Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Altre riflessioni di un osservatore la domenica pomeriggio
11 ott 2024
11 ott 2024
Alessandro Gazzi torna a vedere il Torino Under 16.
Dark mode
(ON)

Domenica 29 settembre, cielo nuvoloso, 19°C.

1.

È interessante notare il comportamento di Caporale quando riceve la gomitata dell’ingenuo Lella. Siamo all’inizio del secondo tempo di un Bari-Cosenza che vede in vantaggio i padroni di casa con rete di testa di Pucino. In area di rigore avversaria il centrocampista barese rifila un colpo allo sterno del difensore cosentino con palla ed azione che si svolgono altrove. E Caporale cosa fa? Prima di accasciarsi, i-stin-ti-va-men-te si mette le mani sul volto. Istintivamente. È una frazione di secondo che espone il calciatore ad una inutile brutta figura. Poi si accascia al suolo, toccandosi, questa volta si, dove ha ricevuto il colpo. Lella viene espulso.

Ho appena concluso di ricopiare un breve testo, essenziale, che cerca di entrare nella testa di un bambino che tira i primi calci ad un pallone.

Io e il pallone. Il pallone. Rotola. Io tiro il pallone. Gira. Io tiro il pallone con il sinistro. Tocco il pallone. Tiro il pallone. Vado a prendere il pallone. Tiro il pallone. Il pallone va dove lo tiro. Prendo il pallone. Lo tiro. Il pallone va dove lo tiro. È bello tirare calci al pallone. Se calcio forte, il pallone va forte. Se calcio piano, il pallone va piano. Se calcio forte il pallone sul muro, il pallone ritorna forte. Se lo calcio piano, il pallone torna piano. Se lo calcio piano piano, il pallone si ferma sulla strada. Se il pallone lo calcio piano e si ferma sulla strada devo andare a prenderlo. Se il pallone lo calcio troppo forte devo prepararmi per prenderlo. Se il pallone lo calcio troppo forte e non sono preparato, devo correre. Se il pallone lo calcio troppo forte e non miro bene sul muro e non sono preparato, il pallone andrà giù nella valle. Devo stare attento a non tirare troppo forte il pallone.

Mi piace tirare il pallone.

Il risultato provvisorio di Roma-Venezia quando sto per spegnere il portatile è di 0 a 1, gol di Pohjanpalo. Nella gara su strada dei Mondiali di ciclismo di Zurigo invece Tadej Pogacar è in fuga e mancano ancora 55 km. Se "il bimbo" riesce nell’impresa non ne sarei nemmeno tanto sorpreso. Farebbe un altro, l’ennesimo capolavoro. Ma adesso mi accingo a uscire di casa per andare a vedere Torino-Sassuolo, categoria Under 16. Ci ho preso gusto.

2.

Leggere continua a salvarmi. Ogni giorno. Io continuo a perdermi. Ogni volta che vedo il grattacielo e mi avvicino - questa volta ascoltando Waiting to hit dei LTE- mentre il luccichio delle vetrate scheggia i miei occhi e i lampi impercettibili stimolano la mia retina, sento dentro, da qualche parte, bussare al locale situato al quattordicesimo piano della mia immaginazione. Lì, tra un drink basale e un uomo seduto in fronte a me blatero, bofonchio parole, sputo verità non acclarate sulla vita da calciatore. L’ambiente sembra confortevole, c’è musica jazz nell’aria, qualcuno sta suonando. In quella sorta di piano bar esclusivo proietto il mix di poche ed isolate letture che uniscono Camus, Saramago, i flash visivi di pellicole hollywoodiane dal gusto classico e l’esperienza sui campi di gioco della metropoli pallonara. Il ristorante stellato – questo esiste realmente – si trova invece al 27esimo piano dell’edificio e da lì, oltre a gustare dei piatti deliziosi, si può ammirare una vista splendida del capoluogo torinese. Mi è capitato di salire fin lassù con mia moglie per una cena a due e di passeggiare su tutti i lati del locale. La vista notturna è sublime: si possono apprezzare la geometria dei vari quartieri, la Mole, le colline oltre il Po, la basilica di Superga. Un conglomerato luminoso che sfarfalla pensieri, come oggi. Musica, luccichio, piano bar.

