Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Ricominciare daccapo
13 giu 2024
13 giu 2024
Cosa significa ripartire da zero dopo che lo sport ti ha tolto tutto.
(copertina)
IMAGO / Werner Otto
(copertina) IMAGO / Werner Otto
Dark mode
(ON)

Tocca a me: accelero, isso l’asta, vado su. Nel momento di massima elevazione, a circa cinque metri da terra, una raffica di vento anomala mi prende e mi spinge via, sul limite del materasso d’atterraggio. Il busto atterra sul morbido, ma la parte sinistra della testa rimbalza come una palla da basket sul cemento.

Pam.

Pam.

Pam.

Buio.

Tutto quello che so del momento che mi ha cambiato la vita me l’hanno raccontato gli altri.

Ricordo solo che quel 31 marzo del 2017 ero arrivato a Modena da Torino, per il mio secondo raduno della Nazionale di salto con l’asta. Essere lì era già una sorpresa. Avevo partecipato a un primo raduno la settimana precedente: c’erano i tecnici della Nazionale, gli ero piaciuto. Avevo saltato 5,20 metri, e loro mi avevano detto che ero un buon candidato per far parte della squadra italiana alle Olimpiadi di Tokyo 2020, anche solo come riserva. Avevo vent’anni.

Le Olimpiadi: la gara più antica e importante del mondo, l’onore più grande per un atleta. «La prossima settimana lo rifacciamo, ci sei?», mi hanno chiesto. Come potevo dirgli di no?

In fondo, sono nel mondo del salto con l’asta solamente da un paio d’anni. Il mio grande amore era il decathlon, ma in Italia nessuno ti sostiene economicamente in quella disciplina. Dovevo prendere una decisione: ho scelto l’asta, per quell’idea di sfiorare il cielo con la punta dei piedi.

A Modena, insieme a me ci sono Riccardo, il mio allenatore, i tecnici e gli atleti della Nazionale. Ricordo poco del giorno dell’incidente, un meccanismo di difesa da parte del cervello: giusto qualche salto di riscaldamento nella calda luce di quel pomeriggio ventoso. Il resto è racconto.

L’unica differenza tra me e altri che hanno avuto un incidente simile (Schumacher, per esempio) è stata la prontezza dei soccorsi. Al mio cervello non è mai mancato l’ossigeno, e questo mi ha salvato. L’ambulanza era lì pronta, a venti metri. Mi ha portato d’urgenza in ospedale. Undici giorni di coma profondo, poi – per evitare choc epilettici – diciassette di coma indotto, durante il quale mi hanno aperto l’osso del cranio per liberare l’ematoma. Di lì ho cominciato, lentamente, a svegliarmi, ma ancora non ero cosciente. Ho passato altri due mesi in un limbo. E sognavo.

A volte rivivevo momenti della mia vita. Per esempio, la mia ultima gara di decathlon, in provincia di Bolzano: ho la caviglia leggermente distorta e fasciata, il salto in alto va male e la gara è in salita. Mi ritrovo a piangere in un angolo, isolato. Tocco il fondo, e da lì posso risalire: nell’evento successivo, i 400 metri, batto il mio record personale. Secondo mio padre, è questo atteggiamento che mi ha salvato la vita. Quando le cose vanno male, tocca rimboccarsi le maniche e ripartire.

Altre volte i sogni assomigliavano ad allucinazioni. Un giorno mi sembra di giocare come quando ero un bambino, a casa di mia nonna. In realtà sono in ospedale, accanto a mia madre. Nella mia testa confondo l’una con l’altra. Le dico: «Nonna, mi è venuto un gran mal di testa, vai a chiamare mamma, che mi porta all’ospedale? Non ce la faccio più». Mia madre esce dalla stanza, poi rientra. Allora la riconosco, mi dice: «Adesso andiamo all’ospedale».

Di ospedali ne ho girati parecchi. Il Baggiovara di Modena, le Molinette di Torino, infine l’Unità Spinale Unipolare sempre a Torino. Lì a metà giugno mi rimontano l’osso del cranio, e a luglio ricomincio a riprendere coscienza. Comincia una nuova vita.

