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Ludovica Merletti

Ripetiamo: Jasmine Paolini è una finalista Slam

Un traguardo che non poteva essere nemmeno sognato.

Jasmine Paolini è in finale al Roland Garros. Una frase surreale, ma che suona quasi naturale in questo periodo storico. L’incredibile momento del tennis italiano di cui si parla da molto sembra aver raggiunto il suo climax definitivo in questo Roland Garros: ad oggi, abbiamo raggiunto due finali (Bolelli e Vavassori in doppio maschile, oltre a Paolini), e due semifinali (di nuovo Paolini con Errani in doppio femminile e Sinner). E mentre aspettavamo l’inevitabile incoronazione di Sinner a numero uno del mondo – un acciaccato e contuso Djokovic aveva troppi punti da difendere in questa parte di stagione per poter difendere a lungo il trono – Paolini giocava. Senza il privilegio dei campi con il tetto, anche sotto la pioggia come nel terzo set contro Bianca Andreescu pur di finire. Senza particolare clamore, almeno fino alla partita con Rybakina: ormai da lei ci si aspetta che arrivi fino a un certo punto anche negli Slam. Giocava e vinceva. Ancora, poi ancora, ancora, per sei volte in tutto, fino a raggiungere l’accesso alla finale di domani.

 

A pochi mesi dalla sua prima vittoria in un WTA 1000 a Dubai, oltre alla freschissima conquista del 1000 di Roma in doppio con Errani, è riuscita di nuovo a superare i suoi sogni, che quando parla sembrano piccoli come lei. «Quando ho iniziato a giocare a tennis, lo facevo semplicemente perché mi divertivo. Poi ho iniziato ad allenarmi per diventare professionista e mi auguravo di riuscirci», ha raccontato durante la conferenza stampa dopo la semifinale. Al massimo, «speravo di essere tra le prime dieci, anche se non ci credevo». Col senno di poi, sembra ammetterlo ora solo perché ce l’ha fatta. Dopo la vittoria quarti le è stato comunicato che sarebbe entrata tra le prime dieci (ora è proiettata al settimo posto!) al mondo: «Era quasi difficile da sognare, è una sensazione stranissima, mi sono un po’ emozionata».

 

 

Porre un limite ai sogni sembra un concetto in contro tendenza con l’epica sportiva. Da diversi giorni hanno rispolverato un’intervista a un Sinner diciassettenne che sognava di vincere tanti tanti Slam e di diventare numero uno al mondo. Djokovic a sette anni era più umile, si sarebbe accontentato di Wimbledon e della prima posizione del ranking mondiale. Per Paolini, invece, è assurdo che dei bambini pensino a queste cose.

 

È strano vedere uno sportivo raggiungere un obiettivo importante senza che lui per primo lo abbia immaginato, non abbia provato qualche posa allo specchio o riflettuto su cosa fare con lo champagne (mi si nota di più se lo bevo o lo spruzzo in giro?). In un mondo ultra individualista non si ammette il raggiungimento di un traguardo senza averlo in qualche modo progettato, soprattutto se quel traguardo comprende essere il migliore in qualcosa. Paolini, che ha il cervello molto vicino alla pianta dei piedi, sembra sognare come un’impiegata spera nella promozione. Non è concepibile diventare amministratrice delegata, no? Perché pensarci?

 

La sua concretezza, però, non è sempre una virtù. Per la numero uno italiana a lungo è stata un ostacolo: «Prima, quando giocavo contro le migliori pensavo “mi serve un miracolo per vincere”. Stavo già perdendo prima di scendere in campo. Ora scendo in campo e mi dico ho una possibilità”».

 

Certo, non è stato un cambiamento semplice per la tennista allenata da Renzo Furlan. Ci sono voluti miglioramenti fisici e tecnici, soprattutto in rapidità di gambe e servizio – che non è facile rendere incisivo in un’atleta alta 163 centimetri. C’è voluta una carriera in doppio, rivelatasi incredibilmente vincente e formativa al fianco di una veterana (a sua volta finalista del Roland Garros nel 2012) come Sara Errani. E soprattutto c’è voluta solidità mentale per accettare  i passaggi a vuoto e leggere i cambiamenti di inerzia in una partita.

 

Quando la concretezza si apre a un sano possibilismo si cercano soluzioni per risolvere problemi. Poi iniziano anche a spuntare le occasioni.

 

Non che questo Roland Garros sia stato una passeggiata per Paolini. In gara sia in singolare che in doppio, ha giocato quasi ogni giorno partite rese estenuanti dalle interruzioni per maltempo. Fatta eccezione per i primi due turni, ogni match è finito al terzo set contro avversarie complicate, come l’ex campionessa degli US Open Bianca Andreescu, o Elina Avanesyan, formalmente la numero 70 al mondo ma che (prima di incontrare la nostra) deteneva un record di 5 vittorie e 0 sconfitte contro le prime 15 del ranking. Ogni match sembrava un rompicapo da analizzare e risolvere con fatica, fino a guadagnarsi l’accesso ai quarti di finale contro Elena Rybakina, la numero 4 del mondo. Per la prima volta l’italiana partiva sfavorita nei pronostici.

 

Il tennis, però, è infestato da fenomeni irrazionali. Lo sanno bene i giocatori, che cercano di combatterli con i riti scaramantici più assurdi e ossessivi. Senza soffermarsi troppo a elucubrare sulla possibile natura esoterica dello sport, è un fatto che spesso, quando su un tabellone compare la scritta Rybakina vs. Paolini, sembra accadere qualcosa di magico. Dopo la prima sconfitta di Paolini a Roma, i loro nomi contrapposti sono apparsi altre tre volte. Al terzo round del Cincinnati Open nel 2023, dove la kazaka si è ritirata durante il secondo set regalando all’italiana l’accesso agli ottavi di finale in un WTA 1000 per la prima volta. Poi si sarebbero dovute incontrare nei quarti di finale del WTA 1000 di Dubai, ma Rybakina non è mai scesa in campo e Paolini, alla fine, ha portato a casa il titolo. La terza e ultima volta, al WTA 500 di Stoccarda lo scorso aprile, Rybakina aveva vinto in tre set combattuti. La meno stregata delle loro partite, ma la più utile per preparare Paolini allo scontro di due giorni fa: «Avevo in mente il match. Credo che la chiave con lei sia quella di spingere il più possibile lungo e cercare di prendere il campo perché se le lasci il pallino del gioco diventa difficile», ha dichiarato in conferenza stampa.

 

Questa volta non ci sono stati ritiri. La numero 4 del mondo ha giocato una partita imprecisa, soprattutto nel primo set, concedendo palle break in ogni game al servizio. Paolini, però, non ha atteso e non le ha lasciato “il pallino del gioco”: ha cercato ogni punto, non si è fatta demoralizzare dai controbreak del secondo set, né dalla progressione di Rybakina. Ogni volta ha rimesso le cose a posto, con pazienza e con tenacia. Non ha avuto paura, non le è servito un miracolo”. Due ore dopo quella vittoria nervosa, è scesa di nuovo in campo con la compagna di doppio Errani e ha conquistato la semifinale anche lì. «La giornata perfetta», come l’ha definita lei stessa. Come darle torto.

 

Ed ecco che l’occasione arriva. La numero 2 del mondo Aryna Sabalenka, vittima di una presunta gastroenterite, cede alla diciassettenne Mirra Andreeva nei quarti di finale. Chi lo avrebbe mai detto in un tabellone femminile con poche sorprese fino a quel momento. Eppure eccole lì, due esordienti in una semifinale Slam. Sono agli antipodi, Andreeva e Paolini. Da una parte c’è la giovane rampante di cui si parla da un po’, bionda, russa e diciassettenne come era Maria Sharapova quando vinse Wimbledon nel 2004. Dall’altra c’è la improbabile late bloomer che alla veneranda – in termini sportivi – età di ventotto anni sta trovando il suo miglior tennis in assoluto.  Andreeva, in tutta la sua adolescenza, rivendica istinto e talento. Dopo la sua vittoria contro Sabalenka aveva candidamente ammesso di essersi dimenticata quasi tutto quello che aveva preparato con la sua coach Conchita Martínez. Mentre Paolini passa le sue conferenze stampa sempre più piene di giornalisti a spiegare quante soluzioni diverse deve trovare per battere avversarie 20 centimetri più alte di lei.

 

Tra le due un solo precedente poco più di un mese fa al WTA 1000 di Madrid, doloroso per l’italiana che dopo essere stata avanti 5-2 nel primo set aveva perso la partita 7-6, 6-4. Forse proprio in virtù di quel ricordo, Andreeva sentiva di essere favorita. Paolini, come nel caso della partita a Stoccarda persa contro Rybakina, non ha sentito il bisogno di riguardarla, «ce l’avevo in testa».

 

Questa volta sapeva cosa fare: colpire forte e profondo per schiacciarla indietro, senza mai concedere l’iniziativa. Il nervosismo c’era, ma è bastato il primo break arrivato nel quarto game a cancellarlo, come ha poi raccontato nel post-partita. Non importa che quel break lo stava per perdere il turno di servizio immediatamente successivo, ormai la partita era finita perché Jasmine lo aveva stabilito, aiutata nella sua missione anche dall’universo che ha fatto cadere la palla per il controbreak di Andreeva dalla parte giusta, dopo che aveva toccato due volte il nastro.

 

Con la sicurezza di chi vive nel futuro, penso che avrebbe vinto nello stesso modo anche se l’universo fosse stato dalla parte della russa. Per tutta la partita, Paolini ha imposto il peso della sua consapevolezza, maturata con fatica, un pezzetto alla volta. Non ha riservato nessuna pietà per i sogni dell’avversaria, che ha passato tutto il secondo set a cercare di colpire palline sfocate dalle lacrime, in tutta la fragilità dei suoi diciassette anni. Ieri il sogno che doveva realizzarsi era quello di Jasmine, perché ha costruito il coraggio di immaginarlo ed era pronta. Non è un caso che sia stata la vittoria con il risultato più netto di tutto il suo torneo (6-3, 6-1).

 

Domani, sarà il momento per pensare un altro obiettivo, forse troppo difficile da mettere a fuoco contro una Iga Świątek che sembra inarrestabile (anche se ha dimostrato con Naomi Osaka di essere umana, mai dire mai per carità). Prima di ogni altra cosa, però, ci sono le semifinali di doppio.

 

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Ludovica Merletti è nata nel 1994 a Jesi. Scrive di questioni di genere. Le sue passioni sono smantellare il patriarcato e il rovescio a una mano.