“Rimani Joaquin, che le notti senza di te sono dolorose”. Il ritornello della popolarissima canzone del rapper spagnolo Quevedo sembra scritto apposta dai tifosi del Betis per questo momento che speravano non sarebbe mai arrivato, un disperato tentativo di convincere il proprio capitano a non abbandonare la nave biancoverde dopo 18 stagioni (giovanili incluse) e due Coppe del Re conquistate, l’ultima la scorsa stagione. D'altra parte, proprio il testo di Quedate è stato reinterpretato dai tifosi del Betis dopo la vittoria della Copa del Rey del 2022, diventando una sorta di secondo inno del club che da diversi mesi viene spesso riproposto prima delle partite in notturna e cantato da tutto lo stadio Benito Villamarin in un clima che fa venire la pelle d’oca.
La notizia del ritiro di Joaquin Sanchez Rodriguez, in qualche modo, mi ha toccato anche personalmente: sarà che esattamente un anno fa, proprio il 6 giugno, stavo comprando la sua maglia numero 17 durante un viaggio a Siviglia, oppure che l’andaluso, nonostante una carriera piuttosto modesta a livello di trofei, rappresenti per la mia generazione uno di quei giocatori di vero e proprio culto, alimentato anche dal leggendario videogioco per playstation Pro Evolution Soccer, per gli amici PES, in particolare le edizioni tra il 2006 e il 2009. Joaquin fa parte di quel ristretto gruppo di giocatori di fascia che andavano al doppio di tutti gli altri, anche con il pallone coi piedi: alzi la mano chi non ha mai preso quel diabolico Valencia solamente per scatenare il cavallo Joaquin col paraocchi dritto per dritto lungo la linea laterale, alternando infine a seconda del gusto estetico un facile appoggio con il comando X per costruire il più infame dei gol oppure un più ricercato rientro e tiro in porta.
Il primo ricordo del Joaquin reale appartiene invece ad un mondo della pay per view ancestrale, dove Stream e Tele+ ancora si contendevano le poche partite dei campionati esteri distribuendole col contagocce, e le gesta dei calciatori stranieri venivano tramandate oralmente o attraverso le sparute apparizioni nelle coppe europee. In questo contesto, nel Betis che nei primi anni duemila inizia ad affacciarsi tra Coppa UEFA e Champions League, spiccava la temibile coppia di ali classiche Joaquin - Denilson, che a suon di dribbling, doppi passi e sterzate provocavano con cadenza settimanale la labirintite a tutti i terzini di Spagna. Con quel Betis un giovane Joaquin conquista nel 2005 il suo primo trofeo, la Copa del Rey, non sapendo che il destino lo legherà indissolubilmente a quella e solo a quella coppa, nel bene e nel male, per tutta la sua carriera.
In quegli anni Joaquin è indiscutibilmente uno dei talenti più fulgidi del calcio spagnolo, per il quale si prospetta un futuro radioso in nazionale e in una big spagnola o europea. È in questo momento però che un mix di scelte discutibili, incomprensioni personali e cambiamenti radicali del contesto tattico attorno a lui ne influenzano la carriera in maniera irreversibile.
Nel 2004 rifiuta nientemeno che il Chelsea di Josè Mourinho, uno che sulle ali d’attacco - in quegli anni Robben e Duff - ha costruito le sue fortune e che all’epoca volò personalmente a Siviglia per convincere il giocatore. Anni dopo Joaquin ha ricordato quel momento dando le sue motivazioni. «Il Chelsea e Mourinho mi volevano, ma ho detto di no perchè alle tre del pomeriggio a Londra è già notte. E quella non è vita. Io sono sempre stato abituato al sole, a bere una birretta, all’ambiente caldo. Andare a Londra avrebbe significato cambiare vita e sarebbe stato complicato, perché ero in un momento particolare, in cui avevo già tutto quello che volevo: a 20 anni ero già Joaquin del Betis e avevo un ruolo importante nel club».
Questo aneddoto ci racconta molto del Joaquin persona, rivelandone sin dalla giovane età l’attitudine guascona e l’attenzione speciale per l’ambiente che lo circonda e il contesto sociale. Una figura che esce dai canoni rigidi a cui ci hanno abituato i calciatori, più vicina a uno studente universitario in procinto di andare in Erasmus, che sceglie la sua futura destinazione soprattutto in base a fattori come il clima e la possibilità di stare bene con sé stesso e con gli altri.
Nel 2006 Joaquin decide di accasarsi al Valencia, squadra entrata nell'alta nobiltà spagnola dopo i fasti dell’era Benitez. Ma le cose non andranno come previsto, "i pipistrelli" hanno ormai alle spalle il loro periodo d'oro da un punto di vista sportivo e finanziario. Nonostante una permanenza di 5 anni e diverse partecipazioni alla Champions League, con il Valencia riesce ad alzare un solo trofeo, nel 2008. Un'altra volta la Coppa del Re.
Di quel periodo, oltre all'aver sbagliato il salto in una grande, rimane anche il rimpianto, forse ancora più grande, di essere stato tagliato fuori dalla Nazionale proprio all’alba del periodo più vincente della sua storia, il quadriennio d’oro 2008 - 2012 in cui la Spagna ha vinto due Europei e un Mondiale. Allora si parla di incomprensioni e tensioni con l’allora CT Luis Aragones proprio alla vigilia delle convocazioni per Euro 2008, ma forse era proprio il carattere giocoso di Joaquin a non avergli permesso di competere con la generazione di talento più fulgida di tutta la storia del calcio spagnolo. Joaquin in quegli anni è quindi costretto a guardare da casa i compagni della sua dorata generazione alzare trofei con cadenza biennale. Il ricordo più vivido ed impietoso della carriera dell’andaluso con la Spagna rimane quindi il rigore decisivo sbagliato al Mondiale del 2002 nel controverso quarto di finale contro la Corea del Sud e la conseguente eliminazione dal torneo.
Anche le ultime due esperienze lontano da casa, rispettivamente all’ambizioso Malaga dello sceicco Al Thani e alla Fiorentina allenata da Vincenzo Montella, regalano poche gioie all’esterno andaluso e confermano la maledizione che si manifesta puntualmente in qualunque competizione che non sia l’amica Coppa del Re. Con il Malaga sfiora una sorprendente semifinale di Champions League nel 2013, arrendendosi al Borussia Dortmund di Lewandowski solo al 94esimo minuto di un quarto di finale di ritorno tanto pazzo quanto contestato, nel quale ad aprire le danze è proprio un suo gol da fuori area. Con la Fiorentina invece va ancora più vicino a vincere l’equivalente dell’amata coppa nazionale, giocando da titolare la finale di Coppa Italia del 2014, sfumata anch’essa stavolta per mano del Napoli.
A Firenze, però, lo spagnolo conferma un’attitudine naturale ad essere benvoluto ovunque vada: nonostante la breve esperienze in viola, durata solo due anni, Joaquin infatti fa breccia nel cuore dei tifosi gigliati, che lo adottano a loro beniamino (il suo nome verrà affettuosamente fiorentinizzato in “Gioacchino” ) e che ancora oggi associano il suo nome ad uno dei ricordi più dolci di quelle due stagioni. Nel clamoroso 4 a 2 al fortino pressoché inespugnabile che era la Juventus di Antonio Conte del 2013, quello della leggendaria tripletta di Pepito Rossi, il gol del 3 a 2 in rimonta che manda in estasi totale l’Artemio Franchi è infatti opera sua.
Nel 2015 Joaquin torna finalmente a Siviglia, dove a 34 anni ci si immagina legittimamente un cameo finale nel suo Betis prima del ritiro. Invece l’aria di casa gli dona una seconda giovinezza, permettendogli di giocare da capitano per altri otto anni con una condizione atletica per certi versi stupefacente, unita ad una maturità calcistica elevatissima che lo rende il leader assoluto della squadra, in campo e fuori.
Alla fine della scorsa stagione, il momento più importante della sua carriera e forse anche l'apice che lo convince finalmente a dire basta. Il 23 aprile del 2022 vince di nuovo la Coppa del Re a quasi vent'anni esatti dal rigore sbagliato al Mondiale di Corea e Giappone, e la vince soprattutto con il suo Betis. Anche in questo caso il destino gioca con il suo passato, recapitandogli in finale proprio il Valencia, la squadra con cui aveva alzato l’ultima coppa nel lontano 2008. La partita è tirata e finisce ai rigori, ma questa volta il capitano ha sufficiente esperienza e tranquillità per realizzare il suo. Il Betis, dopo 17 anni, rivince la coppa. Nel minuto di intervista post gara c’è tutto Joaquin: nonostante visibilmente trasfigurato dalla tensione e svuotato di qualunque energia nervosa, il capitano alleggerisce il clima con battute continue, riuscendo perfino ad ironizzare sul proprio rigore, paragonandolo a quello infausto con la Nazionale.
Nonostante l'eliminazione nelle fasi ad eliminazione di quest'anno, lo spirito della Coppa del Re ha voluto accompagnare dolcemente Joaquin nelle sue ultime settimane da calciatore, quasi a volersi congedare degnamente. Un mese fa lo stesso andaluso, in occasione della finale di quest’anno tra Osasuna e Real Madrid - giocata curiosamente nel terzo stadio di Siviglia, la Cartuja - è stato designato per portare in campo il trofeo in un ideale passaggio di consegne. E se vogliamo trovare un'altra coincidenza, l'ultima partita della sua vita, il 4 giugno scorso, è stata proprio contro il Valencia. Una partita che ha avuto anche un valore statistico non da poco, dato che ha permesso a Joaquin di raggiungere un traguardo storico, eguagliando un’altra leggenda del calcio spagnolo, il portiere basco Andoni Zubizarreta, come giocatore con più presenze nella storia della Liga.
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Joaquín è il marchio a fuoco che ha suggellato a distanza di 17 anni il rapporto privilegiato tra il Betis e la Copa del Rey, un trinomio indissolubile di cui il popolo betico è fiero e geloso, qualcosa di solamente loro. Questo esclusivo senso di appartenenza si inserisce nel contesto di rivalità storica con l'altra squadra della città, il Siviglia, che negli ultimi anni ha invece legato il proprio nome a doppio filo con un'altra coppa più prestigiosa, in modo a tratti mistico e difficilmente spiegabile razionalmente.
La stessa città di Siviglia, d'altra parte, trasuda questa rivalità. Non serve neppure uscire dall’aeroporto per rendersi conto di quanto possa essere frustrante essere tifosi del Betis, con la porta automatica degli arrivi su cui campeggia una foto dell’altra leggenda cittadina, il capitano del Siviglia Jesus Navas, mentre solleva una delle 7 Europa League conquistate. Sotto la scritta: Bienvenidos a Sevilla.
In un certo senso Navas rappresenta, in un multiverso alla Everything Everywhere All at Once, tutto ciò che Joaquin sarebbe potuto essere se i bivi del destino fossero stati più clementi: anch’egli andaluso di nascita e legato ai blanquirrojos praticamente da quando è nato, anch’egli dopo un’esperienza lontano da casa è tornato nella sua Siviglia, per restarvi. Anch’egli a distanza di più di 15 anni è riuscito a rialzare lo stesso trofeo da capitano nella seconda esperienza con la squadra della sua vita, in questo caso l'Europa League del 2020 (quella dell’anno del Covid strappata in rimonta all’Inter di Conte), che si aggiunge alle due Coppe UEFA conquistate consecutivamente nel 2006 e 2007.
La vera sliding door tra le due carriere forse è da ricercare di nuovo in Nazionale: mentre Joaquin rimane fuori dalla Spagna pigliatutto che tra il 2008 e il 2012 cannibalizza ogni edizione internazionale a cui prende parte, Jesus Navas riesce a ritagliarsi un posto - seppur da comprimario - e può quindi fregiarsi di un Europeo e un Mondiale. Chissà forse è per questo, o forse è per la rigida etica del lavoro da terzino che sembra emanare Navas, che è arrivata la chiamata del Manchester City, con cui vincerà una Premier League e due Coppe di Lega. I due capitani si sono affrontati l’ultima volta nell’ultimo Gran Derbi di Siviglia, tenutosi il 21 maggio scorso al Ramon Sanchez Pizjuan, entrambi curiosamente entrati a una manciata di secondi dalla fine quasi per offrire al pubblico un saluto contrastante: Joaquin fischiato, Navas acclamato come sempre con la formula spesso usata dai tifosi spagnoli per i loro beniamini, inchinandosi e ripetendo a gran voce il loro nome.
