Nel giudicare il successo di una squadra in una stagione sportiva, siamo spesso portati a lasciarci condizionare dal risultato finale e da quanto questo sia corrisposto a una vittoria o, quantomeno, all’avvicinamento di un’obiettivo pre-stabilito. Una stagione positiva che coincide con dei playoff deludenti, ad esempio, condiziona negativamente il giudizio che si dà della stagione stessa, e i risultati di poche settimane cancellano quelli di mesi e mesi di partite e allenamenti.
La cultura resultadista, del risultato a tutti i costi e come unico elemento di valutazione, danneggia la nostra visione dello sport, ma è difficile non lasciarsi sedurre da questa quando si valuta la stagione dei Portland Trail Blazers. Scintillanti in regular season, primi del gruppone delle “normali” che per mesi ha inseguito le irraggiungibili Houston e Golden State in una Western Conference mai come quest’anno spaccata in tre tronconi, i Blazers sono naufragati nella post-season, rimediando uno sweep inappellabile e indiscutibile contro i New Orleans Pelicans.
Il terzo posto a Ovest ottenuto a fine regular season dalla squadra di coach Terry Stotts è il più alto dalla stagione 1999-00, ma ai playoff Portland ha rimediato il secondo 4-0 consecutivo al primo turno, con il risultato che i Blazers adesso hanno perso le ultime 10 partite giocate nella post-season. Questa doppia anima tra le due fasi della stagione non è quindi un qualcosa di nuovo nell’Oregon, e oltre ad essere stato spunto di riflessione nelle exit interviews di fine stagione sarà sicuramente uno dei primi punti alla base della conversazione che attende l’entourage dei Blazers da qui al Draft e alla free agency.
La complessa situazione dei Blazers presenta diverse possibili vie d’uscita, sia che Rip City rimanga la stessa sia che decida di cambiare pelle. Nell’illustrarne cinque, ci vengono incontro i titoli di alcuni episodi della serie Black Mirror, tradizionalmente lungimirante nell’immaginare storyline fantasiose.
“Hang the DJ”: addio a coach Stotts?
In Hang the DJ, episodio della quarta stagione, fondamentale è la figura di “Coach”, vero e proprio deus ex-machina della storia ma non presente a livello visivo. Nelle sei stagioni in cui Terry Stotts è stato coach dei Portland Trail Blazers, invece, la figura dell’allenatore ex Hawks e Bucks nello scorso decennio è stata tutto meno che assente.
Stotts, infatti, è stato la principale mente di due cicli triennali dei Blazers, entrambi legati alla figura di Damian Lillard che, non a caso, è legatissimo all’unico allenatore finora avuto in NBA. Il primo ciclo appartiene al triennio 2012-15, quello in cui Portland passò in due stagioni da 33 a 54 vittorie, vincendo anche una serie di playoff per la prima volta dal 2000.
Serie vinta col tiro decisivo dell’allora sophomore Lillard.
Dopo quell’anno, in cui Portland si arrese ai San Antonio Spurs poi campioni NBA, i Blazers furono in grado di ripetersi a livello di regular season, vincendo 51 partite e il titolo - ormai praticamente solo simbolico, ma comunque il primo dal 1999 - della Northwest Division. Non fecero altrettanto bene, però, nella post-season: secco 4-1 da Memphis, che poi al secondo turno spaventò la prima versione dei Golden State Warriors di Steve Kerr andando anche sul 2-1.
Quel ciclo di fatto finì con quella serie, perché poi nell’estate successiva LaMarcus Aldridge lasciò l’Oregon per approdare all’ombra dell’Alamo con la speranza di diventare l’erede di Tim Duncan. Ciò però non contribuì ad offuscare l’ottimo lavoro di Stotts, capace di mantenere i Blazers sempre oltre il 50% di vittorie grazie anche all’esplosione di C.J. McCollum, vincitore del titolo di Giocatore più Migliorato nella stagione successiva all’addio di Aldridge.
Portland tornò a vincere una serie di playoff due anni dopo, contro quella che forse è l’ultima vera versione davvero Lob City degli L.A. Clippers, che proprio in quella serie persero per infortunio prima Blake Griffin e poi Chris Paul. Da quel momento in avanti, però, nonostante 90 vittorie in due anni di stagione regolare, i Blazers di Stotts hanno vinto soltanto una delle 13 partite di playoff disputate.