Ma è tempo di ragionare sulla partita che andrò a vedere questo pomeriggio. Incrocio due ragazzi, proprio sotto il grattacielo: uno ha una maglia biancoceleste con scritto Deportivo, l’altro un pallone tra i piedi e uno smartphone tra le mani. La realtà, dopotutto, è molto più interessante.

Essendo in ritardo e camminando a passo spedito, intercetto solo qualche istantanea isolata sulla strada verso l’impianto sportivo. Un cane che caga. Il disegno di un sole fatto da un bambino con un gesso sulla strada. Un ragazzo e una ragazza che tentano, sul prato, di articolare i loro corpi in una acrobazia dinamica simile alla catapulta infernale dei gemelli Derrick. Mentre nelle mie cuffie imperversano saturazioni sonore, feedback e declamazioni sussurrate. I Lift to Experience, che sto ascoltando da due giorni tra passeggiate e navette in automobile per portare mia figlia agli allenamenti di ginnastica, sono stati un gruppo rock e hanno inciso un album monumentale, The Texas Jerusalem Crossroads che, in parole povere, avvicina uno shoegaze robusto alle distese texane, avvertendoci di un’apocalisse imminente e aprendo squarci a delicatezze sonore abbaglianti. Lo chiamano christian-rock, giusto per appiccicargli un’etichetta. Basta ascoltare il primo brano dell’album Just as was told, sintesi totale del disco in toto. This is the story of three Texas boys, canta il leader Josh T. Perarson. Quando salivo sul pullman, nel tragitto verso lo stadio, mi è capitato di sentire spesso questo brano per caricarmi prima della partita.

3.

Otto euro il costo del biglietto ma questa volta è compresa la distinta della partita. Mentre le squadre entrano in campo, Silvano Benedetti, per anni responsabile del settore giovanile granata, discute con due dirigenti delle giovanili del Torino. Comincia a descrivere ai due dirigenti cosa significhi uscire la domenica pomeriggio per andare a vedere, spensieratamente, una partita di calcio giovanile. Sapete, per chi è professionista e guarda le partite con l’occhio sui ragazzi e sugli aspetti da tenere in considerazione, la tattica, la tecnica e via dicendo, andare a vedere una partita senza quell’impegno, be', significa rilassarsi e gustarsi lo spettacolo per quello che è.

In effetti, due settimane fa, quando venni per la prima di campionato della squadra di mister Vegliato, quasi inconsapevolmente avevo allentato tutti quei vincoli mentali dettati dalla mia professione e insiti nel mio modo di osservare le partite e mi ero divertito in maniera insolita. Era probabilmente la prima volta che mi capitava. Forse perché pensavo anche a quello che avrei scritto, o forse perché la mente era più libera di svagare tra uno stimolo e l’altro, era più che percepibile il fatto che guardare la partita in maniera quasi disinteressata e senza focalizzarsi su qualche aspetto in particolare aveva un sapore diverso. Certo, l'attenzione visiva del professionista era sempre latente ma almeno avevo sciolto quelle forzature mentali a cui ero abituato. Ci ho preso gusto, in tutti i sensi.

Bastano pochi secondi per visualizzare i due moduli contrapposti. Quel 3-4-3 contro il 4-3-3 con i vari riferimenti tattici perlopiù identici a quelli di Bologna-Atalanta giocata ieri sera, e altrettanti pochi secondi per lasciare l’attenzione libera di posarsi dove più le pare e piace. C’è un uomo, ad esempio, che a una decina di metri mastica un chewing-um nervosamente.

Torino: 3-4-2-1. Chinellato; Costantino, Pierro, Savant Ros; Cai, Mukerjee, Scibilia, Antonelli; Di Rienzo, Colantoni, Marangon.

Allenatore: Vegliato.

Sassuolo: 4-3-3. Bini; Di Nucuolo, Danesin, Yara, Pacchioli; Likaj, Fabbri, Lanese; Compagnone, Da Silva, Cavazzi.

Allenatore: Vecchi.

