Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Il grigio addio di Alonso alla Formula 1
12 dic 2018
Ricordo in cinque atti della controversa carriera del pilota spagnolo.
(articolo)
23 min
Dark mode
(ON)

Lo scorso 25 novembre Fernando Alonso stava compiendo i suoi ultimi chilometri alla guida di una Formula 1 sulla pista di Abu Dhabi. Al termine di una gara anonima, il suo ingegnere di pista Mark Temple lo ha spronato a raggiungere la decima posizione davanti a sé, che sarebbe almeno valsa un punto. Un obiettivo inutile per il team, saldamente al sesto posto nel Mondiale costruttori, ma che avrebbe potuto rappresentare un ultimo piccolo successo nella carriera di Fernando Alonso. Ma la sua risposta è stata fredda, presuntuosa, perfino irrispettosa di fronte allo slancio positivo con il quale il suo ingegnere lo aveva invitato a raggiungere l'ultimo traguardo in Formula 1: «Ho già ottenuto 1800 punti».

Il modo in cui Alonso si è rivolto al suo ingegnere può essere preso come piccola metafora del processo di autodistruzione che ha contraddistinto la sua carriera negli ultimi anni, che ha portato ad un addio alla Formula 1 mesto e causato più dalla mancanza di opportunità di mercato che non per una sua reale volontà - come per Alain Prost o per il primo ritiro di Michael Schumacher. Alonso è stato un pilota così veloce e così intelligente in pista che sorprende il fatto che il suo ultimo titolo mondiale sia avvenuto addirittura 12 anni fa, prima di una serie di scelte sbagliate che hanno segnato il resto della sua carriera.

La sua lunga vita sportiva in Formula 1 è stata quasi interamente permeata da una fortissima contraddizione. In pista Alonso è stato uno dei piloti più lucidi e mentalmente solidi mai apparsi al vertice dell'automobilismo, capace di elevare il suo talento al massimo del pragmatismo e perfino oltre i suoi limiti e quelli della sua vettura. In lui non ci sono tracce di isteria o di scorrettezze con il volante in mano, ma solo grandi gare disputate con una raffinata visione e qualche inevitabile errore. Fuori dalla pista, invece, Alonso si è lentamente trasformato in un personaggio impaziente, pretenzioso, schiavo delle proprie altissime aspettative e incapace di gestire il vento contrario. Cioè l'esatto opposto di quanto aveva dimostrato in pista, dove sembrava potesse essere l’equilibrio perfetto tra talento naturale e razionalità.

La sua lenta parabola discendente, dal punto di vista dei freddi risultati, è cominciata subito dopo aver vinto il suo secondo titolo mondiale, passando per una serie di disavventure non sempre imputabili a lui, e si è conclusa con le ultime cinque travagliatissime stagioni, nelle quali non ha ottenuto alcun singolo successo in un Gran Premio. Un epilogo grigio e per certi versi inaspettato per un pilota che molti hanno accostato a Michael Schumacher.

La predestinazione

«Ho sentito parlare gente che lo definisce un pilota che sfascia il team, ma nel nostro caso invece lo aveva amalgamato. Lui sapeva benissimo che, se c’era da guadagnare un decimo, era tutto il team che lo avrebbe guadagnato e non il pilota che lo avrebbe regalato». Racconta così Giancarlo Minardi, capo dell'omonimo team fino al 2000, che per primo diede ad Alonso l'opportunità di correre in Formula 1, a meno di 20 anni.

È sempre Giancarlo Minardi a raccontare i primi passi del campione spagnolo e ad evidenziarne il tocco magico della predestinazione: «Nel 1999 Fernando vinse la Formula Euro Open by Nissan correndo con il team di Adrian Campos, mio amico ed ex pilota, che me lo segnalò dopo avermi fatto qualche anno prima il nome di Marc Gené. In quel periodo alla fine di ogni anno chiamavamo a fare dei test i 4-5 vincitori delle varie formule minori. Quell’anno, nel 1999, uno di essi era Fernando, a cui facemmo provare la Formula 1 a Jerez. Lui andò fortissimo, in condizioni difficili di pioggia battente, fu nettamente il migliore tra tutti quelli che erano lì a provare».