Non sapevo né capivo niente. Non mi hanno raccontato subito dell’incidente. Il mio primo pensiero è stato: «L’appendicite? Di nuovo?». Pensavo di avere avuto uno di quei rarissimi casi in cui l’appendice operata ricresce, e bisogna tornare in ospedale. Mi dicono di andare dal logopedista, dal fisioterapista. Io non faccio domande, penso: «Però, ne hanno fatti di passi in avanti dall’ultima volta che mi hanno operato di appendicite». Ero lento nei movimenti e nei pensieri. Tre mesi fa spaccavo il mondo, oggi devo ricominciare daccapo.

Nell’ufficio della logopedista c’era qualche gioco, qualche puzzle. Mi elencano cinque parole, e io devo ripetere le ultime due. Riconosco le lettere, ma niente più. «Riesci a leggere quel cartello?», Riconosco la U, la S, la C, la I, la T, la A. Ok, ora si tratta di metterle assieme... Non riesco. Sento che mi sale il mal di testa. Ho un calo di pressione, sudo. Sbianco. Lei mi dice: «Se non riesci, non importa». Fino all’altro giorno, sognavo di andare alle Olimpiadi, e ora guardami.

La fisioterapia non andava tanto meglio, ma almeno lo spazio era bello. Le pareti erano tutte di vetro. Certo, davano sull’Ospedale CTO di Torino, la vista non era un granché, ma l’ambiente era familiare, simile a quello di una palestra: spalliere, lettini, cyclette, attrezzi. Non per questo era più facile. Un giorno – mi avevano trasferito all’Ospedale San Camillo, sempre a Torino – in un esercizio non riesco a coordinare la gamba destra, che è quella più svantaggiata dal colpo subito sul lato sinistro del cervello. Mi metto a piangere, mi lascio andare. «Questa botta mi ha rovinato la vita», dico.

A cinque mesi dall’incidente, dal San Camillo ho cominciato a tornare saltuariamente a casa. Mi sdraio di nuovo sul mio letto, realizzo il pericolo scampato: «È andata bene», mi dico. Non dura molto: penso subito che mi voglio riprendere tutto, voglio addirittura riprendere l’asta in mano. Torno a scuola per rimparare a leggere, al campo di allenamento per rimparare a camminare. Ma c’è una battaglia che non mi aspettavo di dover combattere: quella contro la solitudine.

In ospedale mi venivano a trovare in tanti, a Modena come a Torino. Venivano a vedere come stavo. Si felicitavano dei miei progressi. Poi, una volta tornato a casa, sono tutti spariti. Era come se avessero fatto il loro dovere. In pochi sono rimasti, e tra quelli ci sono i compagni di stanza in ospedale. Con Michael mi sento ancora: lui ha fatto un incidente in moto, ha battuto la testa contro le rotaie del treno. Gli sono usciti gli occhi dalle orbite. Ha qualche problema di vista, ma ora ha anche preso la patente. Certe persone sono un esempio.

Ci sono problemi anche con gli estranei. Professori dell’università, per esempio: sono iscritto al SUISM, vorrei diventare allenatore. Con la mia invalidità ho diritto a certi vantaggi durante gli esami, orali più lunghi, nessun esame a crocette. Tutti ti dicono di sì, ma poi una volta all’esame ti mettono fretta. Io uso sempre una metafora: in quella parte del mio cervello, dove prima c’erano tre corsie, ne è rimasta soltanto una. Lavori in corso permanenti. Gli impulsi elettrici si devono mettere in coda, quindi ci metto un po’ più di tempo. Un giorno, all’università, ci è stato chiesto di presentarci in un minuto. Mi sono buttato e mi sono offerto volontario per primo. Certo, ora parlo più lentamente di prima e ci ho messo sicuramente più del tempo concordato. Hanno dovuto interrompermi, ma la sala si è messa ad applaudirmi. Verso il fondo ho visto anche qualche occhio lucido. Quando poi è stato chiesto quale presentazione avesse toccato il pubblico, un ragazzo ha alzato la mano e ha detto: «Jacopo è quello che mi ha fatto sentire un’emozione».

Sono queste le soddisfazioni che raccolgo, ora. È per questo che voglio raccontare la mia storia, se può essere d’aiuto. Per dare forza morale, per insegnare che persino da tutto questo si può tornare, figuriamoci dalle piccole cose che di solito ci capitano. L’ho imparato io per primo, l’ho visto attorno a me. C’era un ragazzo in fisioterapia. L’ho aiutato con la pulley machine - una macchina che aiuta ad allenare i muscoli della schiena. Lui mi ha raccontato le sue vicende: tibia, rotula, malleolo spappolati tra un camion e una macchina. «Be’, adesso abbiamo due storie da raccontare. Finché possiamo raccontarle, va bene», gli ho detto.

Che non bisogna mai abbattersi l’ho imparato anche al mio ritorno alle gare, ai Campionati italiani indoor per disabili ad Ancona. Riccardo me l’aveva proposto appena un paio di mesi dopo essere tornato definitivamente a casa. «Ci sarebbe una gara da fare, ti va?», mi chiede. Ho risposto subito: «Sì, buttiamoci». Sapevo di voler tornare a gareggiare, prima o poi. Volevo tornare a spaccare il mondo. Ho dovuto iscrivermi a una società di Novara per farlo, perché la mia – a Torino - non aveva l’autorizzazione a partecipare a competizioni per disabili.

Arrivo all’impianto con Massimo Giandinoto, che ha una protesi alla gamba, e Farhan Hadafo, ragazzo in carrozzina ed ex Nazionale italiano alle Paralimpiadi. Una volta arrivato al campo, vedo di tutto: persone con sindrome di Down, persone sorde, persone senza uno o entrambi gli arti inferiori. Ridono, scherzano, e dentro di me penso che la loro forza può diventare la mia. A meno di un anno dall’infortunio, vinco la medaglia d’oro sia nei 60 metri che nei 200, nella categoria T38 – quella delle cerebrolesioni moderate. Un ex compagno ha fatto i video delle due gare. Mentre filmava si è messo a piangere. Ho stabilito nuovi record italiani per la categoria in entrambe le distanze. Vincere è bello, ne vuoi sempre di più. Ma ancora più che vincere, oggi mi interessa migliorare.

Io sono di coccio, ci metto la forza di volontà e a ventisette anni – sette dopo l’incidente - l’età ti aiuta. Non è sempre facile. In più occasioni mi sono sentito sull’orlo della depressione. Pensi alle cose che non puoi fare più. Pensi al futuro, al passato. Pensi alla vita di prima, anche se sai che ti fa stare solo peggio. Senti una grande stanchezza, e ti chiedi chi te lo fa fare, di sopportare questa fatica costante, questo continuo disagio. Avresti potuto stare sottoterra, molte cose si sarebbero risolte. Sono andato anche dalla psicologa, volevo parlarne con qualcuno che non mi conoscesse affatto. La mamma mi ha tenuto in grembo da sempre, mi conosce meglio di me stesso. Ma io dovevo ricominciare a vivere nel mondo: camminare, leggere, scrivere, pensare, ragionare logicamente. Ora va meglio. Per esempio il gusto e l’olfatto hanno perso intensità, ma ho ricominciato a leggere i miei fantasy, a vivere una vita più o meno autonoma.

A socializzare, per esempio, nei primi secondi ho ancora paura. Ogni tanto, in università, vedo un gruppo di ragazzi, tutti attaccati al cellulare: io vorrei inserirmi, parlare, interagire. Non è facile, ma ne ho bisogno. Ho continuamente bisogno di stimoli. Ricordate la metafora dell’autostrada? Ecco, dove c’è la strettezza, ogni volta che mi sforzo, io sento un formicolio. Piano piano, in questi sette anni, il solletico è diminuito. Lo sentirò per sempre, è scientifico, ma mi aiuta: vuol dire che sto lavorando. Sono ossessionato dagli stimoli, ne voglio continuamente di nuovi. Mettersi sempre alla prova costa anche sacrifici: ho per esempio abbandonato l’atletica e la lotta alla gravità, per passare al nuoto e alla battaglia con l’attrito.

Non credo che tornerò mai come prima, ma proverò sempre a migliorarmi. Non posso farci niente, il danno ormai è fatto e finito. Ma un senso a tutto questo ancora non glielo so dare. Qualcuno che ci crede potrebbe dire che è stato il destino, io non so a cosa credere. Avevo le mie buone intenzioni. A quanto pare, non era quella la via che dovevo percorrere. Certo, bastava anche un altro segnale per farmelo capire.

La strada è ancora lunga, ma ho tante ispirazioni. Ai campionati di Ancona c’era un ragazzo senza un arto che chiedeva a un cieco: «Mi passi la gamba?». Se ci ridono su loro, di che mi lamento io?

Michael, nonostante quello che gli è successo agli occhi, la patente se l’è presa. Io non ancora. Poche settimane prima dell'incidente ho fallito la prova teorica. Avrei dovuto riprovare un mese dopo, ma in quel momento ero impegnato a sognare.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura