è nel pieno della carriera e in Argentina ha subito dimostrato di essere a un livello superiore. Schierato al centro dell'attacco ha portato al Boca leadership, giocate imprevedibili e qualità nella manovra. È forse mancato l’apporto sperato in termini di gol, ma la sola presenza di Tévez ha costretto le squadre avversarie a rivedere l’intera fase difensiva, dedicando più di un uomo al solo "Apache", abile a quel punto ad aprire varchi ai compagni.
Assieme all’eroe "xeneize" è però emerso con prepotenza un altro attaccante delle inferiores di Casa Amarilla: Jonathan Calleri. L’attaccante classe ‘93, nonostante la concorrenza con molti grandi nomi, è stato il giocatore di spicco del campionato del Boca, abile a sfruttare la possibilità di giocare titolare al fianco di referenti di assoluta qualità e capace di migliorare il già ottimo score dell’anno precedente.
Con dieci gol è stato il miglior marcatore della squadra, ma a impressionare sono state soprattutto la garra e la voglia di lottare su ogni pallone, coprendo tutti i metri di campo possibili. Il suo fisico lo rende in Argentina un giocatore devastante: forte, veloce, tenace, resistente, generoso. Tutte qualità che, unite a una grande intelligenza nei movimenti, al tiro, al senso del gol e alla cattiveria sotto porta, creano un prospetto interessante. In un reparto offensivo affollato è riuscito a essere il più continuo e il più intelligente nel rispondere ai bisogni dell'allenatore, trovando sempre un suo spazio senza avanzare pretese e, anzi, adattandosi ai compagni.
USA
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)
Quando una squadra col fucile incontra una squadra con la pistola
Nel preciso momento in cui, a cavallo tra ottobre e novembre, si chiude la regular season e si inaugura la frenesia dei play-off, la MLS smette di essere un campionato mediamente interessante e si trasforma in una rievocazione costante di atmosfere e topos da spaghetti western. La dinamica del knock-out è la più adamantina dimostrazione che tutto l’hype, la regola dei designated players, gli investimenti a sensazioni sono destinati a sfracellarsi contro quel Fort Alamo dentro il quale, asserragliato e pronto a condurre la resistenza, c’è il concetto ineluttabile dell’imprevedibilità del pallone.
Per imprevedibilità intendo quella distorsione della realtà secondo la quale l’assioma di Clint Eastwood, che ci crediate o meno, potrebbe essere ribaltato.
Delle quattro squadre che si contenderanno la MLS Cup 2015, almeno tre sono squadre con la pistola. Voglio dire che non sono state costruite per vincere, non hanno (quasi) mai vinto, nessuno se le sarebbe aspettate così in alto, eppure si sono sbarazzate di team più accreditati, autorevoli, hanno sbaragliato i candidati veri, quelli con il fucile. Se facessimo la conta delle MLS Cup conquistate nella ventennale storia della competizione da tutte e quattro le finaliste di Conference, ci dovremmo fermare al pollice della mano destra. Dice: sì, ma ci sono i New York Red Bulls! Beh, l’highest-peak dei NYRB è stata una sola finale, ormai sette anni fa, persa proprio contro i Columbus Crew SC che gli contenderanno la supremazia della Costa Est.
I Red Bulls erano ancora nell’era pre-Henry. Gli assist per due dei tre gol con i quali la squadra con i Minatori-Nello-Stemma ha asfaltato i newiorchini portano la firma barocca di Guillermo Barros Schelotto.
Working class goes to Hollywood
Nonostante Columbus abbia una ferrea tradizione calcistica (il primo stadio specificamente pensato per il calcio negli States è quello di Columbus; il primo presidente, Lamar Hunt, è uno dei padri fondatori del soccer, tanto che gli è stata intitolata la neoliberty Coppa nazionale statunitense) i Crew SC stanno alla MLS come il Casale alla Serie A: un solo titolo, molta atmosfera vintage intorno.
Nel 2014 i CCSC hanno subito una specie di rebrand: a compimento di un percorso di crescita che li aveva portati, subito dopo la conquista della MLS Cup 2008, a sbarazzarsi di giocatori affermati per intraprendere la linea verde, hanno anche abbandonato lo stemma Molto-Americano sul quale troneggiavano tre operai per affidarsi a un nuovo-e-più-serioso logo probabilmente opera di grafici che a PES pigliavano sempre la Dinamo Zagabria.
Se quest’anno i CCSC sono arrivati a giocarsi le finali di Conference, buona parte del merito è di Kei Kamara, aka Special K, 22 reti in stagione che ne hanno fatto il capocannoniere di MLS in coabitazione con Giovinco. L’attaccante della Sierra Leone dice di essere cresciuto con il mito di Patrick Kluivert e il sogno di essere, in un universo parallelo che non contemplasse il calcio, un ballerino di fila per una popstar tipo Britney Spears (sic).
Le soggettive sulle quali gli operatori spesso insistono nei replay dei suoi gol ci mostrano un uomo calmo, nient’affatto preso dalla foga di Dover Segnare, ma piuttosto rassegnato al dono di Poter Segnare finalizzando praticamente tutti i palloni che gli transitano intorno. (Sì, Higuaín è il fratello di Higuaín).
In semifinale KK ha vinto per manifesta superiorità d’impatto lo scontro titanico contro il suo omologo-ma-più-successful Didier Drogba; forse però Montréal avrebbe meritato di andarselo a giocare, il dominio della costa atlantica contro New York, a me sarebbe proprio piaciuto veder giocare ancora un po’ Ignacio Piatti, uno che a vent’anni s’è fatto raccomandare da Batistuta per fare un provino alla Roma, uno che ha dovuto fare a gomitate per ritagliarsi uno spazio al Lecce salvo poi vincere una Libertadores con il San Lorenzo, uno che dalla vita ha imparato che ci si deve saper arrangiare, ma con fantasia, e la sua ricetta dei Nachos Piatty ne è la più didascalica rappresentazione: milanesa, salsa chimichurri e pezzi di empanada. Un po’ come mettere nella stessa giocata stop a seguire, una veronica che sembra una mossa di breakdance e palombella a foglia morta come condimento.
Ma ora let me welcome everybody to the wild, wild West
A Ovest, lasciatemi essere tranciante e poco imparziale: chi non tifa per la vittoria in Conference dei Portland Timbers? Specie dopo che il sogno di una Kansas City Caput Mundi dello sport yankee è svanito con un suono di schiocco di dita, o se volete di un rigore quando sbatte su ambo i pali, tipo questo decisivo nella prima gara dei play-off di Saad Abdul-Salaam.
https://www.dailymotion.com/video/x3bkqrs
I Galaxy detentori del titolo sono stati eliminati subito in Gara Uno dagli agguerriti Seattle Sounders. Forse i "Rave Green", di tutte le qualificate ai play-off sulla costa pacifica, erano davvero l’unica squadra con il fucile, un bullpup caricato a pallottole Dempsey’n’Martins, e mi sembra davvero un peccato che neppure quest'anno abbiano saputo capitalizzare il grosso potenziale che da anni mettono in mostra in MLS. Pensate che bella sarebbe stata una finale di Western Conference in formato Battle of Cascadia.
Probabilmente il derby più sentito in assoluto negli States.
Motivi per i quali dovreste tifare anche voi Portland, per i quali tutti dovrebbero tifare Portland:
- Ci gioca Nat Borchers;
- Ci gioca Fanendo Adi;
- La sua tifoseria è senza ombra di dubbio la più europe-rooted, ma anche la più accorata di tutta la MLS: cionondimeno ha un gusto e uno stile che vi sfido a trovare curve che intonano canzoni tipo "Can’t help falling in love" o "You’re my sunshine" con dei girasoli al posto delle mazze da baseball;
- Se non vi pare abbastanza, "You’re my sunshine" è un tributo alla figlia di Timber Jim, morta nel 2004 in un incidente d’auto. Timber Jim è stato per anni il volto pittoresco dei Portland Timbers: mascotte storica dai tempi pionieristici della militanza in NASL, Jim fino al momento del suo pensionamento ha fatto quel tipo di cose assurde e pazze che ci rendono lo sport americano simpatico, tipo lanciarsi in capriole o tagliare dischi di legno per ogni rete segnata dai Timbers. Il segreto di Jim, e di Joey che ne ha seguito le orme, è che fanno le mascotte senza sforzarsi di essere nessun altro rispetto a quello che sono davvero, e cioè dei boscaioli;
- Old Portland magari non ha l’appeal, come location per dei festeggiamenti, del Circo Massimo: ma ha comunque il suo fascino, c’è da dire.
Austria
di Giangiacomo Ceresara (@BLOGdesliga)
Parlare di “competizione spettacolare” in relazione alla Bundesliga austriaca sembrerebbe francamente assurdo. Eppure, un campionato bistrattato e seguito poco persino in patria, sta regalando una lotta al titolo di rara intensità, fatta di sorpassi e controsorpassi, aperta come non succedeva da tempo.
Negli ultimi 5 anni, infatti, il Red Bull Salisburgo ha vinto per ben tre volte (2012, 2014 e 2015), con in mezzo l’odissea dell'Austria Vienna di Philipp Hosiner, che trascinò i "Violetti" alla conquista della Bundesliga con 32 gol. In nessuno di questi casi ci fu una reale lotta al titolo: sia Salisburgo che Austria Vienna vinsero i rispettivi campionati con svariate giornate d'anticipo. L'ultima, vera battaglia per il Meisterschale risale alla stagione 2010/11: le contendenti al titolo, allora, erano Salisburgo, Austria Vienna e Sturm Graz. Tutto rimase in bilico fino alla penultima giornata: i "Violetti" annientarono il Rapid nel derby della capitale con un netto 3-0, ma le sorti della Bundesliga si decisero nella periferia di Vienna, allo Stadion Wiener Neustädter.
A 10' dalla fine, lo Sturm Graz era bloccato sull'1-1 dai padroni di casa; a risolvere la situazione, a pochi minuti dal termine, fu l'indimenticato Samir Muratovic, che segnò il rigore decisivo per la conquista del titolo.

La vittoria dello Sturm Graz nel 2011.
Rapid, Austria Vienna o Salisburgo?
Oggi, dopo 4 anni, la lotta al Meisterschale ritorna finalmente combattuta. Il Salisburgo, clamorosamente eliminato da tutte le competizioni europee, sembra aver superato le iniziali difficoltà e punta a vincere il terzo titolo consecutivo. Il nuovo allenatore Peter Zeidler ha ancora molto da lavorare, ma il valore della squadra, anche al netto di interpreti del calibro di Jonathan Soriano, Omer Damari, Naby Keïta e Martin Hinteregger, non è in discussione.
Situazione opposta per il Rapid Vienna: primo nel girone di Europa League, a punteggio pieno e con scalpi illustri (come Villarreal e Viktoria Plzen), i biancoverdi hanno perso qualche colpo in Bundesliga, dopo un inizio incoraggiante. Per Zoran Barisic il principale problema rimane il centravanti: Matej Jelic fatica a inserirsi nei meccanismi di squadra, e l'ex-Milan Philipp Prosenik ha ancora molto da lavorare per raggiungere i massimi livelli.
In questo contesto incerto si inserisce l'Austria Vienna. Si tratta di una squadra interamente rinnovata, dall'allenatore in giù: Thorsten Fink ha ridato fiducia ed entusiasmo all'ambiente, riuscendo a tirare fuori il massimo dai nuovi acquisti Kayode, Holzhauser e Zulechner. La vittoria nel derby con il Rapid ha regalato l’inaspettata vetta della classifica. Al momento è difficile persino indicare una favorita, e per un campionato come quello austriaco questa è di per sé una notizia.
Turchia
di Dario Saltari (@DSaltari)
All’indomani dell’undicesima giornata, nel campionato turco sono finalmente emerse delle faglie abbastanza delineate che dividono le ambizioni delle varie squadre. Una prima faglia divide il gruppo di testa dal resto della classifica: il titolo dovrebbe essere un affare per tre, con Galatasaray e Fenerbahçe (rispettivamente 21 punti e 24 punti) a inseguire il vicino Besiktas (26 punti).
Con la seconda faglia, invece, viene delineato quello che ciclisticamente verrebbe definito il gruppo degli inseguitori, cioè quelle squadre che hanno il quarto posto come massima aspirazione. Questo gruppo viene aperto dall’Akhisar Belediyespor (quarto a 19 punti) e chiuso dal Gaziantepspor (tredicesimo a 14 punti). L’ultima faglia, quella che chiude la classifica, recinta invece i piani bassi, con squadre che saranno più o meno coinvolte nella lotta per non retrocedere. Un gruppo che viene capeggiato dal Gençlerbirligi (12 punti) e mestamente chiuso dall’ultima in classifica, l’Eskisehirspor (4 punti).
Per quanto riguarda il primo gruppo, il Besiktas è la squadra che sembra avere il roster più competitivo, al di là delle considerazioni tattiche. Le aquile nere hanno azzeccato praticamente tutti gli acquisti estivi: Mario Gómez è tornato competitivo fisicamente ed è già il capocannoniere del campionato (ha segnato 9 gol in 11 partite, quanto Yilmaz e van Persie messi assieme); Quaresma ha sempre la levetta dell’R2 abbassata e supera avversari come pali della luce; Rhodolfo, esperto difensore brasiliano arrivato dal Gremio, non sta sbagliando una partita. A questo bisogna aggiungere una foltissima schiera di giovani che con buona probabilità rappresenta il futuro prossimo della Nazionale turca: Özyakup, Töre, Uysal, Frei e Tosun sono tutti ottimi prospetti che hanno dato talento e freschezza fisica alla squadra. Il risultato è che il Besiktas non perde in campionato dal 22 agosto e la sua striscia positiva di vittorie è stata fermata alla penultima giornata solamente da quella che è una delle squadre più interessanti dell’intero campionato, il Kasimpasa.
https://www.dailymotion.com/video/x3d1imk_oguzhan-ozyakup-finished-a-wonderful-89th-minute-besiktas-team-golazo-v-bursaspor_sport
Il gol di Ozyakup ha regalato i tre punti al Besiktas sul difficile campo del Bursaspor. Qui invece gli highlights del più interessante tra gli interessanti: Gökhan Töre.
Il Kasimpasa fa parte del secondo gruppo, quello degli inseguitori (è attualmente sesto, a 18 punti). All’apparenza è solo l’ennesima squadra di Istanbul, ma in realtà nasconde tanti piccoli tesori, a partire dal fatto che gioca in uno stadio intitolato all’attuale presidente Erdogan. Innanzitutto è una delle squadre più organizzate dell’intero campionato, con il canonico 4-2-3-1 che si trasforma in 4-1-4-1 in una fase di non possesso che assomiglia a un orologio automatico per velocità e precisione.
Il quadro viene completato dalle letali transizioni offensive e da una serie di giocatori pazzi e bellissimi. C’è Eren Derdiyok, curdo di passaporto svizzero, di professione punta centrale, che sbaglia tutti i gol facili per segnarne solo di incredibili. Ma c’è anche il capitano: Ryan Donk. Nome da cestista NBA, fisico filiforme da 192 cm, una carriera passata al Brugge da olandese, adesso è a Istanbul a gestire il centrocampo come noi sbrighiamo una commissione alle poste. Sabato il Recep Tayyip Erdogan Stadium ha ospitato chi guida il gruppo, l’Akhisar, che per tutti è La Squadra di Roberto Carlos.
L’Akhisar è sostanzialmente l’opposto del Kasimpasa: un gioco scolastico, esteticamente brutto e prettamente difensivo (l’Akhisar è contemporaneamente la seconda squadra che effettua più rinvii per spazzare l’area e quella che crea meno occasioni da gol e tiri). La parola d’ordine all’Akhisar è efficacia: trasformare in gol quanti più tiri e calci piazzati si hanno in una partita (attualmente in neroverdi sono coloro che segnano di più su palla inattiva; realizzano un gol ogni 3,5 tiri in porta, al Kasimpasa ne servono 5). Kasimpasa - Akhisar è sostanzialmente la riproposizione calcistica dello scontro biblico tra mezzi e fini, con i primi che hanno per una volta superato i secondi.
https://www.dailymotion.com/video/x3d2ena_kasimpasa-2-1-akhisar_sport
Gli highlights del 2-1 Kasimpasa e Akhisar dell’ultima giornata. Qui invece trovate la compilation dei gol pazzi realizzati da Derdiyok quando era in forza al Leverkusen (tra cui uno a Neuer, che nemmeno si butta).
A proposito di mezzi, fini e anomalie statistiche. Non si può non segnalare nell’ultimo gruppo la situazione del Sivasspor: la squadra che tira più del Besiktas (14,45 tiri a partita contro 13,64), crea occasioni da gol quanto il Fenerbahçe (10,18 contro 10,82), commette meno errori difensivi del Galatasaray (0,18 contro 0,55) ed è attualmente terzultima in classifica. Per riallineare i pianeti, il 25 ottobre sulla panchina è stato chiamato Okan Buruk (si, quell’Okan). Contro il Gaziantepspor è bastato, per il futuro vedremo.
Svezia
di Oscar Svensson (@blogistuta)
Quest’anno a laurearsi campione di Svezia è stato l’IFK Norrköping. Si tratta del tredicesimo titolo nella storia del club, un palmarès inferiore solo a quelli di due altre società (Malmö FF e IFK Göteborg, fermi a 18 a testa). L'IFK Norrköping fu il club di Nils Liedholm e di Gunnar Nordahl, capace di segnare 93 gol in 95 partite nella maglia bianca. Tanti da guadagnarsi il tributo della curva, rinominata in suo onore: "Curva Nordahl", proprio così, in italiano.
Nonostante un passato prestigioso, il titolo di quest’anno è stato del tutto inaspettato. Per fare un paragone, è un po’ come se il Genoa vincesse lo scudetto quest’anno. Prima dell’inizio del campionato solamente 5 squadre avevano una quota peggiore dell’IFK per vincere (40,00). È il primo titolo in 26 anni, cinque dei quali sono stati spesi nella Serie B svedese; gli altri tra austerity e depressione. La vittoria di quest’anno ha rappresentato una sorpresa assoluta.
La vittoria per 2 a 0 sul campo del Malmö.
L’hanno fatto scommettendo su molti giovani del vivaio e su calciatori che avevano fallito all’estero. Simbolo di questa gioventù locale è l’attaccante Christoffer Nyman, che cinque anni fa, a 17 anni, realizzava la rete che valeva la promozione nella massima serie. È soprannominato “Totte” in omaggio all’idolo Francesco Totti, pronunciato nel dialetto locale. E visto che stiamo parlando di dialetti, bandiere e Totti, bisogna notare che quasi mezza squadra, otto giocatori, è cresciuta nella città o a pochi chilometri dallo stadio. Questo—nonostante il calcio svedese non sia di certo competitivo né ricco né innovativo—è qualcosa di bello e raro nel 2015.
Il Malmö (campione nazionale negli ultimi tre anni) è riuscito a qualificarsi per la Champions League per due anni consecutivi: un’impresa, considerando che una squadra svedese non partecipava alla competizione da 15 anni. Probabilmente l’IFK Norrköping non riuscirà a ripetere l’impresa. Molti giovani saranno forse ceduti e il capocannoniere, Emir Kujovic (ripescato in Turchia, dove era emigrato con lo status di promessa), forse avrà una seconda possibilità da giocarsi fuori dalla Svezia.
Quest’anno l’IFK ha giocato un calcio associativo molto diverso dallo standard del calcio svedese. Più propositivo, pieno di entusiasmo ed energia. È difficile ricordare altre squadre di questo tipo nel recente passato della Svezia. Un fattore in tal senso è stato probabilmente l’erba sintetica, che permette alle squadre di giocare anche durante l’inverno, garantendo almeno un minimo di continuità. In precedenza, con l’erba naturale, era più o meno impossibile giocare a calcio da novembre a marzo in tre quarti del paese. Nonostante il campionato sia fermo in quei mesi significa comunque non toccare un pallone per troppo tempo: un disastro.

Norrköping in inverno.
Non è così assurdo mettere in relazione l’IFK Norrköping alla vittoria della Svezia negli Europei U-21; soprattutto per coniugare la base tradizionale del calcio svedese (organizzazione, 4-4-2 e linee strette), con una migliorata capacità di controllare il pallone. La differenza si vede.
PS: Bisogna aggiungere due righe su Henrik Larsson, allenatore dell’Helsingborg. Poteva andare peggio, ma poteva anche andare molto, molto meglio. L’Helsingborg è arrivato solamente 11.esimo in classifica, raccogliendo 15 sconfitte in 30 partite. Forse l’unica nota davvero positiva è stata il figlio Jordan, 18 anni, titolare nel corso della stagione.
Serbia
di Pietro Cabrio (@nogometniblog)
Il Partizan Belgrado non lo si può capire davvero. Proprio come non si può pensare di capire il campionato di calcio serbo, la Nazionale, la Stella Rossa o qualsiasi altra squadra di Superliga. Bisognerebbe almeno entrare dentro lo spogliatoio dello Stadion Partizana, o al centro sportivo di Zemunelo.
Per chi sta fuori e non ha familiarità con la società serba, le squadre di calcio del paese sono delle entità misteriose, da cui spesso però escono fuori grandi talenti. Per il Partizan, la stagione era iniziata nel migliore dei modi, e sembrava dovesse essere una di quelle in grado di aumentare prestigio e solidità del club: non a livello economico, da escludere a priori quando si parla di calcio serbo. Sembrava l’anno di Andrija Zivkovic (l’unico che ha mantenuto le promesse), Ivan Saponjic e Nikola Ninkovic. Si è rivelato l’anno più brutto degli ultimi due decenni.
Ad agosto, nel secondo turno dei preliminari di Champions League, il Partizan ha eliminato—in un partita d’altri tempi—la Steaua Bucarest, l’altra grande entità misteriosa dell’est Europa. Poi è arrivata l’eliminazione nei playoff contro il BATE Borisov, in due partite in cui i giocatori serbi sono stati fermati solo dalle loro modeste capacità, non dalla voglia di vincere.
L’accesso ai gironi di Europa League è stato accolto ugualmente come un successo e un’opportunità per allargare il divario con la Stella Rossa, che non partecipa a un girone di una coppa europea da dieci anni e si trova in una situazione economica disastrata, tenuta in piedi solo dal governo. Contemporaneamente alle partite preliminari europee però, in Superliga il Partizan ha cominciato a giocare molto male, a perdere molto e a vincere poco. Ora, dopo sedici turni di Superliga, il Partizan si trova in sesta posizione, a ventuno punti di distanza dalla Stella Rossa, prima in classifica e con ottime probabilità di restarci fino alla fine del campionato.
La sconfitta fatale contro il BATE Borisov.
La causa del mezzo disastro del Partizan è probabilmente l’inadeguatezza della rosa, i cui titolari non hanno dei rimpiazzi presentabili. Qualcuno a Belgrado ha avuto la bella idea di affidare l’intero reparto offensivo a Valeri Bojinov, il quale non è in grado né di reggere novanta minuti né di aiutare la squadra da metà campo in giù. Il suo rimpiazzo, Ivan Saponjic, sembra abbia ancora bisogno di crescere molto, e per ora non può garantire continuità di prestazioni. Anche il giocatore più forte in squadra, Andrija Zivkovic ha dovuto saltare molte partite nell’ultimo mese per via di alcuni problemi fisici: senza di lui il Partizan ha giocato le peggiori partite della stagione e ha perso parecchi punti contro avversari decisamente inferiori.
C’è un altro, più profondo, problema, non legato alle capacità dell’allenatore della prima parte di stagione, l’oscuro Zoran Milinkovic, ma al modo con cui vengono scelti gli allenatori in tutte le squadre del paese. In un campionato che più di tutti avrebbe bisogno di internazionalizzare e modernizzare il proprio gioco, la maggioranza degli allenatori dei club serbi proviene dalle piccole realtà locali e non è all’altezza dell’incarico. Vengono scelti per necessità: costano poco, hanno familiarità con il paese, conoscono la lingua e i giocatori, ma non riescono a dare alla squadra niente di più di quanto siano in grado di fare da soli i singoli giocatori.
La metà bianconera di Belgrado non ha iniziato una rivolta solo grazie agli incredibili risultati in Europa League, dove sono arrivate le vittorie nelle prime due partite contro AZ e Augsburg. Come può il Partizan perdere contro delle squadre che sfiorano il livello dilettantesco e vincere due partite consecutive in Europa contro squadre, teoricamente, di un altro livello? Ogni squadra ha il suo approccio alla seconda competizione europea per club, ma l’AZ ogni anno fa di tutto pur di arrivare più avanti possibile e le tedesche non l’hanno mai snobbata. Nelle prime due partite il Partizan è sembrato una squadra finalmente competitiva anche in Europa, in grado di raggiungere tranquillamente i sedicesimi di finale. Nessun campione, un buon livello generale e un piccolo fuoriclasse diciannovenne, Andrija Zivkovic, che aumenta esponenzialmente la qualità del reparto offensivo del Partizan.
Andrija Zivkovic, al momento il talento più credibile del Partizan Belgrado.
Come abbiamo detto, Zivkovic ha saltato le ultime parte in calendario e lo spazio vuoto in campo si è visto. Nikola Ninkovic sembra non riuscire a crescere più di quanto abbia fatto negli ultimi anni e per ora non è in grado di reggere l’attacco da solo. La difesa si è rivelata modestissima.
Ora in panchina è stato chiamato Ljubinko Drulovic, ex allenatore della Nazionale macedone. Insieme a lui è arrivato anche Ivica Iliev, ex attaccante cresciuto nel Partizan con un passato anche in Italia, che ricoprirà la carica di direttore sportivo. Probabilmente non basterà questo a salvare la stagione del Partizan.
Giappone
di Gabriele Anello (@nellosplendor)
Sulla J. League scorrono ormai i titoli di coda e si avvicina rapidamente la fase finale, quella, reintrodotta da quest’anno, che prevede una sorta di appendice alla stagione regolare. A questo final stage presenzieranno sicuramente Urawa Red Diamonds e Sanfrecce Hiroshima. Potrebbe essere diverso il destino invece dell’FC Tokyo e dei Kashima Antlers, due squadre che rischiano di avere più di qualche rimpianto per come è andata la loro stagione.
La squadra della capitale può dirsi amareggiata per com’è stato il finale di questo 2015. Partita con gli onori del pronostico e con la speranza persino di giocarsi il titolo a metà stagione, la compagine della capitale era seconda dopo il primo stage.
La partenza di Yoshinori Muto verso il Mainz (dove sta facendo bene) però ha complicato tutto e i sostituti della giovane stella, lo spagnolo Sandaza e l’australiano Burns, lo stanno facendo rimpiangere. Con l'addio di Muto, Ficcadenti ha dovuto riprendere il 4-2-3-1 con cui schierava la squadra prima dell’esplosione del nazionale nipponico, talvolta giocando anche con il doppio centravanti per recuperare alcune gare (Maeda più Sandaza). Burns parte esterno come faceva spesso Muto, ma non giocando a piede invertito raramente punta la porta. In questo modo, il gioco dell'FCT ne ha risentito. Il risultato sono 2 gol in 18 presenze tra lui e Sandaza. Troppo pochi. Specie se si pensa al bottino di Muto prima di lasciare il Giappone: dieci reti in 17 gare di J. League nel 2015.
Non è quindi un caso che i rossoblù abbiano collezionato solo un sesto posto nel girone di ritorno e siano ora terzi nella classifica generale. Arrivato dall’Italia nel 2014 dopo due anni di inattività, Massimo Ficcadenti ha aiutato la crescita di diversi giocatori all’Ajinomoto Stadium, ma l’impressione è che chiudere un’altra annata senza titoli peserà sulla valutazione del suo futuro.
«La società vuole costruire una squadra di propri giocatori e vincente». Questo Ficcadenti a febbraio scorso: obiettivo raggiunto a metà.
Se Tokyo non ride, nella prefettura di Ibaraki si piange. I rimpianti sono maggiori perché il finale di stagione dei Kashima Antlers conferma che si poteva (e si doveva) fare di più.
A luglio è stato esonerato Cerezo, nonostante lo status di leggenda e i sei trofei portati al Kashima. In quel momento della stagione, gli Antlers avevano concluso il primo stage all’ottavo posto: 22 punti, -19 dagli Urawa invincibili visti nel girone d’andata. Risultati inaccettabili per una società che è stata dal 1993—anno di creazione del calcio professionistico in Giappone—la stella polare del panorama nipponico. Ben 22 i trofei vinti a livello nazionale, tra cui sette campionati. Nessuno ha fatto meglio da allora. Il fatto che non si vinca la J. League dal 2009 è una ferita aperta.
Poi la svolta, arrivata per mano di Masatada Ishii, a sorpresa insediatosi in panchina. Ishii ha giocato negli anni ’90 con gli Antlers, compagno di Zico e Leonardo. Una volta ritiratosi nel 1998, è stato un allenatore delle giovanili a Ibaraki per 13 anni, poi assistente dal 2012 fino al luglio scorso. Insomma, un pezzo di storia del club. Da quando Ishii si è insediato sulla panchina da capo allenatore, gli Antlers hanno fatto 30 punti in 13 partite e si sono dimostrati nettamente la squadra migliore del lotto.
Gli Antlers hanno talmente tante mezze punte e fantasisti che rinunciare al 4-2-3-1 è stato impossibile. Neanche Ishii se l'è sentita, sebbene si sia dimostrato meno integralista di Cerezo. Il merito del nuovo tecnico è semmai nella gestione degli uomini. I grandi vecchi—Ogasawara, Aoki, Sogahata, Motoyama—ci sono sempre, ma Ishii li sta utilizzando meno. Allenatore delle giovanili per lungo tempo, conosce l'importanza dei giovani.
Il rilancio di giocatori come Yamamura e Nakamura, ma sopratutto il lancio di tanti ragazzi. Su tutti Yuma Suzuki, punta classe '96 che Cerezo aveva lasciato in prestito in terza divisione e che invece Ishii sta facendo giocare (due gol in 68' di campionato). La rosa ora ha un’età media bassissima e tanti talenti che potranno solo crescere.
Case in point: il brasiliano Caio, votato miglior giovane del 2014. E potrebbe giocare per il Giappone.
Gli Antlers hanno recentemente portato a casa la coppa di lega, battendo per 3-0 il Gamba Osaka nella finale di Saitama. Eppure non c’è gioia: la sensazione è che, con un altro passo nel girone d’andata, la storia di questo campionato sarebbe stata diversa.
Bastano le parole di Gen Shoji, difensore e giovane leader a Ibaraki: «Per i Kashima Antlers, arrivare secondi è come arrivare ultimi. Il Kashima non sarebbe tale senza i titoli che ha vinto». Un’eredità lasciata da Toru Araiba, una parte importante della sua carriera di 18 anni con gli Antlers. C’è un che di bonipertesco in tutto questo.
Norvegia
di Emanuele Atturo (@Perelaa)
Il nome medievale di Trondheim è Nidaros, letteralmente “foce delle maledizioni”. La città fu fondata da Olaf I di Norvegia nel 997. Arrivato in città un povero servo di nome Hakon Karke gli si avvicina promettendogli la testa del suo padrone, Hakon Sigurdsson, conte di Lade e sovrano informale di Norvegia. Olaf reagisce tagliando la testa al servo, al suo padrone e anche a suo figlio Erlend, facendosi incoronare successivamente Re di Norvegia (da quel momento le incoronazioni si terranno sempre a Trondheim). Le tre teste vengono impalate nell’isolotto antistante la città: chiunque entrava nel fiordo di Trondheim era tenuto a rispettare Olaf insultando e maledicendo le tre teste impalate sull’isola, che a quel punto prese il nome di “isoletta delle maledizioni”, nome trasferito poi al fiume vicino, “fiume delle maledizioni”, e infine all’intera città, “città delle maledizioni”.
Colonna sonora.
Qualche settimana fa il Rosenborg ha vinto il campionato norvegese per la 23.esima volta della sua storia. Nonostante un palmarès glorioso, con 17 campionati vinti in 20 anni, dal 1990 al 2010, il titolo mancava a Trondheim dal 2010.
Nonostante la vittoria però l’attuale Rosenborg è lontano da quello che negli anni ’90 creava scompiglio in Champions League (arrivando a vincere anche con il Real Madrid). Appena varcati i confini nazionali la squadra dimostra un livello piuttosto mediocre, testimoniato dal solo punto ottenuto finora nel proprio girone di Europa League. Basti pensare che il bomber della squadra è Alexander Soderlund, attaccante con un passato nella Lega Pro italiana con il Lecco (dove comunque faticava a giocare).
Dopo la vittoria i giocatori hanno festeggiato sotto la loro curva, in una scena che ha fatto il giro del mondo e che ci dice qualcosa su uno dei paesi più indecifrabili d’Europa. La Norvegia possiede pozzi di petrolio, ma anche immense foreste; ha un livello di qualità della vita molto alto, ma un tasso di suicidi altrettanto alto. Ha dato i natali all’ingenuità naif di Edvard Grieg, ma anche alle band più inquietanti del black metal mondiale. È uno dei paesi più progressisti al mondo, ma anche uno dei più storicamente collusi col nazismo.
Su SportMediaset veniva definito “coro da brividi”, ma sono dei brividi di inquietudine sturm und drang, simili a quelli che si possono provare davanti a dipinti simili.
È un video stupendo non solo e non tanto per l’energia mistica di comunione tra giocatori e tifosi, ma per la ricchezza di dettagli e di facce che ci si trovano dentro. Per me i norvegesi sono ormai quelli che si vedono in questo video, precisamente questi:
1. L’uomo che ha fatto il patto col diavolo

Quest’uomo ha stretto un patto con il Loki, il demone dell’astuzia, il trickster della mitologia norrena, per diventare come lo stemma della tifoseria del Rosenborg. Tra qualche anno si sarà trasformato in un teschio con i baffi.
2. Il Gigante

Chiaro discendente della stirpe dei Jötunn, i giganti della mitologia norrena, abitanti della fortezza di Utgaror, situata nel mondo di Jotunheimr. Il significato di "Jötunn" sarebbe, più o meno, “mangiatori di uomini”.
3. Il pazzo

Provate ad andare da lui e spiegargli che è stata “solo una partita di calcio”. Quest’uomo segue le partite del Rosenborg bevendo pinte di sangue di lupo per raggiungere lo stato di invasamento noto come “ira di Berserk”.
4. Il goblin

Sotto le spoglie della tradizionale bimba bionda IKEA si nasconde uno spiritello malefico che corrompe gli animi umani, quello che è noto come Goblin. Arriva allo stadio cavalcando il volo di un pipistrello, il goblin è lo spacciatore di riferimento della curva del Rosenborg.
Belgio
di Alessandro Piccolo (@calciobelga)
The Simple One: Hein Vanhaezebrouck
Nella stagione 2007-2008, il Kortrijk, che allora militava in Tweede Klasse (l’equivalente belga della nostra Serie B), partiva con grandi ambizioni di promozione. Durante la sessione di mercato precedente aveva acquistato ben 12 giocatori, cedendone 7, e con una squadra profondamente rinnovata l’obiettivo sembrava facilmente raggiungibile. Quell’anno, seduto sulla panchina del club all’ombra della Broel Tower c’era Hein Vanhaezebrouck, ex centrale difensivo dotato di grande leadership, ma non abbastanza talento per permettergli di sfondare. In carriera ha giocato sempre in squadre di medio livello, tra cui Lokeren e lo stesso Kortrijk, senza però mai lasciare il Belgio, al quale ha sempre detto di essere legatissimo. Poi è diventato allenatore con la motivazione di chi ha deciso di dedicare la propria vita al calcio.
Al termine della stagione, come sperato, il Courtrai (pronuncia francese), hanno vinto il titolo con una giornata d’anticipo, lasciando la serie cadetta per salire in Jupiler Pro League. Alla penultima giornata, che ha sancito la promozione, i "Reds" hanno vinto per 2-1 in casa contro l’Eupen. Il gol della vittoria, accolto tra gli applausi generali, è stato segnato da un giovane centrocampista appena diciannovenne: Sven Kums.
Cinque mesi fa come allora, è ancora una volta Kums, stavolta in maglia azzurra, a regalare la gloria a Vanhaezebrouck: il 21 maggio 2015, per la prima volta nella sua storia, il Gent diventa campione del Belgio, e lo fa battendo 2-0 lo Standard Liegi.
Da calciatore, Vanhaezebrouck era un leader testardo. Come allenatore, la testardaggine gli era costata il posto ai tempi del Genk. Arrivato al Gent dopo diverse stagioni al Kortrijk, però, non ha minimamente cambiato mentalità. «Simeone da allenatore ha mantenuto la sua idea di calcio difensivista, ma io non sono così: io ero un difensore creativo. Mi ispiro al Bayern Monaco e al Barcellona perché credo che nel calcio è chi domina a creare occasioni» ha detto in una lunga intervista a SportWereld.
«La cosa più difficile in quel di Gand», ha poi aggiunto, «È stata sicuramente trasmettere tutte le mie idee ai giocatori«. Il fatto che dopo «sia andato tutto liscio» viene pronunciato come se si stesse togliendo un grosso peso. Negli anni precedenti a Vanhaezebrouck i Buffalos si erano guadagnati il soprannome di “cimitero degli allenatori”, a causa dei 5 tecnici che si erano susseguiti negli ultimi 4 anni. Eppure, Hein si è subito dimostrato ottimista al suo arrivo, preannunciando di voler puntare allo scudetto.
Ad oggi, il Gent è considerato la squadra che gioca il miglior calcio in Belgio, e lo stesso Oostende, una delle squadre sorpresa di questo campionato, si ispira al suo gioco (Vanderhaeghe è stato infatti per anni collaboratore e allievo di Vanhaezebrouck).
Il 3-5-2 dei campioni del Belgio è volto a occupare la maggior parte di campo possibile. Si sfruttano gli esterni larghi e il fraseggio a centrocampo per dominare il gioco perché «non si può aspettare che l’avversario sbagli per partire in contropiede, ma si deve indurlo all’errore». Per il resto il Gent fonda i suoi successi sul possesso di palla e sui movimenti ben organizzati: i giocatori si trovano quasi a memoria, e non temono alcun avversario. In fase di non possesso si sfrutta il pressing alto, quasi asfissiante, ma in occasioni particolari: i Buffalos alternano momenti di pressing aggressivo sul pallone a momenti di attesa sulla trequarti cercando di chiudere le linee di passaggio.
La principale richiesta dell’allenatore è cercare sempre il passaggio più semplice per evitare di perdere palla. Non a caso è tra le squadre con la maggior percentuale di passaggi riusciti in JPL. Quest’anno vuole vincere il titolo per la seconda volta nella storia, e ha ottime possibilità di riuscirci. Con diversi incontri di Champions all’orizzonte, il Gent continua a tenersi stretta la vetta della classifica.

Sempre un grande Gillet, tre rigori parati in una sola partita
Jean François Gillet è una delle eccezioni più clamorose alla regola che vuole che il portiere sia alto. “Il gatto di Liegi” misura solo 181 cm, non ha grande stazza fisica, ma è dotato di un’agilità e una reattività fuori dal normale, che gli hanno permesso di guadagnarsi questo soprannome. Nonostante l’altezza, riesce a distendersi con estrema elasticità, saltando da un palo all’altro con grande sicurezza.
Il suo punto di forza si rivela però quando deve affrontare un avversario dal dischetto. Alla prima stagione in A, con la maglia del Bari, un Gillet appena 20enne neutralizzò due rigori nella stessa partita a due specialisti come Hübner e Pirlo. Il Brescia vinse comunque quell’incontro, ma quello di Gillet fu un incredibile record, battuto recentemente. Il portiere, attualmente al Mechelen, ha parato tre rigori in una partita contro l’Anderlecht, e stavolta è riuscito anche a evitare la sconfitta: i suoi compagni hanno infatti strappato il pareggio in zona Cesarini.
Gatto Gillet!
Al termine della partita è tornato anche a parlare della Serie A. Ha ammesso di avere ancora a cuore il Bari, nonostante la pessima accoglienza riservatagli lo scorso anno durante un Bari - Catania, retaggio dello scandalo calcioscommesse che aveva coinvolto il belga durante gli anni in Puglia. L’ennesimo problema con i tribunali, dopo le accuse di doping lanciategli anni prima, lo avevano convinto a ritornare in patria per vestire la maglia dei Malines, che hanno una storica tradizione di portieri, e continuare a battere altri record. A oggi, con una percentuale del 24,2% di rigori parati è ancora il quarto para-rigori di sempre in Serie A.
Russia
di Alberto Farinone (@AlbertoFarinone)
Rinascita rossoverde?
La scorsa annata è stata una delle più burrascose nella storia recente della Lokomotiv Mosca: tre allenatori cambiati, giocatori finiti fuori rosa (emblematico il caso di Lassana Diarra e Boussoufa), gioco scadente e pessimi risultati. La vittoria della Coppa di Russia ha però salvato la stagione e aperto nuovi scenari per i Ferrovieri, a partire dalla conferma in panchina per Cherevchenko, che sembrava essere il più classico dei traghettatori.
Il mercato, complice le sanzioni della UEFA, è stato di basso profilo, con movimenti praticamente solo in uscita per potare le cosiddette "mele marce". Nonostante le prospettive non fossero esaltanti, la Loko è riuscita a creare una base da cui ripartire, che ha subito portato i primi frutti: secondo posto (a pari merito col Rostov) al termine del girone d'andata in campionato e qualificazione quasi raggiunta in Europa League (in un gruppo complicato con Besiktas e Sporting Lisbona).
Cherevchenko, oltre a trovare quell'equilibrio mancato nel recente passato, è stato abile a sfruttare le principali qualità della rosa a disposizione: la solidità difensiva e la velocità nelle ripartenze. Se la retroguardia rossoverde, guidata da capitan Corluka, risulta essere spesso un bunker, buona parte dei meriti sono da ascrivere al filtro operato in mezzo al campo dai mediani N'Dinga e Tarasov, aiutati nel loro lavoro oscuro dal più dinamico Kolomeytsev. La fase offensiva è affidata principalmente agli esterni, sia di difesa (Shishkin e Vitaliy Denisov sono entrambi degli eccellenti crossatori), sia di centrocampo (fondamentale l'apporto fornito da Samedov e dal dribblomane Kasaev, senza dimenticare gli strappi del brasiliano Maicon, alternativa preziosa).
Ma sono altri due i giocatori della Lokomotiv da tenere maggiormente sotto osservazione. Il primo è Aleksey Miranchuk, trequartista classe '95 dotato di una classe cristallina, una grande speranza russa che per imporsi definitivamente deve però imparare a essere più concreto. Il secondo è Baye Oumar Niasse, rapidissimo attaccante senegalese affermatosi in Turchia, che—dopo un primo anno di apprendistato—è esploso anche in Russia: già 11 le reti da lui messe a segno finora in tutte le competizioni, alcune delle quali davvero pregevoli.
L'esplosività di Niasse.
Sogni di gloria sugli Urali
Un'altra piazza russa che ambisce a traguardi inaspettati è quella di Ekaterinburg. L'Ural, attualmente ottavo in classifica (ma a soli 4 punti dal quarto posto), rappresenta una delle più piacevoli sorprese di queste prime 15 giornate. Grazie a un gioco offensivo—e a delle individualità di lusso per una compagine che ha la salvezza come obiettivo primario—gli arancioneri non hanno sofferto più di tanto nemmeno il cambio in panchina, con il misterioso addio del bielorusso Goncharenko (principale artefice del miracolo BATE Borisov, ora passato al CSKA, dove a fine stagione potrebbe prendere il posto del C.T. russo Slutskiy), rimpiazzato dal suo assistente Skripchenko.
Al cileno Acevedo sono affidati il ruolo di regista e i calci piazzati, dove si è dimostrato un vero cecchino. Sulla trequarti si alternano la saetta zambiana Lungu, l'ex promessa armena dell'Ajax Manucharyan (assieme ad Acevedo il miglior realizzatore stagionale dell'Ural con 5 reti, tutte siglate con il suo delicato mancino) e due eleganti fantasisti russi cresciuti proprio nel settore giovanile della Lokomotiv Mosca: Erokhin (purtroppo infortunatosi gravemente: lo rivedremo in campo soltanto nel 2016) e Podberezkin. Tutti elementi tecnici, che amano giocare palla a terra. Il pacchetto arretrato, guidato dall'argentino Fontanello (meteora del Parma 2009-10), e l'attacco perennemente spuntato che costringe l'Ural a giocare quasi sempre senza un riferimento fisso, sono i principali limiti di una squadra che verosimilmente non riuscirà a raggiungere una storica qualificazione europea, ma che sembra destinata almeno a far divertire i propri tifosi ancora per molto tempo.

Il piede di Acevedo.
Il bomber che non ti aspetti
Chi non ha familiarità con il campionato russo, scorrendo la classifica marcatori, potrebbe restare a bocca aperta vedendo al primo posto Lorenzo Melgarejo, ex terzino sinistro del Benfica.
Il Kuban approfitta della giornata di totale black out della Lokomotiv, segnando 5 reti in 38 minuti (due portano la firma di Melgarejo). La folle partita terminerà 6-2.
Esiste in realtà un motivo più che ragionevole: il paraguaiano, che per la verità nasce come ala d'attacco, è stato infatti trasformato da Tashuev, attuale tecnico del Kuban Krasnodar, in una (prolifica) prima punta. Ecco così spiegati gli 8 gol messi a segno.