Anche in città la musica non cambia. La conformazione geografica di Siviglia conferma in modo brutale questa dicotomia tra le due squadre, ma soprattutto tra due modi di vivere la città e di aprirsi al mondo: il maestoso fiume Guadalquivir taglia come un lama la parte nobile di Siviglia, quella della cattedrale, del palazzo Reale, di piazza di Spagna e della movida turistica, dal quartiere di Triana, detto anche il quartiere gitano, più popolare e caratteristico, in qualche modo anche più schivo e geloso della propria identità. Calle Betis è incastonata proprio qui, al centro di Triana: è impossibile non accorgersene, praticamente qualunque elemento visibile dalla strada è colorato di bianco e verde, e gli stemmi della squadra campeggiano fieri su serrande e azulejos.
È dentro questa parte della città che la carriera di Joaquin non verrà mai dimenticata, nonostante un percorso che, a vedere solo Wikipedia, sembrerebbe quasi da dimenticare. Sicuramente negli anni a venire il nome di Joaquin scomparirà lentamente dagli almanacchi, messo in secondo piano in favore di colleghi dal ben più nutrito palmarès di trofei e successi personali. Ma ci sono cose che è difficile raccontare con i numeri e con i trofei. Dal liderazgo naturale all’interno dello spogliatoio, alla capacità innata di star bene e far star bene le persone che gli stanno intorno, siano essi tifosi, colleghi o semplicemente amici di una vita. Su Youtube spopolano decine di video da più di un milione di visualizzazioni in cui l’andaluso racconta barzellette e aneddoti incredibili, rendendolo uno degli ospiti più desiderati dai programmi TV di intrattenimento.
La partita d’addio di Joaquin, andata in scena martedì sera, rappresenta un chiaro manifesto dell'eredità creata durante i suoi oltre vent’anni di carriera: assieme agli storici compagni di squadra del Betis, tra i quali spiccano i vari Denilson, Assuncao, Edu, hanno partecipato al saluto finale all’andaluso diverse figure chiave del calcio spagnolo ed europeo dell’ultimo ventennio come Sergio Ramos, Raul, Casillas, Guti, Mendieta, Saviola, Santi Cazorla, Van Nilsterooy. Lo stesso Jesus Navas, nemesi di Joaquin in decine di derby cittadini, era presente a omaggiare l’amico e rivale di una vita. Il fatto che con molti di loro abbia condiviso pochissime esperienze di campo testimonia in maniera ancora più inequivocabile quanto Joaquin sia riuscito a farsi amare in maniera trasversale.
La serata di ieri si è conclusa con un’intervista straziante di Josep Pedrerol, conduttore del celebre programma El Chiringuito de Jugones, che al termine della gara gli ha detto: «Ora si spegneranno le luci dello stadio, e sarà davvero l’addio definitivo. Ti sei preparato mentalmente per cosa accadrà domani?». Dopo le prime parole Joaquin è crollato in un pianto disperato, coprendosi il volto con le mani. Dopo poco ha risposto con la voce rotta dalle lacrime: «No, perchè per quanto uno mediti, per quanto uno pensi, per quanto uno sappia che è arrivata la fine, finché quel momento non arriva non ci si rende conto di quanto tutto questo sia bello». A questo punto la telecamera zooma sul suo volto e si sofferma sui suoi occhi, lucidi ma brillanti mentre comincia ad elencare le cose più importanti che il calcio gli ha dato: «La quantità di gente che conosci, la quantità di porte che ti si aprono, l’ammirazione e l’affetto che continuerò ad avere».