Un altro genitore, nel momento in cui il difensore centrale (il figlio?) è senza pressione e libero di guardarsi attorno, scegliere dove indirizzare il gioco, consiglia ad alta voce di aprire di qua, sotto la tribuna, dove in realtà di spazio per giocare a mio modesto parere ce n’è poco. Il difensore centrale che non sente, o forse sì, effettua un lancio di là, dove c’ è maggiore spazio per giocare. Osservando le tribune è chiara la maggiore affluenza di pubblico rispetto a due settimane fa, con un piccolo gruppetto di incitatori granata che spesso urla: Tò-ro-Tò-ro-Tò-ro. Lo spettacolo sul campo, sebbene la partita sia abbastanza bloccata, sta nei duelli individuali e in transizioni senza padrone, in qualche contrasto ruvido ma regolamentare. O nell’utilizzo ancora acerbo degli arti superiori da parte dei difendenti, nei continui ripiegamenti del collo del terzino sinistro del Sassuolo, che con palla ai difensori del Torino, osserva prima là, verso la palla, e poi di qua, verso l’esterno di fascia destra rimasto alto; prima là, verso la palla e poi di qua, verso l’esterno alto.

A quel punto scatta la riflessione sulle abilità nel fingere una cosa per farne un’altra: senza muovere il collo o muovendolo con meno enfasi è possibile ingannare l’avversario sulle reali intenzioni che si vogliono applicare. E a quel punto una nuova strampalata riflessione: l’allenamento dei muscoli oculari estrinseci per una maggiore efficacia nella visione periferica del campo. Ci si potrebbe scrivere un inutile paper da rintracciare poi su Google Scholar. Cazzate sbrindellate, dopotutto. L’arbitro si allaccia gli scarpini. Il match analyst granata è inchiodato con tutto se stesso allo schermo del tablet e lo muove nella direzione dove si sviluppa il gioco.

È trascorso un quarto d’ora ma la voglia che hanno le due squadre si sente. I ventidue sembrano aver rotto il ghiaccio, c’è più, chiamiamola, spavalderia e più libertà mentale nel fare le cose. Qualche dribbling, qualche passaggio sbagliato. Diversi lanci. E i ritmi sono alti.

La scomodità del seggiolino si ripresenta anche in questa occasione: non riesco a capire se l’ideale sia rimanere eretti per novanta minuti o appoggiarsi allo schienale. Capisco che trovare una postura comoda assomiglia molto a prendere le misure su un campo quando ti ritrovi nel mezzo e devi fare i conti con repentini cambi di fronte cercando di dare equilibrio alla squadra. O ancora, come quando sei lì in mezzo che cerchi di farti dare la palla ma per un motivo non riesci a riceverla perché, come si dice in televisione, non hai ancora trovato la posizione giusta. Trenta minuti a duemila, divertenti nonostante nessuna chiara occasione da gol. Poi, d’un tratto, il ritmo si quieta. E lo si vede nel momento in cui i difensori granata, che fino ad ora hanno avuto in mano il gioco, osservano la staticità delle tre punte neroverdi strette e pronte a reagire a qualsiasi filtrante, mantenendo il pallone fra i piedi. Piatto, suola, suola. Orientano il gioco, ritornano sui loro passi. Tintinnano con le scelte, valutano, intuiscono pertugi ma attendono ancora. Cose che vent’anni fa erano impensabili in serie A, come ad esempio il tocco di suola, ora vengono sfoderate abitualmente da ragazzini delle categorie minori. E questo piacevole cincischiare con il pallone tra i piedi per qualche secondo, dà modo agli spettatori di ossigenare i trenta minuti precedenti.

Sì, è una partita dai contenuti agonistici maggiori rispetto a Torino-Modena. E il fair play, anche in questo match, è lampante. Non una simulazione, non un fallo cattivo. Nulla. Solo spirito innocente del gioco. O quasi. Giusto qualche screzio fisiologico, quasi innocente. E poi l’unica occasione del primo tempo. Un colpo di testa facile facile da dentro l’area di porta indirizzato proprio nei guantoni del portiere del Sassuolo. Peccato.

In Serie A ho visto di peggio.

4.

Dalle sconfitte bisogna rialzarsi con più forza. Solo per dire una frase. Così, a caso.

5.

