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Lo sbarco in Italia di Ricardinho
16 set 2024
16 set 2024
Siamo andati a trovare il leggendario giocatore di futsal portoghese nella sua nuova casa, a Genzano.
(copertina)
Photo courtesy Marco Bocale
(copertina) Photo courtesy Marco Bocale
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Il Pala Coccia, il palazzetto dello sport di Veroli, in provincia di Frosinone, sembra una specie di navicella spaziale atterrata nel bel mezzo della vallata tra i monti Ernici e i monti Lepini. Al tramonto comincia a popolarsi, nell’aria c’è uno strano pulviscolo. Ci sono un foodtruck che vende panini con la porchetta e svariati membri della sicurezza con le radioline al collo, dei roll-up con un Cristiano Ronaldo a grandezza naturale, un monopattino elettrico che verrà estratto a sorte tra gli spettatori dell’evento che sta per andare in scena, un’amichevole di calcio a 5 che sembra però più qualcosa a metà strada tra una sagra paesana e una funzione sacra.

I ragazzi dell’AMB Frosinone, gli sparring partner di giornata, arrivano alla spicciolata, qualcuno a piedi: a uno di loro, che mentre mi passa a fianco è al telefono, sento dire «papà, non puoi capire quanto è grosso, quanto è bello». Mi sembra di cogliere, nella sua voce, una vena di emozione.

Poi, all’improvviso, c’è come una sferzata elettrica: entrano i pullmini, da uno di loro scende, per primo, con gli auricolari, il motivo per cui in questo palazzetto del frusinate si è aggrumata tutta questa gente, me compreso. Ricardinho, O Magico. Che come il Pala Coccia, a Veroli, sembra qualcosa che piomba dal passato e dal futuro allo stesso tempo.

L’arrivo di Ricardinho in Italia, ingaggiato dall’Ecocity Genzano, ha avuto un grande, enorme risalto mediatico: quando sul finire di agosto ne ha dato lui stesso l’annunciofaremo la storia insieme, in quella che probabilmente sarà la mia ultima sfida nel futsal – non è solo agli appassionati di calcio a 5 che sono esplose le sinapsi. Se ne è parlato tanto e profusamente, anche in luoghi in cui al futsal non è mai stata riconosciuta la visibilità che meriterebbe, e se ne è parlato negli stessi termini in cui, nel 2018, venne accolto il trasferimento del suo connazionale Cristiano Ronaldo alla Juventus: il suo arrivo gioverà a tutto il movimento; il suo ingaggio si ripagherà con le magliette.

«Sarà l’icona mediatica della Serie A», ha scritto Relevo, perché «la sua magia emoziona e rivoluziona. È il giocatore di cui aveva bisogno un movimento troppo svalutato nel Paese transalpino». In fondo, in Spagna funzionò esattamente alla stessa maniera: nel 2013 la Movistar Inter cercava un Messia, e Ricardinho è stato il Messia. «È stato come mettere una pastiglia di ammorbidente in lavatrice», dice l'ex giocatore di calcio a cinque spagnolo Carlos Ortiz ricordando quell’epifania. «All’improvviso tutto era pulito, più morbido e profumato».

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Magari Ricardinho non è più il giocatore che era dieci anni fa, quando nel prime della sua carriera distruggeva avversari, mandava in macerie preconcetti e leggi della fisica. Però si porta dietro l’aura di chi ha riscritto le regole – e ribaltato la percezione – del futsal, accompagnandone la trasformazione da gioco bistrattato, cugino popolare e un po’ straccione del calcio, a sport professionale, palestra di sviluppo di una serie di skill sensazionali, flamboyanti, altamente spettacolari, oro colato – nell’era dell’immagine – per la viralità sui social.

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Vincenzo Tuccillo, il presidente dell’Ecocity Genzano, è l’artefice di questo piccolo grande miracolo per il quale il mondo che ruota attorno al futsal italiano non smetterà mai di essergli grato. «Lo abbiamo cercato, a prescindere dal giocatore, dall’uomo immagine, per il suo essere uomo spogliatoio: umile, generoso. Da noi, per prima cosa, contano gli uomini: poi i giocatori», mi dice quando lo blocco per scambiare due parole davanti al porchettaro. «Certo, per il futsal italiano è qualcosa di importante, genererà una visibilità non indifferente per tutto il movimento». Di Tuccillo colpisce quella scintilla negli occhi che produce l’ambizione: dopo un’avventura nel calcio a 11 a Cisterna di Latina, grazie a un suo giocatore ha avuto un aggancio a Genzano, dove voleva riportare in auge il calcio a 5 – che nella città dell’infiorata ha vissuto, nei primi anni duemila, una golden age. La piazza di Genzano, l’ambizione della Ecocity. «Abbiamo parlato con le istituzioni e si è aperto tutto: tradizione e progetto si sono sposati alla perfezione».

Al secondo anno, dalla serie A2 l’Ecocity è stata promossa in A1. La stagione scorsa si è piazzata quinta, guadagnandosi l’accesso al round finale, dove è stata eliminata dal Catania, poi campione d’Italia. Quest’anno, con l’acquisto di Ricardinho, l’obiettivo non può essere che uno. «Scudetto e campionato». Sky is the limit, come si dice.

Il cammino per la gloria non è lastricato di rose, e si costruisce mattone per mattone. Una pietra importante è stata l’acquisto – l’estate scorsa – di Stefano Mammarella, storico portiere degli Azzurri del futsal. «Quando il prez mi ha chiamato mi ha detto che entro due, tre anni voleva portare un trofeo a Genzano, dimostrare che col calcio a cinque si può raggiungere qualcosa di grande», mi dice Mammarella. «Sono contento che sia riuscito a portare Ricardinho, perché oltre a essere un giocatore fortissimo e molto preparato è anche un grandissimo ragazzo, una persona molto umile, che ci può dare una grande mano sia in campo che soprattutto fuori».

Più tardi, quando dopo averlo intervistato invierò il selfie che ci siamo scattati nella chat redazionale di Ultimo Uomo, qualcuno scriverà: «Ha proprio l’aspetto dell’attaccante fuori forma che vince da solo i tornei estivi». In campo Ricardinho, nonostante l’età, ha ancora quell’aura da cartone animato che tanto devono aver amato durante il suo passaggio in Giappone, tutto finesse e potenza repressa, con i coltelli negli occhi e i trick nel sangue: nella maniera in cui controlla, bacia, accarezza la palla c’è la potenza ipnotica del calcio al suo stato primigenio, quello che si annida nei duelli uno contro uno, la potenza di disequilibrare.

«Il meglio per la nostra società è che lui mostri la sua qualità sul campo, che poi è il motivo principale per cui è venuto qua», mi dice l’allenatore David Marín, Panchina d’oro nel 2017 dopo aver vinto tutto quel che c’era da vincere con la Luparense. Oltre alla classe innata e ancora scintillante, però, quella per cui «tutti vogliono guardarlo, e la città è in fermento» Ricardinho è anche «uno che pensa alla squadra, al collettivo, e tutto questo rende la vita più facile soprattutto a me».

«Da quando gioco io, e sono quindici anni, non c’è nessuno che abbia saputo rappresentare il nostro sport al di fuori del nostro sport come Ricardinho» mi dice Sergio Romano, campione europeo con gli Azzurri nel 2014, oggi uno dei pilastri dell’Ecocity. «Lo conoscono tutti, anche chi non ha mai visto una partita di calcio a 5, e questo aiuta il movimento». Quando gli chiedo quale sia stata la prima cosa che si sono detti, incontrandosi a Genzano, Romano sorride. «Meglio averti nella mia squadra che contro».

Photo courtesy Marco Bocale

L’idea di portarlo a Genzano, Tuccillo, anche se magari l’ha sempre covata, come si covano i sogni più reconditi, è sbocciata a dicembre scorso. Non si trovava più bene a Riga, gli era giunto all’orecchio; sembrava fosse finito, gli avevano detto, sul viale del tramonto.

A Riga Ricardinho si era rimesso in discussione, scegliendo una squadra che disputava la Champions dopo l’anno "sabbatico" trascorso in Indonesia, con la maglia del Pendekar United, la squadra di uno youtuber indonesiano con più di 30 milioni di followers, Atta Halilintar.

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«All’inizio era uno scherzo, dicevo che l’avrei portato ma insomma era impossibile», mi dice Tuccillo, che non sarà uno youtuber indonesiano con milioni di follower ma ha comunque lo swag di chi arriva con un supersuv arancione. «Era un sogno impossibile da realizzare». Ma poi, alla fine, a pensarci bene: nessun sogno è davvero impossibile da realizzare.

Anche Ricardinho, all’inizio, era scettico. Me lo dice nella saletta in cui lo intervisto, in cui entra circondato da un pulviscolo atomico di prestigio, deliziosamente alla mano. «L’Italia in passato aveva cattiva fama per i giocatori di futsal portoghesi: non pagavano, non erano organizzati. Ma poi c’è stato un cambiamento, ora c’è gente seria, di parola, che si impegna. Avevo già vinto tutte le leghe importanti in Europa [5 campionati portoghesi, 2 giapponesi, 4 spagnoli, oltre a 3 coppe UEFA, una coppa continentale per club asiatica, un europeo e un mondiale, ndr], mi mancava solo l’Italia. Per me è una challenge, mi sono detto: perché non provarci? E poi il presidente tiene mucha ilusión, l’allenatore e i giocatori pure, la città: era una bella opportunità».

«Quando è arrivato a Genzano», mi dice Mammarella, «gli ho detto: ora è il momento di lavorare insieme per fare qualcosa di grande». E se c’è qualcosa in cui Ricardinho – questo genio che coltivava l’ambizione di giocare a 11, con il Porto, prima di essere scartato perché troppo piccolo fisicamente, uno che dice «non ho scelto il futsal: è il futsal che ha scelto me» – eccelle è esattamente questo: far sembrare qualcosa di grande non solo possibile, ma un imperativo.

Quando gli chiedo chi sia stata la persona più importante nel suo cammino, nella sua carriera, cita «una donna, Carolina. La mia prima allenatrice di calcio a cinque. È stata lei a scommettere su di me quando sono rimasto scottato dal rifiuto nel calcio. E ci ha scommesso sotto tutti i punti di vista: è stata allenatrice, ma anche madre, sorella, amica. Mi ha comprato le scarpe da futsal quando non le avevo, quando vedeva che non andavo ad allenarmi, o non avevo voglia, mi veniva a prendere a casa. Quando ero un po’ ribelle, mi rimetteva in riga. Mi ha dato uno scopo, degli obiettivi».

Ho letto, da qualche parte, una sua dichiarazione in cui dice, parlando del momento in cui ha capito che il futsal sarebbe stato il suo futuro: «Se era questo, il gioco che avrei giocato: volevo essere il migliore a farlo».

Per perseguire un obiettivo, spesso, serve un faro che guidi il tuo cammino. «Il mio idolo è sempre stato Falcao [il brasiliano è uno dei più grandi interpreti del futsal, ndr]: mi sono anche tatuato il suo nome», mi dice mentre mi indica l’inchiostro sul suo polpaccio. «Meglio: più che un idolo è stato un punto di riferimento. Volevo essere come lui, volevo giocare partite in cui la gente avrebbe cantato il mio nome, ma soprattutto volevo essere un punto di riferimento per grandi e piccini, e Falcao era esattamente questo. Mi hanno ispirato anche Ronaldinho, Figo, tanti altri giocatori, e sportivi di altre discipline. Ma il giocatore che mi sarebbe piaciuto diventare: quello era Falcao».

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Casomai vi venisse voglia di cimentarvi nella meravigliosa occupazione di capire chi è più GOAT.

Di Falcao, Ricardinho ha tutto il repertorio di giocate: pisaditas, tunnel di suola, mezzerovesciate volanti, foquinhas, rabone, elastici. Quella rapidità di pensiero che circola dalla testa ai piedi.

«Non c’è un segreto su come si arriva a essere il migliore al mondo», mi dice, lui che ci è riuscito per ben sei volte, di cui cinque consecutive, due volte in più di Falcao: come si dice, quando l’allievo supera il maestro. «Bisogna lavorare, apprendere molto, avere anche fortuna, a tratti. Ma la cosa più importante è saper ascoltare, e apprendere. È una responsabilità bellissima: lavorano tutti per essere il migliore in qualcosa, no? E quando ci sono riuscito io, e mi chiedevano se sentissi pressione, ho sempre risposto che è la miglior cosa che potesse succedermi, un sogno. Quando stai vivendo il tuo sogno: come fai a sentire pressione? È un piacere. Il problema non è arrivare in cima: è rimanerci. Per quello serve determinazione, ambizione. E l’idea che non sei mai solo te, e che intorno ci sia un gruppo di persone, una squadra che ti aiuta. Da soli è impossibile».

La dimostrazione più cristallina di quanto ci sia bisogno di un collettivo che ti supporta, forse, Ricardinho l’ha data nel Mondiale del 2021, vinto con il suo Portogallo. Una storia che ricorda molto da vicino quella di Messi e dell’Argentina del 2022. «Sarebbe stato il mio ultimo Mondiale, stavo vivendo una situazione difficile in Francia [dove giocava nell’ACCS, vicino Parigi, e magari non è una casualità, ndr], era la mia ultima opportunità. Mi sono allenato bene, ma è soprattutto la squadra che mi ha dato tutto quello che poteva per farmi stare bene. E abbiamo raggiunto l’obiettivo tutti insieme».

Dopo quel Mondiale (e 187 presenze condite da 141 gol), dove in finale ha anche colpito un palo e servito un assist per Pany, Ricardinho ha lasciato la Nazionale. Lo ha in qualche modo sottolineato durante la cerimonia di consegna dei Quina de Ouro del 2022, una specie di Oscar del calcio portoghesi, quando ha detto «faccio un passo indietro cosicché le nuove generazioni possano raccogliere il testimone, e sono sicuro che sia la decisione più giusta». In quel momento, le telecamere sono andate a cercare, ovviamente, il volto di Cristiano Ronaldo, per il quale invece farsi da parte, allora come adesso, non è mai stata un’opzione.

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Al di là della contingente portoghesità, è sempre stato piuttosto semplice cercare un filo di congiunzione tra Ricardinho e Cristiano Ronaldo, di gran lunga le figure più rappresentative nel panorama calcistico (o calcettistico) lusitano dell’ultimo ventennio, capaci anzi di proiettare il movimento portoghese in cima al mondo. Che poi, più o meno, corrisponde in nuce ai tentativi di accostamento tra calcio a cinque e calcio a 11. Cristiano Ronaldo non ha mai negato il ruolo che il futsal abbia avuto nella sua crescita tecnica, nella capacità di controllo nello stretto: «se non fosse stato per il futsal non sarei mai stato il giocatore che sono oggi», ha dichiarato una volta. Ultimamente anche Richard Ríos, il dinamico mediano della Colombia, ha sottolineato la contiguità tra le due discipline più-che-cugine: «la maggior parte di ciò che faccio in campo viene dal futsal: quando controllo la palla accarezzandola, quando vado all’uno contro uno. Tutto il calcio è una successione, all’interno di una partita, di micropartite uno contro uno».

Questo legame ormai sdoganato è un po’ sfuggito di mano, però, se è vero che la FIFA, in una delle grafiche di presentazione del Mondiale che si sta tenendo in questi giorni in Uzbekistan, ha scomodato come uomini immagine Neymar, Xavi, Messi e Cristiano.

Ricardinho non l’ha presa troppo bene: «è inammissibile che dopo tanti anni di battaglia non siamo noi i protagonisti nella promozione del più grande evento di futsal mondiale». «Parliamo sempre della mancanza di idoli, ma se voi principali entità non siete in grado di mostrare i migliori interpreti del nostro sport chi pensate debba farlo?».

Quando chiedo a Ricardinho se il suo arrivo non rappresenti, per l’Italia, qualcosa di simile all’arrivo di Cristiano Ronaldo nel 2018 ha un sussulto. Mi dice «il fatto è che siamo due profili diversi. Io sono un giocatore che vuole il bene del suo sport: sono cosciente che tutte le luci siano puntate su di me, ma io vorrei che ne potessero beneficiare tutti. Ok il focus su di me, ma io vorrei che si parlasse di Napoli, di Catania, di Genzano. Del movimento. Che si conoscano i nomi degli altri giocatori, non solo il mio». Anche qua mi sembra di scorgere una sottile vena polemica.

Che tuttavia Ricardinho sia il pesce più grande dello stagno è incontrovertibile. Quando le squadre si presentano in campo, uno degli arbitri gli si inchina di fronte. Durante il saluto tra i giocatori è chiaro che tutti non vedano l’ora che di abbracciarlo, toccarlo, lambirlo.

L’AMB Frosinone, in campo, non ha granché voglia di fare la vittima sacrificale, e forse anche questa è una conseguenza della presenza di Ricardinho sul parquet – dove rimane per cinque minuti, a differenza delle voci che serpeggiavano prima della partita e lo vedevano fuori dalla gara.

È come se proprio per via della presenza in campo di Ricardinho, piuttosto, i ragazzi avversari siano più motivati, più ispirati, più eccitati dall’idea di fare bella figura. Ricardinho calcia un pallonetto di poco alto, prima di lasciare il campo, sostituito, proprio quando i ritmi stanno cominciando a farsi più indiavolati, non sempre necessariamente amichevoli: in fondo il campionato inizierà tra più di un mese, al termine di Mondiali, e c’è da preservare il tesoro dell’Ecocity.

Alla fine della partita, al centro del campo, tifosi, avversari, semplici curiosi si stringono intorno al dieci portoghese. Gli strappano una foto, un sorriso, una parola. Emanuele Izzo, un giovanissimo giocatore dell’AMB Frosinone, dinamico e pieno di garra, che della partita è stato il migliore in campo, gli si avvicina per chiedergli di scambiare la maglietta. È l’unico a farlo, ed è un bel segnale, un bell’autoriconoscimento, qualcosa del quale l’Italia del Calcio a 5 (Izzo è nell’Under 19) ha molto bisogno, dal momento che da otto anni non riesce a qualificarsi al Mondiale.

«Ricardinho finirà, un giorno», mi ha detto in chiusura del nostro incontro il numero dieci, parlando di se stesso in terza persona. «E il futsal non è mio: è stato di altri, ora ci sono io – che sono l’esca, l’abbocco – ma verrà qualcuno dopo di me. Io voglio solo essere funzionale alla crescita del movimento, e che se ne faccia profitto per crescere, per migliorare, e per raggiungere quello che è davvero il mio obiettivo, l’obiettivo di tutti: fare del futsal una disciplina olimpica».

Proprio mentre ci stiamo salutando gli ricordo che Cristiano Ronaldo non è ancora riuscito a replicare, come gli aveva promesso, quel gol di lambreta segnato anni fa in Giappone. Sorride, Ricardinho, e in quel sorriso ci leggo l’ennesima conferma che non ha alcun senso stare lì a fare i paragoni, a replicare l’uno le gesta dell’altro. Basterebbe semplicemente godersi l’unicità: ognuno è se stesso.

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