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Rinascere a Genova: Diego Perotti
23 gen 2015
Figlio d'arte, troppo spesso infortunato, diventerà un grande giocatore a Genova?
(articolo)
10 min
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La carriera di calciatore è molto difficile anche a livello probabilistico: si stima che in Italia solo un bambino su 5mila (iscritto ad una scuola calcio) riesca a debuttare in Serie A. Un processo di selezione durissimo, nel corso del quale, alla fine, puoi contare solo su te stesso e sul tuo equilibrio perché nel frattempo sarai passato dalle stelle alle stalle e viceversa per chissà quante volte.

Un percorso che vale per tutti, senza sconti: per il figlio di un grande campione o per il figlio di emigranti nigeriani. E se è difficile diventare un calciatore da grande, lo è molto di più diventare un grande calciatore. Nonostante lo stereotipo dei soldi facili per quattro calci a un pallone, giocare a calcio per professione è più dura di quanto non sembri: in Italia, ma anche in Argentina.

Entrare in campo tra i fischi, anche se non tuoi, non è l'ideale.

Diego Perotti all'apice

Mancano 7 minuti alla fine di un’amichevole tra due grandi Nazionali, le favorite per la vittoria al Mondiale sudafricano del 2010: è il 14 novembre del 2009 e sul campo del Vicente Calderón di Madrid si stanno affrontando Spagna ed Argentina. Il risultato è sull’1-1, ormai la partita sembra indirizzata verso il pareggio, ed è iniziata la solita manfrina dei cambi. Diego Armando Maradona, il ct dell’Albiceleste, chiama un altro Diego, Perotti, che si sta scaldando con i compagni: tocca a lui entrare in campo, al posto di Messi. Mentre il numero 10 dell’Argentina, sommerso dai fischi, camminava piano verso la panchina, chissà a cosa stava pensando Perotti. Magari pensava di aver dimostrato a tutti di essere forte quanto il padre, Hugo detto El Mono. Un idolo della Bombonera, uno che a 19 anni aveva vinto la seconda Coppa Libertadores della storia del Boca Juniors, segnando una doppietta in finale.

A 21 anni, Diego era diventato titolare del Siviglia, dopo una stagione e mezza giocate nel Siviglia B: a febbraio del 2009 l’allenatore della prima squadra, Manolo Jiménez, lo aveva chiamato per giocare nella Liga, spesso da titolare. Perotti era impiegato sulla fascia sinistra in un centrocampo a 4, puntava sempre l’uomo e spesso lo saltava. Un suo gol di testa all’ultimo minuto contro il Deportivo La Coruña, nella penultima giornata della Liga 2008/2009, aveva regalato ai rojiblancos la matematica qualificazione alla Champions League. Nell’estate del 2010 il Presidente del Nido rifiuta un’offerta di 14 milioni di euro dalla Juventus: ormai anche lui era entrato nella storia di un club grazie ad un gol decisivo, proprio come il padre.

Non segnava molto spesso, ma i suoi cross e passaggi filtranti per i due attaccanti Negredo e Luís Fabiano erano preziosissimi: il gioco del Siviglia si basava quasi per intero sul lavoro delle fasce. Sulla sinistra, Perotti; sulla destra, Jesús Navas. Insieme, e nello stesso momento, esordiscono in quell’amichevole di novembre, anche se da avversari. Per entrambi, sembrava l’inizio di una grande carriera.

E se state pensando che il portiere poteva prenderla, certo, in teoria si possono prendere tutti i tiri, tenete presente però che quello in porta è Courtois.

La caduta

In quel sabato sera madrileno, mentre debuttava con la maglia numero 20 della Nazionale argentina, Diego Perotti forse pensava di avercela fatta, di essere diventato un giocatore vero, come il padre. Non sapeva, invece, che stava per copiarne i passi verso la sfortuna. Nel 1985, quattro anni dopo aver segnato un gol decisivo per la vittoria del campionato del Boca, a soli 25 anni, El Mono Perotti fu costretto a dire addio al calcio per un infortunio al ginocchio destro (e, pare, anche per lo stile di vita non molto professionale). Nel 2013, quasi quattro anni dopo l’esordio in Nazionale in sostituzione di Messi, Diego Perotti era ai margini della rosa del Siviglia. Dopo una serie interminabile di infortuni non aveva più ripreso a giocare bene, ed era stato sfiorato dall’idea del ritiro dal calcio, a 25 anni come il padre.

Il primo infortunio, uno strappo ai muscoli ischio tibiali, proprio nella parte finale della stagione 2009/2010, quella della consacrazione, lo tiene fuori dai campi per poco più di un mese, permettendogli di giocare solo gli ultimi 3 minuti della Coppa del Re vinta dalla sua squadra. Sembra un episodio normale nella vita di un giocatore, “shit happens”. A dicembre un nuovo strappo lo tiene fuori per un po’, ma la stagione 2010/2011 lo vede protagonista praticamente per intero: il Siviglia arriva quinto, viene eliminato ai preliminari di Champions League dal Braga e nei sedicesimi di Europa League dal Porto. L’aria però non è delle migliori: il Siviglia continua a cambiare allenatori (due a stagione, per 4 anni consecutivi, fino all’arrivo di Unai Emery), e Perotti continua ad infortunarsi con sempre maggior frequenza. Ad ottobre del 2011 una nuova rottura delle fibre muscolari; il tempo di rientrare e giocare un paio di partite, e poi un nuovo infortunio, sempre al bicipite femorale. A febbraio, dopo aver sentito di nuovo dolore, è costretto a fermarsi ancora. Nel frattempo la squadra non ottiene buoni risultati, i tifosi sono arrabbiati e se la prendono anche con lui, sostenendo che la causa degli infortuni sia il suo apprezzamento per la movida sevillana. Perotti reagisce, ma eccede, e alla fine di una partita contro l’Espanyol arriva addirittura alle mani con un tifoso.

Secondo un professore di Chicago Perotti ha un problema alla schiena, tanto che alla fine viene operato per un ernia del disco: 3 mesi fuori, stagione finita, ma almeno la speranza di aver risolto i suoi problemi. Invece no: altri due infortuni nella stagione 2012/2013, una stagione letteralmente buttata. Non riesce a giocare sette partite di seguito dall’autunno del 2011, e pensa addirittura di rinunciare allo stipendio. Disperato, a febbraio 2013 chiede di essere ceduto in prestito in Argentina, per ritrovare almeno un po’ di serenità e qualche minuto in più, ma è costretto a rimanere. Emery prova a recuperarlo, inserendolo in squadra con gradualità. All’inizio della nuova stagione ancora infortuni, ancora sofferenza: con un anno di ritardo, a febbraio 2014, riesce a tornare in Argentina, addirittura al Boca Juniors: la squadra che lo aveva vessato e scartato da ragazzino. Gli ingredienti perfetti per un grande ritorno. Ma anche con gli “xeneizes”, la squadra dei genovesi di Buenos Aires, gioca 32 minuti in tutto. In estate torna al Siviglia, che non sa cosa fare di lui. Sembra la fine definitiva di una grande promessa, sembra la storia di suo padre.

Casa Perotti, papà Hugo mette a letto il piccolo Diego. “Papà raccontami una storia”. “Ok. La palla era a centrocampo...”

Le origini

Papà Hugo era un grande giocatore, un ribelle, tutto dribbling e poco allenamento. Un’ala veloce che puntava sempre l’uomo, e giocava solo col piede sinistro, come Maradona, compagno al Boca: vinsero insieme un campionato nel 1981, proprio grazie ad un suo gol, su splendido assist del Diez, contro i rivali diretti del Ferro Carril Oeste. Per ringraziare il più forte di sempre per quell’assist verso la storia, Hugo Perotti chiamò suo figlio Diego, nato il 26 luglio del 1988. Un nome mica da niente in Argentina, ma a pesare di più era il cognome. Era pur sempre il figlio di Hugo El Mono, una vecchia gloria per la mitad más uno dei tifosi argentini: le invidie erano inevitabili, i pregiudizi degli allenatori invece no.

Dicevano fosse troppo fragile: alto e magrolino, al primo contatto cadeva per terra. Forse era anche troppo debole caratterialmente, non aveva quella “garra bostera”, quella grinta che un giocatore del Boca deve sempre dimostrare per uscire applaudito dalla Bombonera. A 12 anni tornava a casa dagli allenamenti piangendo perché era considerato poco e niente: non lo facevano entrare neppure nelle partitelle di allenamento del giovedì. Gli allenatori delle giovanili erano poco “pedagogici”, così dice lui: una frase che in fondo riassume tutto su un ragazzino che aveva tanto talento ma doveva imparare a soffrire.

A 16 anni si libera dalle catene del Boca, pensa anche di lasciare il calcio, e per un anno intero si dedica solo a studiare. Ma nella vita non ci si può allontanare troppo dalle cose che si amano, e il suo talento è più forte delle sue paure. Decide di tornare a giocare, vuole provare se stesso, vuole capire se può davvero diventare un giocatore di calcio, come suo padre, ma con un altro percorso, il suo, quello di Diego Perotti e basta. Va bene qualunque serie, dalla Primera alla Tercera, perché l’unica cosa che conta per lui è capire fino a dove arriva il suo talento, e dove inizia la sua forza di volontà. Si presenta ad un provino con il Deportivo Morón, un club della provincia di Buenos Aires, e ovviamente lo prendono: un anno nelle giovanili, e a 18 anni diventa titolare in prima squadra, nella terza divisione argentina. Arrivano le chiamate delle Nazionali giovanili, e il Direttore Sportivo del Siviglia, Monchi, celebre per le sue capacità di scovare talenti ovunque, non ci pensa due volte: per 200mila euro, Perotti sbarca in Andalusia per giocare nel Siviglia B.

Supercoppa di Spagna 2010, partita d’andata contro il Barcellona di Guardiola: è una partita d’agosto, ma Perotti fa girare la testa a mezza difesa blaugrana, esaltandosi in una dribblomania quasi autocelebrativa. La sua chicca è la “pisadita”: finisce la partita con la suola consumata. Il Siviglia vince 3-1, ma al ritorno il Barça ne fa 4.

La rinascita

Sette anni dopo, al Genoa ne bastano pochi di più, circa 350mila, per acquistarlo a titolo definitivo. Il contratto con il Siviglia era prossimo alla scadenza ma soprattutto Diego, che ormai a 26 anni non può più perdere tempo, cercava un'occasione. Appena arrivato, la sua unica speranza era di giocare con continuità: da quasi 3 anni non giocava più di sette partite consecutive da titolare e non segnava da più di un anno. Il gol del vantaggio contro il Parma, di sinistro, chissà che carico emotivo doveva avere, quante immagini, quanti dolori.

L’esordio di Perotti nel calcio italiano, però, è a Lanciano: una ripartenza dalla provincia, come quando lasciò il Boca per la prima volta. Il Genoa vince 1-0, lui gioca esterno sinistro d’attacco e si capisce che quel ruolo sembra cucito su misura per lui. Gli esterni offensivi di Gasperini, infatti, non possono essere delle vere punte, perché il lavoro di copertura che gli viene chiesto è massacrante. Perotti ha giocato quasi sempre da esterno sinistro in un centrocampo a 4 e la fase difensiva la conosce bene, la abbina ad un grande controllo del pallone e alla capacità di saltare l’uomo. Diventa subito titolare, a volte gioca anche sulla fascia destra, per fare spazio a Kucka sulla sinistra. Le catene di fascia del Genoa funzionano bene: Perotti spesso si accentra sul destro per provare il tiro o regalare un filtrante per il terzino che attacca la profondità; oppure ci pensa lui direttamente ad attaccare il suo avversario in un micidiale uno contro uno, mentre i compagni di fascia gli portano via gli uomini.

Dopo il calcione ad Holebas nell’ultimo minuto della partita contro la Roma, Perotti è stato squalificato per 4 turni (era già in diffida): forse è solo un caso, ma senza di lui il Genoa di Gasperini sembra aver perso slancio ed ha raccolto solo due punti. La sua capacità di creare superiorità numerica rimane insostituibile per i rossoblù: con una media di 3 dribbling riusciti a partita, Perotti è il quinto miglior dribblatore della Serie A, davanti ad uno specialista come Cuadrado.

Nel 3-4-3 di Gasperini sembra davvero rinato, e felice, finalmente, ed è pronto al rientro nel Monday night della prossima settimana, nello stadio di un altro Diego, quello che lo fece esordire in Nazionale: al San Paolo contro il Napoli.

Spesso a destra, a volte anche a sinistra: Perotti salta sempre l’uomo, ed è un giocatore perfetto per il tridente offensivo di Gasperini.

Diego Perotti adesso sembra conoscere tutto di se stesso: i limiti, le paure, la capacità di soffrire, di crederci sempre e di trovare sempre la forza di andare avanti. Dopo che gli infortuni lo avevano condotto verso la fine, è diventato davvero il grande giocatore che voleva essere: non nella squadra xeneize del padre, ma in quella genovese, la squadra dove può davvero lasciare un segno nella storia, e smettere definitivamente di essere un figlio d’arte.

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