Il secondo tempo è la copia schiantata del primo. Solo con più acido lattico nelle gambe, qualche cambio e forza fresca in più, e una percettibile predominanza dei padroni di casa. Che cercano di bucare i neroverdi, ma non ci riescono. È il tempo in questo caso che sembra rallentare, sfasarsi, così come i pensieri e le idee, gli sbuffi di qualche presente e il tifo di ragazzine dalla voce acuta. Mentre l’equilibrio ristagna più di qua che di là si riaffaccia tra le argomentazioni interne un colloquio con un dirigente che ha avuto modo di lavorare nelle giovanili di società professionistiche e al quale rimarcavo un concetto che cozza con il sentito dire. Quello del focus sulla prestazione e non sul risultato. Il far crescere i giovani, non dare importanza al risultato, la crescita, i giovani, l’importanza degli errori. Discorsi sentiti dieci, cento, mille volte. Triti e ritriti. E con i quali sono d’accordo. A metà. Credo sia ora di e-qui-li-bra-re questi pensieri astratti che contrastano tra loro e che equivalgono alle due facce della stessa medaglia. Certo, è innegabile che un ragazzino abbia bisogno di sbagliare, di crescere e di non pensare al risultato. Ma allo stesso tempo è altrettanto inevitabile che il gioco del calcio in sé presuppone un obiettivo tangibile che è la vittoria della partita. Quindi faccio fatica a immaginare una crescita della prestazione senza considerare il risultato. Soprattutto in un contesto culturalmente imperniato sul successo personale e sui risultati tangibili da raggiungere. È “matematicamente” impossibile non tenere in considerazione questo aspetto. C’è bisogno del risultato e c’è bisogno della prestazione. L’allenatore competente è colui che sa mantenersi in equilibrio tra queste due cose.

C’è bisogno di equilibrio. Equilibrio.

Come quello che stanno mettendo i due centrocampisti centrali del Toro, Scibilia e Mukerjee, bravi a smistare e a verticalizzare in quella costante dialettica di coppia necessaria alla squadra. Il primo, che ha origini marchigiane, è fisicamente strutturato e ha le movenze di un Rodri più compassato. Oltre a difendere con padronanza il pallone dagli avversari tenendoli a debita distanza spesso e volentieri si incunea in area per andare a concludere l’azione. È il capitano della squadra e fino adesso, senza far vedere chissà quali particolari talenti palla al piede, è anche il migliore in campo. Intanto il Sassuolo si schianta 3-5-2 e a meno di episodi clamorosi, giungo alla conclusione che la partita potrebbe seriamente concludersi con uno zero a zero.

È lo sguardo di Cai, il terzino del Toro, a segnalare crampi imminenti. La sua smorfia sembra contrarre tutti i muscoli del volto, il respiro è affannoso e il rossore che cola sudore promette un carico extra di acido lattico. Le fibre muscolari probabilmente stanno già reclamando riposo, cosa che non avviene nell’immediato. Ed infatti, qualche minuto dopo, lo si ritrova sotto la tribuna, sdraiato a terra e mani sul volto, con due compagni che gli tengono entrambe le gambe all’aria. Il ragazzo è sfinito. A meno che tu non abbia cronometrato l’evento e lo tenga costantemente sotto controllo, quando guardi la partita e sbrindelli il pensiero a destra e a manca c’è un momento nel quale ti senti temporalmente disorientato.

Mancano pochi minuti, quelli sì, ma quanti? Cinque? Dieci? Nella concitazione generale – adesso sono giunti con tamburo, bandiere e birre i tifosi del Comala, locale a pochi metri da quest’impianto vestiti con delle tute che ricordano molto l’Aston Villa – nella frenetica e aritmica palpitazione degli ultimi minuti, dove saltano schemi ed esplodono pensieri soffocati dall’attesa del triplice fischio che vuoi e che non vuoi che giunga, diventi letteralmente preda della staticità del momento che ti inchioda fisso al tuo scomodissimo seggiolino e a quella confusione generalizzata che vedi in fronte a te, dall’altra parte del campo, dove le due panchine, ordinatissime fino al decimo del secondo tempo sembrano diventate un appoggio temporaneo che accoglie persone dagli stati emotivi sconnessi. Ci pensa Beppe, il dirigente addetto ad alzare il tempo di recupero. Tre minuti.

È proprio all’ultimo secondo, l’ultimo, che il Torino sviluppa un’azione rapida sulla sinistra, parte questo cross basso che sfila via su tutta l’area. E lì, a pochi metri dalla porta, che qualcuno del Toro che veramente non riesco a riconoscere e che aveva seguito l’azione, non ci arriva per un niente. L’arbitro, a quel punto, fischia la fine della partita. Zero a Zero.

6.

La Roma ha vinto 2 a 1, Tadej Pogacar è campione del mondo e Claudio Marchisio sfila via dalla tribuna. Alcune ragazzine dicono che è proprio bellissimo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura