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Rio ultima spiaggia
05 ago 2016
Blake, Isinbayeva, Dibaba e Defar cercano un ultimo rilancio alle Olimpiadi brasiliane.
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A poche settimane da Rio de Janeiro, le selezioni nazionali che partiranno per il Brasile cominciano a prendere forma. In mezzo a tanti favoriti e a una moltitudine di comparse, alcuni atleti in particolare stanno conoscendo in queste ore i loro destini. Sanno se è valsa la pena lavorare nell’ombra tre anni per recuperare un infortunio gravissimo. Scoprono se le stagioni passate dopo la maternità erano un’interruzione prima di un’altra vittoria o se si trattava dell’inizio di una lunga vita da ex, perché la loro federazione è stata fatta fuori causa scandali-doping oppure perché gli anni passano e le altre sono diventate più forti. Fanno un’ultima, fortissima volata che li porta a qualificarsi e a sognare un ultimo momento di gloria. Qui ci sono cinque atleti che, nel 2016, hanno cercato l’ultimo rilancio della carriera. Alcuni andranno a Rio, altri non ci saranno. E per le Olimpiadi brasiliane, che si annunciano come le più complicate da molti anni a questa parte, la loro assenza non sarà una bella notizia.

L’ultimo treno di Yohan Blake

Dal 2008 a oggi Yohan Blake è sembrato l’unico uomo in grado di spodestare Usain Bolt dal trono di migliore al mondo nella velocità. L’americano Justin Gatlin poteva batterlo l’anno scorso a Pechino, ma sarebbe stata una vittoria una tantum, non un passaggio di consegne definitivo.

Blake e Bolt sono connazionali e hanno lo stesso allenatore, ma Blake è più basso (180 cm contro i 196 di Bolt) e più giovane di tre anni. La sua storia è quella di un predestinato, già capace di scendere sotto i dieci secondi a 19 anni e 197 giorni. È il 2009, Golden Gala a Roma, chiude in 9’’96. Si qualifica per i Mondiali di Berlino (staffetta) ma viene ritirato dalla nazionale giamaicana e poi squalificato tre mesi per positività a uno stimolante. Nel corso del 2010 scende a 9’’89 nei 100 metri e a 19’’78 nei 200 (un anno prima il suo personale era 82 centesimi più alto), ma è una stagione priva di grandi appuntamenti e quindi pochi lo notano. L’esplosione arriva nel 2011, l’unico anno in cui Bolt manca una medaglia. È il 28 agosto 2011, stadio di Daegu, in Corea del Sud. Tutti i riflettori sono puntati su Bolt, che si presenta da campione olimpico e mondiale in carica. E il giamaicano quel giorno non sembra avere rivali alla partenza: Asafa Powell e Tyson Gay, gli unici due con qualche piccola speranza di batterlo, sono infortunati. Bolt deve vedersela con rivali di rango inferiore, ma si fa fuori da solo: falsa partenza, proprio nell’anno in cui è stata introdotta la squalifica al primo errore. L’eroe si accomoda negli spogliatoi imprecando, il pubblico comincia ad abbandonare lo stadio, i concorrenti si rimettono sulla linea di partenza e Yohan Blake vince. È il più giovane campione mondiale nella storia della disciplina. Bolt si rifà nei 200 metri, i due insieme timbrano oro e record del mondo nella 4x100 e poi abbandonano Daegu per gli ultimi meeting della stagione. Proprio in una di queste gare, Blake ha la sua giornata di gloria e Bolt scopre di avere un suo potenziale pari grado.

A Bruxelles, il 16 settembre, si svolge l’ultima tappa della Diamond League. Il primo a scendere in pista è il campione già affermato, nei 100 su cui ha dovuto provvisoriamente abdicare da pochi giorni. Vince in 9’’76, miglior tempo dell’anno, tanto per ribadire chi è il più forte tra lui e il suo delfino. Poi tocca a Blake, che si prepara per i 200. Sono passati appena cinque minuti dallo show di Bolt, il vento è favorevole (+0.7) ma non eccezionale. È in sesta corsia e all’interno ha Walter Dix, americano doppio argento nei 100 e 200 ai Mondiali di Daegu. Il primo atto della miglior gara nella vita di Yohan Blake è una partenza orribile: mentre tutti gli altri scattano lui resta fermo e abbandona i blocchi dopo 269 millesimi di secondo, un’eternità nelle gare di velocità. Soffre il rientro di Dix e i due arrivano affiancati all’imbocco del rettilineo. Qui, Blake corre un lanciato irripetibile, seminando l’americano e vincendo in solitaria. Dix fa il personale, 19’’53, ma viene stracciato come un ragazzino da Blake, che chiude in 19’’26, a soli sette centesimi dal record del mondo di Bolt. Con un tempo di reazione decente, l’avrebbe pure migliorato. Diventa il primo a correre 200 metri in meno di 19 secondi al netto del tempo di reazione. E chiarisce di avere le qualità per mettere in seria difficoltà Bolt, l’anno successivo. Lo chiamano The Beast, per la massa muscolare e perché si infligge dei carichi di allenamento pesantissimi. Lui inizia a giocarci un po’ sopra, nelle presentazioni prima della gara e nelle esultanze all’arrivo. Ma si vede da lontano che è di un’altra pasta rispetto all’amico e compagno di allenamenti Bolt: più timido e silenzioso, parla solo in pista. Se il 2011 si chiude con la notizia di un avversario temibile per Bolt, il 2012 fa sudare davvero freddo i tifosi del “Fulmine”. A fine giugno-inizio luglio ci sono i Trials giamaicani, le gare che definiscono chi avrà il biglietto per Londra e chi guarderà le Olimpiadi dal divano di casa. Il 29 giugno, nei 100 metri, Blake infligge una pesante sconfitta a Bolt: 9’’75 il campione del mondo, 9’’86 il campione olimpico. Passano 48 ore e Blake bissa nei 200: 19’’80 contro 19’’83, tre centesimi che bastano perché il suo avversario più famoso subisca la prima sconfitta sul mezzo giro dal 2007. L’unica, anche considerando gli anni successivi. Ed è qui, forse, che per la prima volta Bolt sembra aver trovato un suo pari. Con la differenza che Blake è più giovane di tre anni e ha vinto molto meno, quindi ha più fame.

Trials giamaicani del 2012: l’unica sconfitta di Bolt in un 200 nel periodo 2008-2016.

Un mese dopo Bolt vince la finale dei 100 in 9’’63, battendo nettamente Blake di 12 centesimi e realizzando il secondo miglior tempo di sempre. Pochi giorni dopo replica nei 200, 19’’32 contro 19’’44. Insieme, i due vincono l’oro olimpico nella 4x100 migliorando il record del mondo e portandolo a 36’’84. Insomma, al suo primo assalto Blake viene respinto con perdite. Ma poche settimane dopo, ancora in chiusura di stagione, va al meeting di Losanna e timbra un 9’’69 che lo porta alla pari con Tyson Gay nella graduatoria all time, alle spalle del solo Bolt. Un modo per ricordare al Fulmine che il suo destino è, prima o poi, abdicare e lasciare spazio all’allievo.

Ma quel destino non si è mai compiuto. Blake non è più sceso sotto i dieci secondi per oltre tre anni. Nel 2013 non ha corso nemmeno un 100, per via di un infortunio che lo ha tenuto fuori tutta la stagione. Nel 2014 ha siglato un record del mondo con la staffetta giamaicana della 4x200, una gara spuria che viene corsa pochissimo, praticamente solo ai Mondiali di staffetta di Nassau dove, fra l’altro, lo stesso Blake ha portato i giamaicani alla vittoria nella 4x100. Ma quando la stagione entra nel vivo, lui scompare. Il suo miglior tempo nel 2014 è 10’’02, in Giamaica non basta nemmeno per qualificarsi come riserva della staffetta. L’anno scorso la musica non è cambiata: 10’’12 come miglior tempo dell’anno, in una delle poche uscite possibili tra un infortunio e l’altro. Blake ha perso tre stagioni della sua carriera, quando era sul punto di diventare il dominatore della specialità. È tornato a ruggire il 16 aprile di quest’anno, a Kingston. In un meeting, in mezzo ad avversari non certo di prima fascia, ha fatto vedere un 9’’95 che lo ha riportato sotto i dieci secondi dopo quasi quattro anni. Ha replicato questo tempo due volte, ma ha fatto anche di meglio: 9’’94 l’11 luglio, per ora il suo personale stagionale. Nei 200 metri ha ottenuto 20’’29: non un grandissimo tempo, ma anche in questo caso si tratta del suo migliore risultato ottenuto dal 2012. A inizio luglio si sono svolti i Trials: tutti gli occhi erano puntati sull’infortunio di Bolt, uscito di scena dopo la semifinale con l’incubo di dover saltare le Olimpiadi. Pochi si sono accorti del vincitore dei campionati nazionali giamaicani: Yohan Blake. Qualche giorno dopo, tutti gli appassionati hanno visto il 9’’83 e poi il 9’’80 di Justin Gatlin nelle qualificazioni americane. Nelle stesse ore, a Kingston, Blake ha vinto nuovamente e ottenuto il pass nei 200 metri. Insomma, per la “Bestia” questo è l’anno migliore dell’ultimo quadriennio. Può bastare per sperare in qualcosa a Rio? Forse in staffetta, dove in ogni caso può affidarsi a una squadra da podio. Nelle graduatorie dei 100 metri, attualmente, è ottavo e faticherebbe ad entrare in finale. Nei 200, addirittura trentacinquesimo. Ma nessuno di quelli che gli stanno davanti sono mai stati considerati i possibili eredi di Bolt. Lui sì e anche se adesso è troppo tardi per diventare un dominatore come il Fulmine, è tornato un atleta vero. Dal 13 agosto, i sogni di gloria del predestinato possono riprendere.

Una zarina in esilio

Yelena Isinbayeva non era mai parsa una grande agonista. Forte, anzi fortissima, sì: una capace di portare il record mondiale da 4,82 a 5,06 metri tra il 2003 e il 2009 deve avere qualità uniche. Ma raramente la sua miglior prestazione dell’anno coincideva con la giornata in cui si assegnavano le medaglie. Il primo oro olimpico lo vince a 22 anni, ad Atene. Zarina lo diventa l’anno dopo, quando è la prima donna al mondo a superare l’asticella a cinque metri. Sempre nel 2005 vince il titolo mondiale a Helsinki. Replica l’anno dopo, ai Mondiali indoor di Mosca e agli Europei di Goteborg, poi nel 2007 a Osaka e nel 2008 a Pechino. Sembra impossibile batterla: entra in gara quando ormai molte sono già state eliminate, salta, torna a mettere la testa sotto l’asciugamano facendo di tutto per risultare disinteressata a quello che fanno le avversarie. Non le guarda nemmeno, mentre loro si danno battaglia per una medaglia. Poi rientra in pedana, venti centimetri più tardi, e mette a segno il salto della vittoria. E a quel punto prova a battere il record del mondo, massimo di un centimetro alla volta.

Un modo per mostrarsi di un’altra categoria rispetto alle altre, le umane, quelle che si fermano venti centimetri più in basso. Ma l’arroganza, ogni tanto, non paga. Ai Mondiali di Berlino 2009 decide di partire da 4,75 metri. Sono in cinque ancora in gara: per due saltatrici la misura è insuperabile e vengono eliminate. La polacca Monika Pyrek fa due errori e si tiene l’ultimo tentativo per i 4,80: non ce la fa, ma almeno è medaglia sicura. Isinbayeva sbaglia il primo salto a 4,75 metri, mentre la polacca Anna Rogowska è l’unica a farcela, al primo tentativo per di più. Isinbayeva decide di passare la misura e tenersi due tentativi a 4,80 metri, sicura di farcela. Li sbaglia entrambi: chiude undicesima, senza aver messo a segno nemmeno un salto. L’anno successivo resta ai piedi del podio ai Mondiali indoor di Doha, poi decide di prendersi una pausa dalle gare.

Torna nel 2011 e la stagione prosegue senza grandi emozioni fino ai Mondiali di Daegu: è di nuovo l’ultima a entrare in gara, ma stavolta a 4,65. Il salto le riesce, ma è l’unico: un errore a 4,75 e due a 4,80 la condannano al sesto posto. Londra 2012 la vede saltare 4,70 metri e poi arenarsi alle misure successive. È terza, ma per lei significa solo che il sogno del terzo oro consecutivo è sfumato. Arriva il 2013 e, con lui, i Mondiali di casa: a Mosca c’è tutto il gotha del salto con l’asta, pronto ad approfittare della crisi di Yelena che, da cinque anni, non è più in grado di vincere una gara importante. Entra in gara a 4,65, ma un errore al primo tentativo la costringe a inseguire. Situazione che lei odia, ma per una volta non si scompone: evita di passare alla misura successiva e riprova quella, con successo.

All’approccio dei 4,75 ci arriva come quinta in classifica: ce la fa al primo tentativo, come l’americana Jennifer Suhr e la tedesca Silke Spiegelburg che guidano la gara. La russa è terza, mentre i giudici fanno salire l’asticella a 4,82 metri: qui Spiegelburg non ce la fa più. Restano in gara in tre: la cubana Yarisley Silva, salvata dal terzo tentativo, Isinbayeva e Suhr. L’americana ha appena commesso il primo errore della sua gara, ma è ancora in testa perché anche Isinbayeva ha sbagliato. Ma a 4,89, la zarina ritorna tale: il primo tentativo è buono. È una liberazione. Esulta come se avesse vinto, distruggendo le speranze delle due avversarie che si impantanano negli errori. Prova anche il nuovo record del mondo, fallendo. Ma poco importa: Isinbayeva torna sul gradino più alto del podio, sulla pedana di casa, poche settimane dopo aver annunciato il ritiro.

Mosca 2013, la finale capolavoro di Yelena Isinbayeva.

Passano dieci mesi, dà alla luce una bambina e fa sapere di volere ritornare: l’obiettivo è presentarsi in pedana a Rio 2016, per lavare l’onta di Londra e portare a casa la sua terza medaglia d’oro olimpica. C’è un piccolo problema: mentre lei si dedicava alla sua bambina, è esploso lo scandalo doping che ha azzerato la nazionale russa. E la sua squadra è stata esclusa. Lei ritorna comunque alle gare, siglando un 4,90 che al momento è il miglior salto fatto nel 2016. Ma non servirà a nulla, perché per decisione del Comitato olimpico internazionale a Rio de Janeiro nessuno potrà rappresentare la Russia nell’atletica leggera. Nemmeno Yelena Isinbayeva: potrebbe esserci, forse, se accettasse di gareggiare con la nazionale dei rifugiati. Ma Isinbayeva è una nazionalista convinta, al punto che durante i Mondiali 2013 si è esposta pubblicamente per difendere le leggi anti-gay di Putin con frasi omofobe che hanno fatto il giro del mondo.

Non accetterà mai di gareggiare senza bandiera russa e quindi quasi certamente non sarà in Brasile: lei non si è arresa e ha fatto ricorso al Tas, che l’ha bocciato insieme a quello di altri 67 suoi connazionali. Voleva dimostrare di voler tornare a essere la campionessa vista nel 2013 e ricacciare indietro l’ondata delle avversarie, quelle storiche e quelle cresciute in questi anni: sarà costretta a vedere, da casa, la nascita della sua erede.

Nemiche giurate

«Non fare la Tirunesh», «Non fare la Meseret». Pare che in Etiopia, se due bambine bisticciano, i genitori le rimproverino così. Prima che Genzebe Dibaba e Almaz Ayana diventassero le due protagoniste del mezzofondo femminile, ai Mondiali di Pechino 2015, a dominare il panorama mondiale erano altre due etiopi: la sorella maggiore di Dibaba, Tirunesh, e Meseret Defar. Messe insieme hanno vinto dodici ori olimpici e mondiali all’aperto su pista nel giro di circa un decennio. Ma metterle insieme è un grosso errore perché raramente, nella storia dell’atletica, a una rivalità così profonda nella pista è corrisposta un’antipatia ugualmente intensa sotto il profilo umano. Blake e Bolt si sono sempre allenati insieme e hanno rapporti cordiali. Dibaba e Defar si sono fatte la guerra per dieci anni. Una guerra che, almeno a giudicare dai numeri, ha visto prevalere Dibaba: cinque ori iridati, tre vittorie olimpiche, tredici mondiali di corsa campestre vinti.

Defar risponde con tre vittorie ai Mondiali all’aperto, quattro ori indoor, due titoli olimpici. Ma ogni tanto conta anche come si vincono le gare e alcune vittorie di Defar sono state dei piccoli capolavori. La prima a vincere un confronto vero è lei, nel 2002, ai Mondiali juniores. Dibaba è due anni più giovane (classe 1985), ma è la prima a vincere fra le grandi: ci riesce nel 2003, ai Mondiali di Parigi. Ad Atene è la stessa Dibaba a dover guardare dal gradino più basso del podio Defar diventare campionessa olimpica. Si rifà l’anno dopo, con una doppietta 5.000-10.000 ai Mondiali di Helsinki che lascia a bocca asciutta la rivale più anziana. La volata finale dei 5.000, con le due affiancate per tutto il rettilineo, resta uno dei momenti più emozionanti di quei campionati del mondo.

La spaccatura vera tra le due rivali arriva l’anno successivo, nel 2006. Non ci sono competizioni importanti, quindi si va a caccia di meeting e di record. Il 25 agosto, a Bruxelles, Defar vuole battere il proprio primato mondiale dei 5.000 metri. In gara c’è anche Dibaba, che fa crollare il ritmo al quarto chilometro per poi andare a battere la rivale con un tempo “normale”. Defar reagisce pochi giorni dopo, il 3 settembre, all’ultima tappa della Golden League a Berlino. Dibaba è in lizza per vincere la sesta gara consecutiva dei 5.000 metri e partecipare alla spartizione del jackpot da mezzo milione di dollari. A lei ne andrebbero 125.000, una bella cifra per una ragazza che deve ancora compiere ventun anni. Ma sulla strada si trova Meseret Defar. E quando Dibaba, alla campanella, fa partire un ultimo giro fortissimo, nel gruppetto che le sta incollata alle calcagna c’è anche lei. Mentre tutte le altre cedono una a una, Defar continua a tallonarla. Le due arrivano di nuovo affiancate all’ultimo rettilineo e stavolta la spunta Defar, mentre Dibaba scuote la testa incredula e saluta 125.000 dollari. Da quel momento, è una guerra senza quartiere.

Mseret Defar “scippa” 125.000 dollari a Tirunesh Dibaba.

Le due si sfidano a suon di record del mondo e di medaglie. Nel 2007 si dividono le gare: oro nei 10.000 per Dibaba, oro nei 5.000 per Defar, senza che l’una partecipi alla gara dell’altra. Ma nel 2008 Dibaba prima le toglie il record del mondo nei 5.000 e poi decide di tornare a doppiare, mentre Defar nei suoi 5.000 è solo terza. A Berlino, nel 2009, il confronto salta: Dibaba si ferisce a un piede in allenamento e non partecipa ai Mondiali, Defar si accontenta di un terzo posto nei 5.000 e arriva quinta nei 10.000. Unica soddisfazione per Defar, il record del mondo nei 5.000 indoor sottratto a Dibaba qualche mese prima. Stesso copione nel 2011: non c’è Dibaba, ma Defar non va più in là di un bronzo nei 5.000 e di un ritiro nei 10.000. Sembra che entrambe abbiano imboccato la strada del declino, ma le Olimpiadi 2012 sono nuovamente un affare esclusivamente loro: Dibaba vince per distacco i 10.000, mentre Defar decide di concentrarsi sui 5.000. Alla partenza ci sono entrambe. Passano la prima parte di gara nelle retrovie e vanno al comando a quattro giri dalla fine. Il ritmo lo fa Dibaba, Defar la tallona e salta fuori all’ultima curva, per affiancarla nel rettilineo finale. Una scena di cui sono state protagoniste già tante volte, ma stavolta si risolve in molto meno tempo: Defar piazza uno scatto irresistibile, Dibaba non riesce a starle dietro e viene superata anche dalla keniana Vivian Cheruiyot. Defar scoppia in lacrime e bacia l’immagine della Madonna che si è portata dietro per tutta la gara: erano cinque anni che non vinceva una grande competizione all’aperto. L’anno successivo, ai Mondiali di Mosca, ciascuna pesca nel suo territorio: oro Dibaba nei 10.000, oro Defar nei 5.000.

È l’ultimo atto: entrambe si fermano per la maternità, come Isinbayeva. Ma nessuna delle due sa stare lontana da una pista di atletica: questo inverno, Defar è tornata a gareggiare e ha preso un argento ai Mondiali indoor di Portland, nei 3.000 metri. Alle spalle di Dibaba, ma in questo caso Genzebe: la sorella più giovane di Tirunesh, che con Almaz Ayana ha dato vita a una rivalità per certi versi simile. Anche Tirunesh Dibaba è tornata. Ed è riuscita ad agganciare un biglietto per Rio: quello dei 10.000 metri, dove punta al terzo oro olimpico di seguito. È iscritta anche ai 5.000, ma solo come riserva. Non ci sarà invece Defar: qualche acciacco di troppo le ha impedito di battere l’agguerritissima concorrenza di casa. Si vedrà sfilare il titolo dal collo davanti alla televisione senza neanche poter provare a difenderlo. Poi magari uscirà di casa, vedrà due bambine litigare per strada e i genitori dire «non fare la Meseret». E le scapperà un sorriso.

L’immortale Lagat

Quarantadue anni sono tanti per un atleta. Troppi forse per qualificarsi alle Olimpiadi nei 5.000 metri. Bernard Lagat, keniano passato agli Stati Uniti (dove ha trascorso la maggior parte della sua vita), è alla sua quinta Olimpiade consecutiva. Ha iniziato tardi ed è esploso tardi, ma quando lo ha fatto non si può certo dire che sia entrato in punta di piedi. Alla prima Olimpiade, nel 2000, ha 25 anni. Corre i 1.500, finisce terzo alle spalle del connazionale Noah Ngeny e del marocchino Hicham El Guerrouj, il più grande talento nella storia della disciplina.

L’anno successivo, ai Mondiali di Edmonton, conquista la sua prima medaglia iridata: un argento, proprio alle spalle del marocchino. Pochi giorni dopo corre i 1.500 in 3’26’’34, a 34 centesimi dal record del mondo: nessuno ha mai avvicinato così tanto il crono di El Guerrouj. Potrebbe puntare al primo colpaccio già ai Mondiali del 2003, ma viene trovato positivo all’Epo. Le controanalisi provano la sua innocenza, ma ormai è troppo tardi per gareggiare. L’anno successivo, alle Olimpiadi di Atene, ci arriva in condizioni molto migliori di El Guerrouj: fisiche, perché il marocchino non sta benissimo; psicologiche perché El Guerrouj, nonostante sia il migliore da anni, non è mai riuscito a vincere un titolo olimpico, e la cosa gli pesa.

I due sono coetanei, ma quando si incontrano sulla linea di partenza della finale non potrebbero essere più diversi: El Guerrouj è all’ultima stagione e alla penultima gara della sua carriera (mancano batterie e finali dei 5.000). Lagat è nel giro da pochi anni. E se in Grecia arriva secondo, è solo perché El Guerrouj fa appello a tutto il suo coraggio per far partire la progressione da lontanissimo (a 800 metri dal traguardo) e perché corre la migliore volata della sua vita. A dividerli sono solo 18 centesimi. Pochi giorni dopo, Lagat vede lo stesso uomo che l’ha battuto sconfiggere anche Kenenisa Bekele e fare una doppietta 1.500-5.000 che alle Olimpiadi non si vedeva da ottant’anni.

Lagat prende nota e, l’anno dopo, cambia cittadinanza. O meglio: l’aveva già cambiata nel 2004, prima di Atene, ma lo si viene a sapere solo nel 2005. Diventare americano gli costa una sospensione che lo costringe a saltare i Mondiali 2005. Nel 2007, a 33 anni, finalmente vince i 1.500, la sua gara per eccellenza. Ma ci prende gusto e così decide di tentare anche la strada dei 5.000, seguendo le orme del suo ex rivale El Guerrouj: vittoria e colpo di fulmine, tanto che da quel momento in poi, complice l’età, diventano la sua gara prediletta. Nei 1.500 riesce a portare a casa ancora una medaglia due anni dopo, a Berlino, ma di bronzo. Poi abbandona la disciplina ad alti livelli. Nei 5.000, è nono a Pechino e secondo a Berlino, a pochi centesimi da Kenenisa Bekele. Non si dà per vinto e, due anni dopo, ci riprova: stavolta è il britannico Mohamed Farah a negargli la vittoria. In mezzo, nel 2010, riesce a vincere un Mondiale indoor nei 3.000. Nel 2012, a Londra, porta a casa un quarto posto. Sembra avere imboccato la discesa: sesto ai Mondiali di Mosca nel 2013, ancora medaglia – ma stavolta d’argento – ai Mondiali indoor del 2014. Nel 2015, non riesce a qualificarsi ai Trials americani e salta i Mondiali. Sarebbe l’ora giusta per ritirarsi, ma Lagat è uno che non demorde facilmente.

Quest’anno ha riprovato la via dei Trials, di nuovo nei 5.000. Era sesto e in mezzo al gruppo, all’inizio dell’ultimo giro. Ha lasciato che gli altri provassero ad allungare, limitandosi a tenerli d’occhio. All’imbocco dell’ultimo rettilineo era terzo, poi li ha sepolti tutti: ha vinto e si è qualificato a Rio de Janeiro.

Bernard Lagat sorprende tutti e si qualifica per la sua quinta Olimpiade consecutiva.

Il tempo, 13’35’’50, non è eccezionale. Ma ha corso gli ultimi 400 metri in 52 secondi, con un’accelerazione finale impressionante anche per atleti molto più giovani. E ha dimostrato, proprio con quell’accelerazione, di essere un serio pretendente alle medaglie. Le finali maschili di mezzofondo non offrono mai grandi risultati cronometrici: di solito si risolvono in una gara lentissima fino all’ultimo chilometro, quando il ritmo cambia violentemente. È lo stile preferito di Mo Farah, il favorito a Rio: ha vinto 5.000 e 10.000 a Londra 2012, a Mosca 2013 e a Pechino 2015 sempre in questo modo. Nessuno cerca di metterlo in difficoltà partendo da lontano: e se è vero che Lagat in una gara veloce non avrebbe speranze, in una gara del genere può dire la sua. Mo Farah è avvertito: il futuro latita, ma dal passato è arrivato un fantasma. E quel fantasma aspetta solo un suo passo falso, per alzare le braccia al cielo.

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