Già in quella serie coi Clippers si può notare un difetto del gioco di Lillard che in seguito non è stato corretto da Stotts: la difficoltà nel leggere rapidamente i raddoppi, generando palle perse su palle perse. Infatti, una costante nelle ultime tre serie di playoff di Lillard è il basso rapporto tra assist e turnover, soprattutto nelle ultime due stagioni.
Sei anni sulla stessa panchina, per l’NBA di oggi, cominciano ad essere tanti: quando una squadra poi ha bisogno di dare una scossa per cambiare un trend che comincia a perdurare nel tempo, la tentazione di cambiare allenatore può essere invitante. Nonostante la ciclicità del rendimento discontinuo tra regular season e playoff nell’era Stotts, questo sembrerebbe non essere il caso dei Portland Trail Blazers.
Prima di tutto, l’allenatore visto da giocatore a Cantù negli anni ‘80 gode della fiducia quasi totale da parte del gruppo, che non perde mai occasione - quando interpellato - di elogiare e sostenere il proprio allenatore. Il roster attuale dei Blazers è formato da giocatori che conoscono Stotts da tempo (Lillard, McCollum, Leonard per citarne tre) o che a lui devono il rinvigorimento della loro carriera NBA, come accaduto in questa stagione a Shabazz Napier e Pat Connaughton.
Da non sottovalutare, poi, il saldo legame che pare esserci tra Stotts e il GM Neil Olshey: entrambi arrivati in Oregon nell’estate 2012, l’ex GM dei Clippers in questi anni ha sempre cercato di allestire squadre che potessero essere vicine al credo tattico del suo allenatore. È difficile - ma non impossibile - pensare a un addio all’allenatore quando vi è un legame solido con la dirigenza nella figura del General Manager, e lo è ancor di più quando si pensa al continuo lavoro formativo e di sviluppo svolto dall’allenatore stesso. Considerando anche le parole di Olshey nelle Exit Interviews, è quindi più plausibile aspettarsi novità a livello di roster.
“Nessuno pensa che questo roster sia un prodotto finito”. Una frase abbastanza chiara.
Fifteen Million Merits: che fare del supporting cast?
In Fifteen Million Merits, episodio della prima stagione, si immagina un mondo distopico nel quale gli esseri umani sono retribuiti in “merits”, una valuta utilizzabile per tutte le necessità quotidiane. Nell’estate 2016 Evan Turner ha firmato un contratto da 70 milioni di dollari per quattro anni con i Portland Trail Blazers, una media di 17.5 milioni a stagione: superiori ai 15 milioni “protagonisti” dell’episodio di Black Mirror. Il suo è un caso perfetto per citare uno dei principali capi d’accusa a Olshey e alla dirigenza Blazers: l’ipervalutazione dei propri giocatori di rotazione.
In questo momento i Blazers hanno 111 milioni di dollari già impegnati per la prossima stagione, ben sopra il tetto di circa 102/103 previsto per la prossima stagione e pericolosamente vicino a un ritorno in quella luxury tax evitata scaricando il contratto di Noah Vonleh nei mesi scorsi. Quasi 40 di quei 111 milioni sono impegnati su tre giocatori: Evan Turner, appunto, Moe Harkless e Meyers Leonard. Due giocatori injury prone e dalla relatività affidabilità nel medio-lungo periodo, oltre a uno che ancora non si è capito bene di che pasta sia fatto.
Ad Harkless è particolarmente legato il momento migliore della stagione di Portland, quello coinciso con la striscia da 13 vittorie consecutive che ha fatto pensare ai Blazers come principale alternativa al duopolio formato da Rockets e Warriors. Al termine di una stagione dove l’ex Magic ha chiuso con il 41.5% da 3 punti, Harkless ha dichiarato di avvertire attorno a sé la fiducia di compagni e staff per la prossima stagione. Preso singolarmente, il suo contratto non è così negativo (altri 21 milioni fino al 2020); il problema nasce quando viene accostato a quelli di Leonard, mai sceso in campo nella post-season e sul parquet per sole 35 partite in questa stagione, e di Turner.
L’ex Sixers, Pacers e Celtics era stato preso con l’obiettivo di aggiungere un altro portatore di palla in grado di alleggerire il peso della costruzione offensiva dalle spalle di Lillard e McCollum. Nelle sue prime due stagioni in Oregon, però, il nativo di Chicago si è fatto maggiormente notare come presenza irrilevante - se non dannosa - in attacco tanto da guadagnarsi l’indifferenza delle difese avversarie, e le sue percentuali disastrose nel tiro da tre (32% su quasi due tentativi di media a partita) hanno contribuito ad abbassare la pericolosità nel tiro dall’arco dei Blazers, considerati come una delle squadre migliori della lega nel fondamentale non fosse altro per la presenza di due guardie così creative.
9/12 al ferro, 3/21 fuori dal cilindro di cui 1/14 (!) dalla media distanza: sfumature di blu scurissimo della serie di Turner contro i Pelicans (mappa di tiro fornita da Chart Side)
L’ex seconda scelta al Draft 2010 ha mostrato dei lampi positivi nel corso di questa stagione, principalmente legati a quel periodo “magico” già citato in precedenza. Il complesso di questi primi due anni in Oregon di Turner ha però dimostrato la situazione di un giocatore semplicemente inadeguato alla pallacanestro odierna, a meno di un sistema particolarmente cucito su misura. Elementi che lo rendono quasi impossibile da scambiare, come la maggior parte del “contorno” dei Blazers. La possibilità di poter usare due trade exception da 13 e 3 milioni di dollari, rispettivamente, può offrire margine di manovra a Olshey per rimpolpare il roster, ma è difficile che questo possa condurre al liberarsi di almeno uno di quei contratti particolarmente onerosi (oltre a dover assorbire ulteriore denaro da aggiungere alla luxury tax).
L’unico contratto particolarmente appetibile è quello del più positivo del supporting cast dei Blazers, vale a dire Al-Farouq Aminu. In scadenza la prossima estate, l’ex New Orleans si è infatti rivelato una delle poche note liete della serie con i Pelicans, ed è quasi incredibile pensare che nella prossima stagione uno delle ali più versatili della lega prenderà quasi un terzo dello stipendio di Turner. Al contrario, Olshey dovrà compiere scelte importanti in merito ai giocatori da rifirmare: vanno a scadenza al 30 giugno in quattro, tra cui un giocatore importante dello spogliatoio e del gioco di Portland come Ed Davis e le due note più liete dell’intera stagione, nonché segni del’ottimo lavoro di Stotts come Napier e Connaughton.
La rifirma dei tre riporterà quasi certamente Portland oltre la soglia della luxury tax, con ottime possibilità di dover pure chiedere a Paul Allen di pagare la repeater tax (la tassa addizionale che si paga quando si figura per più stagioni consecutive in luxury). Pertanto, una soluzione di svolta potrebbe essere legata alla mancata rifirma (o sign & trade) del quarto giocatore in scadenza, l’enigmatico Jusuf Nurkic.
White Bear: puntare su Collins e salutare Nurkic?
Il bosniaco ex Nuggets è considerabile, per dimensioni, come un gigantesco orso bianco, anche se la sua storyline NBA non ha molto a che spartire con la trama dell’episodio White Bear di Black Mirror. Arrivato sottotraccia in Oregon in cambio di Mason Plumlee nel corso della scorsa stagione e accompagnato da una scelta al primo giro, Nurkic fu da subito in grado di dare un ottimo impatto, chiudendo con una doppia doppia di media (15+10) nelle 20 partite di regular season disputate con la maglia dei Blazers nella scorsa stagione.
28 punti, 20 rimbalzi, 8 assist e 6 stoppate: il miglior Jusuf in carriera, in una prova che per Jahlil Okafor forse non dista troppo lontano dalla trama di White (Bosnian?) Bear.
Gravemente condizionato da infortuni nel corso delle sue prime tre stagioni NBA, nell’annata appena terminata il lungo bosniaco è stato in grado di dare innanzitutto ottime risposte sul piano della tenuta fisica - le 79 partite giocate sono il suo massimo con grande distacco, per un giocatore mai sopra le 65 apparizioni in una singola regular season - e del controllo del corpo e delle sue abilità tecniche, come testimoniano il minor numero di palle perse e di falli commessi per un giocatore che non fa della verticalità il suo forte.
Chi però esce in maniera peggiore dalla serie contro i New Orleans Pelicans è probabilmente il figlio del possente agente Hariz. Come prevedibile Nurkic ha sofferto particolarmente il duello con Anthony Davis, non riuscendo a mettere in minima difficoltà la stella dei Pelicans sui due lati del campo durante la serie, con l’eccezione di qualche timido segnale in Gara-4. Non la migliore delle situazioni in cui ritrovarsi per il bosniaco, atteso adesso dalla prima free agency della carriera NBA. Una free agency più impegnativa, a livello decisionale, per i Blazers piuttosto che per lui, probabilmente: Nurkic infatti sarà un restricted free agent, dando quindi a Portland l’opportunità di pareggiare qualsiasi offerta possa pervenire.
Questo però espone i Blazers a una situazione già vissuta nel corso delle passate stagioni con Allen Crabbe. Come l’attuale giocatore dei Nets, infatti, Nurkic potrebbe ingolosire una squadra dei bassifondi NBA alla ricerca di un lungo vecchio stampo da pagare più del suo valore in cambio di una solida doppia-doppia abbondante di media con cui tirare avanti. Con già due componenti del roster firmati ai loro massimi salariali - Lillard e McCollum - è assai improbabile che Olshey e i Blazers decidano di impegnare grandi somme su Nurkic, ed è quindi plausibile che di fronte a un’offerta molto alta Portland possa decidere di lasciare andare il bosniaco e rivolgersi a una soluzione interna: Zach Collins.
Il quale, peraltro, ha già fatto vedere segnali promettenti.
Il prodotto di Gonzaga, dopo un mese e mezzo di apprendistato fatto di tanta panchina, è entrato a far parte stabilmente delle rotazioni di Portland da dicembre in avanti, e le sue caratteristiche più moderne rispetto a quelle di Nurkic potrebbero rappresentare una soluzione attraente per Stotts: i margini di crescita nel tiro da fuori di Collins rappresenterebbero nuove variabili per i pick and roll frequentemente giocati da Portland. Nel valutare la possibile resa della scelta di preferire Collins a Nurkic, però, gioca un ruolo importante quella che forse è La Domanda dell’off-season di Portland: Damian Lillard e C.J. McCollum sono ancora destinati ad avere un futuro insieme?
The Entire History of You: ripartire rompendo il duo Dame-C.J.?
Come Damian Lillard non ha mai avuto, in NBA, altro coach al di fuori di Terry Stotts e GM che non si chiami Neil Olshey, lo stesso si può dire per C.J. McCollum. Per quanto possibile, il prodotto di Lehigh è maggiormente un “uomo di Olshey” di quanto non lo sia Lillard, scelto dal General Manager dei Blazers al suo 24° giorno con la franchigia dell’Oregon.
Nel caso in cui si debba veramente percorrere l’ipotesi di una separazione di una delle coppie più elettrizzanti della lega (proprio in una off-season dove potrebbe essere a rischio la solidità di un altro duo di guardie come quello formato da John Wall e Bradley Beal), bisogna capire quali possano essere gli elementi chiave da spingere verso una direzione del genere.
Nello scorso gennaio è uscita la notizia di un incontro tra Damian Lillard e Paul Allen, proprietario dei Blazers interpellato dal giocatore sulle intenzioni della proprietà di creare, nel breve termine, un roster in grado di garantire la lotta per il titolo NBA. Proprio Lillard, nella sua exit interview, ha fatto un parallelo tra la situazione attuale di Portland e quella dei Golden State Warriors precedente alla vittoria del primo titolo, una squadra costruita originariamente sul talento di due guardie.
“Oltre a quello, avevano soltanto giocatori di complemento, capaci di fare un po’ di tutto: un lavoro di squadra. Penso che la nostra squadra sia in grado di fare qualcosa del genere”.
Chissà, se nel ragionamento di Lillard, viene considerata anche quella che fu la vera svolta dei Golden State Warriors che oggi dominano l’NBA: lo scambio che, nel marzo 2012, portò Andrew Bogut in cambio di Monta Ellis, liberando spazio per l’emergente Klay Thompson e rompendo il duo formato da Curry e lo stesso Ellis, ceduto nonostante fosse un autentico idolo per i tifosi.
Esattamente l’effetto che potrebbe avere una trade di uno tra Lillard e McCollum sull’appassionato popolo di Rip City. Una strada decisamente non facile da considerare, però: se McCollum è un “uomo di Olshey” che pertanto potrebbe essere restio a lasciare andare un giocatore scelto in primis da lui, Lillard quest’anno rientrerà per la terza volta in carriera in uno dei quintetti All-NBA, e sebbene questa possa essere considerata davvero la sua breakout season, è legittimo pensare che “DameDOLLA” possa ancora crescere.
I limiti visti nei playoff, ad esempio, possono essere fonte di ulteriore crescita e miglioramento del leader dei Blazers, limiti mascherabili anche da una diversa conformazione del roster che può passare attraverso un’eventuale trade di McCollum: uno scambio in grado di permettere l’arrivo di uno o due giocatori in grado di diversificare le opzioni offensive di Portland.
Attorno alla deadline è circolata più volte, ad esempio, la possibilità di una trade tra Cleveland e Portland che possa coinvolgere McCollum, Kevin Love e la famigerata scelta dei Brooklyn Nets: un esempio di trade dalla quale i Blazers di Olshey potrebbero uscire in maniera positiva, permettendosi anche di poter evitare la rifirma di Nurkic e - a seconda della scelta al Draft - di uno degli altri tre giocatori in scadenza.
Lillard, dal canto suo, potrebbe potenzialmente essere inserito in un numero e una tipologia pressoché infinita di trattative, dalle quali vi potrebbe essere minor certezza di un mantenimento a livelli playoff dei Blazers stessi. Quale può essere la scelta maggiormente percorribile?
Per sceglierlo potrebbe essere anche necessario dover ripercorrere l’intera storia di McCollum e Lillard con i Blazers, per capire in che direzione andare nel sbrogliare un rompicampo che potrebbe, però, anche essere risolto nella più semplice e complicata delle maniere: non cambiare niente.
Be Right Back: cambiare tutto per non cambiare niente?
In questa stagione abbiamo visto un esempio di squadra capace di cambiare tutto per non cambiare niente, un atteggiamento gattopardesco simile al leit-motiv dell’ultimo episodio citato di Black Mirror. Nella stessa Portland si può trovare più di un parallelismo con i Toronto Raptors.
In entrambi i casi al timone vi sono allenatore e GM di media-lunga durata, e sul parquet la squadra è guidata da un duo di esterni che spesso ha visto il suo rendimento differire tra regular season e playoff. Anche nei Raptors uno dei giocatori più discussi è un lungo europeo old school, anche se Valanciunas è un progetto cui Toronto lavora da più tempo rispetto a Nurkic.
La differenza fondamentale, ad oggi, sta nella costruzione della panchina da parte di Toronto, svolta attingendo in larga misura alla sua franchigia di G-League e ricorrendo in minima parte - ma con sapienza - alla free agency. I segnali visti nelle stagioni di Napier e Connaughton possono rappresentare un continuum in quella direzione, ma solo se i due nuovi contratti saranno in grado di garantire un minimo di flessibilità senza possibilmente sfondare il limite della luxury tax.
È comunque complicato notare dei veri parallelismi con la storyline dei Raptors, al di là delle tante similitudini. Prima di tutto, a incidere vi è la posizione di partenza delle due squadre nelle rispettive conference: Toronto si è rinnovata gattopardescamente partendo da una condizione di stabilità ad alti livelli - Top 4 ad Est - in una Conference con meno punti di riferimento. Il terzo posto di Portland invece, per quanto meritato, appare anche casuale soprattutto alla luce delle difficoltà di squadre come Oklahoma City e San Antonio in questa stagione. Nei giorni scorsi Olshey ha sostenuto come lui e la società non vogliano lasciarsi prendere dal panico nel svalutare quanto fatto in questa stagione solamente di fronte a quattro brutte partite di playoff.
Lo stesso discorso, però, si può - e per certi versi deve - applicare anche in considerazione alla ridotta distanza tra Portland e Denver fuori dai playoff: tre partite, un’inezia, una testimonianza di come i valori ad Ovest si siano appiattiti e “normalizzati” nella classe media alle spalle delle due principali contender.
Le scelte dei Portland Trail Blazers non saranno facili, e ci vorrà un mix di pazienza e coraggio, anche perché davanti vi è un bivio che rischia di avere una definizione sempre più certa: da un lato la verosimile certezza di fare i playoff ancora per un biennio abbondante, senza però riuscire realmente ad impensierire le principali potenze della conference; dall’altro, invece, la possibilità di fare quei correttivi in grado di elevare il livello di una squadra che ha indubbiamente fame di vittoria. Vada come vada, i prossimi mesi ci diranno moltissimo della direzione che la franchigia intenderà prendere.