Reduce dal campionato Euro Open nel quale non aveva mai ottenuto un risultato peggiore del secondo posto nelle singole gare, Alonso già nel 2000 fu messo sotto contratto da Minardi ma «quell'anno da noi fece il terzo pilota, visto che aveva già organizzato la stagione in Formula 3000». «Noi lo scoprimmo prima di tutti», prosegue Minardi, «e poi a fine 2000 feci l’accordo con Flavio Briatore per venderlo alla Benetton-Renault, alla condizione che nel 2001 avrebbe corso come titolare in Benetton, altrimenti sarebbe rimasto in Minardi. Per cui fu titolare con noi nel 2001 e poi nel 2002 passò al team di Briatore, che nel frattempo era diventato Renault, facendo il terzo pilota».

È soprattutto dalle parole di Minardi, visto che Alonso gravitava inevitabilmente nelle retrovie per via della scarsa competitività della sua vettura, che si possono leggere le qualità già ben evidenti del campione spagnolo, allora solo un emergente. «Nel primo anno che venne a correre con noi si era già dimostrato un potenziale campione sia in qualifica che in gara», dice Minardi«Fino all’ultimo Gran Premio della sua carriera ha mantenuto una fantastica capacità di visione a 360 gradi della gara e di cosa sta succedendo in pista, anche al di là di quello che gli viene segnalato dai box. Si vedeva che fin dalle prove libere aveva già questa grande visione su come impostare tutto il weekend per ottenere il massimo dalla macchina. È una capacità innata che lui ha, fin da subito ha sempre avuto una padronanza della vettura che io ho visto in pochissimi piloti».

https://giphy.com/gifs/348l2mz8hTI4IxBS4L

Alonso che - in qualifica in Malesia nel 2001- sulla Minardi perde il posteriore sia in entrata che in uscita di curva 14, fa capire quanto fosse difficile guidare quella vettura.

Quell'anno, in qualifica, Alonso fu battuto una sola volta dal compagno di squadra Tarso Marques, e riuscì a ottenere un diciassettesimo posto in griglia a Indianapolis e ben sei diciottesimi posti su 22 partecipanti. Nell'ultima gara, a Suzuka, lo spagnolo concluse la corsa all'undicesimo posto davanti ad altri piloti e team più accreditati e il nuovo capo della Minardi, Paul Stoddart, qualche anno più tardi dirà che Alonso sostanzialmente fece «53 giri da qualifica». Il direttore della struttura "Formula Medicine", Riccardo Ceccarelli, dirà a sua volta ad Autosprint che la competitività in gara di Alonso non si basava unicamente sulle sue doti di intelligenza, ma anche su fattori fisici: «Non è un pilota ansioso, ma di quelli che definirei "economici"», disse, «perché sotto sforzo spende poche energie fisiche e mentali, si stanca pochissimo e quindi mantiene sempre una lucidità e un autocontrollo elevatissimi. In gara, giro dopo giro, tiene costante un ritmo da qualifica, mentre altri piloti "scoppierebbero" in pochi giri».

L'affermazione

Come da accordi contrattuali, Alonso approdò in Renault nel 2002. Lo spagnolo non ebbe subito l'occasione di proseguire la sua carriera da titolare, rimanendo pilota di riserva di Jarno Trulli e Jenson Button:«Svolgeva spesso e volentieri i test durante l'anno, visto che all'epoca era ancora possibile, ed era sempre molto competitivo», racconta proprio Trulli. «Io sono stato sempre molto bravo nella messa a punto della macchina e nel capire gli sviluppi tecnici, per cui non mi affidavo tanto agli altri ma soprattutto alla mia esperienza. Però vedevo che Fernando nel 2002 faceva bene il suo lavoro come tester e sapeva dare dei buoni feedback, era un'altra voce che poteva avvalorare i miei test».

Mentre le sue capacità emergevano anche come collaudatore, il suo temperamento inizialmente sembrava piuttosto docile e in linea con quell'immagine di pilota razionale e calcolatore, prima ancora che di quella del talento dal carattere impetuoso.

I primi episodi controversi vennero a galla nel 2003. In quella stagione, la sua prima da titolare in Renault, Alonso divenne prima il pilota più giovane ad aver realizzato una pole position - in Malesia - e successivamente il più giovane vincitore di sempre - in Ungheria. Racconta però Trulli che «già nel 2003 nel team c'erano stati diversi episodi simili a Montecarlo 2004, con strategie favorevoli a lui scelte appositamente dal team. In Ungheria lui si ritrovò in una situazione favorevole e la sfruttò molto bene vincendo il Gran Premio. Quell'anno le cose gli riuscivano davvero tutte bene, però in ogni caso fece un'ottima stagione».

L'episodio più specifico della gara di Montecarlo nel 2004 Trulli lo racconta invece ad Autosprint: «Era appena scaduto il mio contratto di management con Flavio Briatore, che in quel momento era manager di Fernando e capo del team. Nella prima metà della stagione in pista rendevo più di Fernando e questo era considerato destabilizzante per gli equilibri del team. A Montecarlo feci la pole position e uscii in testa alla prima staccata, ma il team mi aveva preparato una trappola. Fernando era dietro di me ma aveva uno o due giri di autonomia di benzina in più, che significa che poteva recuperarmi 2 o 3 secondi dopo il mio primo pit stop, ma inizialmente riuscii a crearmi un vantaggio di 6 secondi. Al secondo stint, però, venni informato che lui stavolta avesse 4 giri in più di benzina rispetto a me. Riuscii a guadagnare 13 secondi prima dell'arrivo dei doppiati, che lui sorpassò prendendosi dei rischi pazzeschi e mangiandomi quasi tutto il vantaggio. Poco prima della sosta lui era a soli 4 secondi da me e con il pit stop avrebbe dovuto guadagnarne 6, ma al giro 41 Fernando andò a sbattere nel tunnel e così vinsi».

A fine gara l'abbraccio più intenso a Trulli fu proprio quello di Briatore, una sorta di bacio di Giuda in favore di telecamera: «In quel momento mi ha detto che ero stato fortunato perché Fernando aveva sbattuto», aggiunge Trulli. «Nel mio team continuò a propagarsi la percezione fittizia che io fossi bollito e addirittura psicologicamente instabile. Capii che non avevo futuro in quella squadra e a Monza firmai per correre con la Toyota dal 2005». «Quando tutto funzionava perfettamente e io ero contento della macchina, all'epoca ero imbattibile», prosegue, «in qualifica quando le cose giravano nel verso giusto ero spesso e volentieri davanti a Fernando. Però questo conta poco, quello che conta è se vinci le gare e soprattutto i Mondiali».

Essendo anche il manager di Alonso, Briatore percepiva il 20% dei guadagni del pilota spagnolo. Il boss italiano della casa francese, in questo senso, contribuì a liberare il suo pupillo da una situazione ingombrante creata dalla competitività del suo compagno di squadra, fiutandone anche l'affare personale. Forse Briatore aveva già silenziosamente percepito non solo il talento del pilota spagnolo, ma anche la sua ossessiva necessità di sentirsi parte di un team che girasse completamente intorno alla sua figura, alla sua sensibilità e alle sue decisioni, oltre che al suo stile di guida. «Sono alla Renault dal 2002 e anno dopo anno mi sono accorto che la vettura aveva delle caratteristiche che non mi si confacevano pienamente», disse Alonso ad Autosprint nel 2005, «perché logicamente si dovevano seguire anche le caratteristiche degli altri piloti del team. Solo quest'anno ho raggiunto la totale integrazione su come va guidata».

Nel 2005 Alonso iniziò infatti la stagione con 5 podi nelle prime 5 gare, tra cui 3 vittorie consecutive. Il successo più iconico e spettacolare avvenne a Imola, bloccando la rimonta di uno scatenato Michael Schumacher nel tripudio dei tifosi ferraristi.

La sfida con il tedesco, che nel 2005 (quando si impose nel Mondiale) era solo una situazione sporadica, divenne invece il leitmotiv della stagione 2006. Alle quattro vittorie consecutive di Alonso a Barcellona, Montecarlo, Silverstone e Montréal, il tedesco rispose con i successi in fila di Indianapolis, Magny-Cours e Hockenheim. Arrivati appaiati nel Mondiale alla penultima gara a Suzuka, Schumacher subì la rottura del motore quando era in testa, lanciando Alonso verso la cavalcata trionfale in Brasile, a Interlagos.

https://giphy.com/gifs/9D59BZn3Dd2bonQSPO

Schumacher incassò anche lo smacco di un bellissimo sorpasso di Alonso a Suzuka nel 2005, sulla velocissima curva 130R.

Il percorso di Alonso in Renault, facilitato nelle fasi iniziali dalle scelte di Briatore che gli fece ampio spazio, si concluse con il secondo titolo mondiale consecutivo e la consacrazione come erede di Schumacher. Lo spagnolo aveva battuto due vetture concorrenti - la McLaren di Raikkonen nel 2005, la Ferrari proprio di Schumacher nel 2006 - che per molte fasi dei rispettivi campionati erano sembrate più efficienti a livello di prestazione. La sua completezza e la sua maturità sembravano inscalfibili nonostante la giovane età, ma ben presto la sua resistenza alle correnti contrarie venne messa a dura prova e offrì risposte ben diverse da ciò che ci si aspettava.

La ribellione

L'approdo di Alonso in McLaren nel 2007 fu ufficializzato già a dicembre 2005. In quel periodo Michael Schumacher stava decidendo se proseguire o meno oltre il 2006 e dalla Ferrari fu allertato Kimi Raikkonen, che proveniva proprio da quella McLaren, che si cautelò proprio con l'ingaggio di Alonso. A fine 2006, in occasione del ritiro di Schumacher, lo spagnolo forse per la prima volta in carriera mostrò il suo lato più spontaneo, ruvido e intransigente: «Michael è il pilota più antisportivo della storia della Formula 1», disse a Radio Marca, «anche se è stato un onore lottare contro di lui».

Forse al momento della firma, Alonso, con la partenza di Raikkonen, fiutava un altro legame contrattuale con un team ufficiale nel quale avrebbe rivestito il ruolo di leader indiscusso. Non aveva però preventivato l'immediata esplosione di Lewis Hamilton, che al momento della firma di Alonso con la scuderia di Ron Dennis doveva ancora debuttare in GP2. Lo spagnolo sapeva dei famosi trascorsi proprio tra Hamilton e Ron Dennis e ha poi provato sulla sua pelle quanto lo charme mediatico dell'attuale Campione del Mondo - inglese e primo pilota nero nella storia della Formula 1 - potesse avere anche un fortissimo impatto sportivo.

Il primo a lamentarsi nella coppia fu però Hamilton, a cui a Montecarlo fu ordinato di non infastidire Alonso in prima posizione per evitare una pericolosa lotta intestina tra i muretti. I dissidi interni aumentarono notevolmente a Indianapolis: dopo un attacco di Alonso alla leadership di Hamilton sul rettilineo del traguardo, al giro successivo lo spagnolo si avvicinò al muretto per dare il segnale di chiedere strada, pretendendo di essere considerato più veloce e quindi con il diritto interno di passare. Quello di Indianapolis fu forse il primo vero segnale di insofferenza nei confronti del team in tutta la sua carriera, scaturito dalla consapevolezza di non sentirsi più totalmente il centro di gravità del progetto.

https://giphy.com/gifs/dty6dPVvIrgn6weTZc

Da lì si arrivò all'episodio più plateale in qualifica a Budapest, dove Alonso bloccò volontariamente Hamilton al box per il tempo necessario a impedirgli il secondo tentativo sul giro secco. In precedenza lo spagnolo si era lamentato perché il suo compagno di squadra disobbedì al team nel primo tentativo, non facendolo passare nel giro di lancio. Forse questa reazione rappresenta l'unico episodio della sua carriera in cui Alonso ha ceduto all'illegalità nel tentativo di farsi giustizia, pur senza perdere la lucidità nel contare esattamente i secondi che gli avrebbero permesso per il rotto della cuffia di effettuare il secondo giro buono a differenza del compagno. Ma in una visione ancora più razionale e lungimirante, Alonso avrebbe dovuto evitare qualsiasi tipo di reazione perché quell'episodio gli costò cinque posizioni di penalità in griglia di partenza, nonché la vittoria del compagno.

«Lewis aveva la protezione della squadra e di Ron Dennis, sapeva di quel supporto», scrisse Marc Priestley, ex meccanico McLaren, nel suo libro The Mechanic - The secret world of the F1 pit lane. «Quando il rapporto tra Fernando e la squadra si è rotto, penso davvero che Ron Dennis volesse che a vincere il titolo fosse Lewis, dimostrando che Fernando aveva ragione». Per la prima voltaAlonso non percepì attorno a sé il sostegno totale dei suoi collaboratori e la sua ribellione, scaturita dall'orgoglio e dal credito accumulato dai due titoli mondiali conquistati precedentemente, fu il primo duro colpo alla sua carriera.

In questo pezzo su ESPN, Maurice Hamilton sostiene che fu proprio quella stagione in McLaren ad aver cambiato completamente la vita sportiva di Fernando Alonso: «Comparando la versione 2005 di Alonso con l'uomo molto diverso che è stato nel 2007, il cambio che c'è stato in quell'anno in McLaren avrebbe posto le basi per una rabbia interiore, che avrebbe sempre più condizionato il suo sforzo di dimostrare una giustificabile autovalutazione della propria brillantezza». L'autore cita altre testimonianze che proverebbero quanto nei primi anni Alonso abbia mostrato un carattere affettuoso e collaborativo con il team, diverso da quello evidenziato successivamente. La più emblematica è quella del capo del team Minardi nel 2001, Paul Stoddart, che nel 2005 disse che «il Mondiale non poteva andare a un ragazzo più gentile».

A un certo punto del pezzo, l'autore fa riferimento proprio allo spaesamento di Alonso, non più calato nella realtà della Renault che Briatore gli ha cucito sempre di più su misura. Ed è proprio alla Renault di Briatore che Alonso tornò nel 2008, in un contesto ormai molto più povero di budget e di competitività, che per assicurargli una delle due sole vittorie ottenute nel biennio 2008-2009 dovette fare ricorso all'incidente programmato del suo compagno di squadra Nelson Piquet jr., per far uscire la Safety Car in un momento favorevole del Gran Premio di Singapore 2008. Per tornare a competere per la vittoria del titolo mondiale Alonso doveva cambiare aria, e nel frattempo alla Ferrari si era liberato il sedile più prestigioso del mondo.

I rimpianti

Ma per definire la grandezza in pista di Fernando Alonso, niente ha un impatto iconografico maggiore delle stagioni 2010 e soprattutto 2012 al volante della Ferrari, che resteranno a definire per sempre il senso di incompiutezza che contraddistingue la carriera dello spagnolo. Per tentare la scalata al successo, infatti,Alonso ha quasi sempre dovuto oltrepassare i limiti della propria Rossa e, a volte, ha ricordato le cavalcate di Michael Schumacher nel 1998 e soprattutto nel 1997, quando il pilota tedesco ha sfidato fino alla fine avversari con vetture molto più performanti.

A fornire un interessantissimo confronto tra i due campioni è stato Andrea Stella, pochi giorni fa alla BBC. Attualmente a capo degli ingegneri in pista della McLaren, Stella arrivò alla Ferrari nel 2000 come addetto alla vettura di riserva di Schumacher e la sua gavetta lo portò, nel 2010, a diventare ingegnere di pista di Alonso. I loro dialoghi in italiano durante le corse rappresentarono un’ulteriore dose di fascino alle letture in gara dello spagnolo, pervase da quell'alone di mistero generato dall'insolita lingua di comunicazione, che aggiungeva ulteriori grattacapi da risolvere nei muretti delle squadre avversarie che ascoltavano le loro conversazioni.

Un esempio.

«Se si prende un determinato numero di caratteristiche, Fernando è molto forte, ma potenzialmente non è il migliore in nessuna di esse», analizza Andrea Stella. «Penso che Michael fosse migliore in alcune di esse, mentre in altre era più debole di Fernando. Michael era un attaccante, si avvicinava alle cose andando oltre il limite per poi rientrarci, Fernando invece iniziava un po' sotto il limite per poi arrivarci, ma in questo modo rispetto a Michael comprendeva meglio i propri limiti ed era molto bravo a capire dove stesse contribuendo lui e dove invece l'auto. Grazie a questo, Fernando poteva preparare molto bene la vettura per la gara».

Più che nelle vittorie in Bahrain, Germania e a Monza nel 2010, Alonso compì il capolavoro a Singapore battendo in qualifica e in gara Sebastian Vettel - che correva con una vettura superiore e nel suo tracciato preferito - e in Corea, gestendo condizioni climatiche proibitive. Ancora più leggendari i suoi unici tre successi nel 2012: il primo in Malesia, fuggendo sotto l'acqua con le gomme intermedie e resistendo poi al ritorno della più veloce Sauber di Sergio Perez; il secondo a Valencia, il successo scelto da Alonso come il più emozionante della carriera, vincendo in casa su un tracciato cittadino nonostante partisse in undicesima posizione; e infine a Hockenheim, dove per lungo tempo ha lottato contro Hamilton doppiato, pur di frapporlo tra sé e i suoi inseguitori diretti Vettel e Button.

In tutta la sua esperienza in Ferrari, Alonso ha elevato fino all’inverosimile le sue capacità in gara. Nella stagione 2012, in particolare, sembrava che il suo tocco magico potesse perfino piegare totalmente al suo volere il naturale corso degli eventi, dettato dalle gerarchie tecniche tra le vetture. Lottò fino all'ultimo nonostante la sua posizione media nei risultati delle qualifiche a fine stagione fu addirittura di 6.1 e le due uniche pole position arrivarono in Germania e Gran Bretagna sul bagnato. Quell'equilibrio fatato, grazie anche alla pacatezza e all'autorevolezza del suo ingegnere Andrea Stella, riuscì a nascondere temporaneamente i lati più nervosi e autodistruttivi del carattere dello spagnolo e a portare al massimo splendore il suo talento.

Alonso mancò il titolo mondiale nel 2012, oltre che per l'inferiorità della sua vettura, per due incidenti in cui fu coinvolto in Belgio e in Giappone. Sportivamente fu ancora più drammatico il Gran Premio di Abu Dhabi del 2010, che negò ad Alonso il titolo all'esordio in Ferrari: per marcare il rivale Mark Webber, fermatosi ai box in anticipo per un contatto con il muro, lo spagnolo fu richiamato pochi giri dopo ma per tutta la gara non riuscì a superare la Renault di Petrov, che aveva già effettuato la sua sosta con la Safety Car. La vettura francese disponeva dell'F-duct, un dispositivo che in rettilineo- togliendo la mano sinistra dal volante- consentiva di guadagnare molto in velocità di punta. Nel frattempo Sebastian Vettel si aggiudicava la corsa e ribaltava completamente i pronostici, passando dal terzo al primo posto in classifica mondiale e provocando la prima grossa delusione di Alonso in Ferrari, e forse la più scioccante.

https://giphy.com/gifs/5ZYA2EkDuwqfZBBViv

Nell'ultima gara del 2012, in Brasile, non bastò questo fantastico doppio sorpasso a Massa e Webber per sopravanzare Vettel nel Mondiale.

L'autodistruzione

La sconfitta nel Mondiale 2012 segnò un punto di rottura nella carriera di Fernando Alonso, forse persino più marcato rispetto a quello della stagione 2007: «Fernando è entrato in crisi con se stesso dal 2013», ha detto pochi giorni fa Luca di Montezemolo, allora presidente Ferrari, «era un po' bloccato interiormente». La Rossa, forse anche per colpa proprio di Alonso che non fu efficace nel coordinare lo sviluppo, non riuscì a reagire alle sconfitte all'ultimo respiro, neppure con il cambio del secondo pilota, con il ritorno di Kimi Raikkonen al posto di Felipe Massa nel 2014. A partire dal Gran Premio di Spagna del 12 maggio 2013, per il Cavallino iniziò un lunghissimo digiuno di vittorie. Quello di Barcellona del 2013 fu, oltretutto, l'ultimo successo di Fernando Alonso in Formula 1.

Dopo quella bruciante delusione, Alonso, pur mantenendo quella sua straordinaria capacità di leggere le gare, iniziò ad essere sempre più insofferente e autodistruttivo, smettendo di essere produttivo fuori dai weekend di gara. «Non abbiamo mai avuto problemi al di fuori della macchina», ha detto Massa qualche mese fa, «ma esiste un Alonso dentro la macchina e uno fuori dalla macchina, sono due persone diverse. Quando abbassa la visiera si trasforma in una persona differente e questo finisce per dividere la squadra, molte delle squadre in cui ha corso le ha divise in due».

Jarno Trulli aggiunge altri elementi: «Fernando è sempre stato un pilota difficile, non è una novità. Però quando sei giovane mandi giù il boccone amaro, quando invece sei già un due volte Campione del Mondo pretendi che la gente ti ascolti. Sappiamo tutti com'è: un pilota fortissimo e velocissimo, però ha anche un carattere difficile ed è chiaro che questo lo abbia penalizzato nei momenti di difficoltà, soprattutto nei rapporti con i team negli ultimi anni. Non puoi pensare di fare sempre tutto da solo, devi anche affidarti al team, sostenerlo, anche nei momenti più difficili purtroppo devi saper essere diplomatico, perché da solo non riesci a vincere i Mondiali. Forse con un pizzico di diplomazia in più la carriera di Fernando sarebbe stata diversa negli ultimi anni».

Le sue ultime due stagioni in Ferrari lo hanno visto alternare imprese in pista ad atteggiamenti inaccettabili fuori dalla pista, almeno da un punto di vista aziendale. Nel 2014, l'anno della rivoluzione ibrida che la Ferrari inizialmente soffrì moltissimo, con due grandi prestazioni ottenne i due unici podi della Rossa: in Cina batté entrambe le Red Bull, mentre in Ungheria compì forse la gara più bella della sua carriera, mettendosi alle spalle entrambe le invincibili Mercedes con una strategia folle e cedendo solo nel finale la vittoria a Ricciardo su Red Bull, che fu inizialmente fortunato con la prima Safety Car.

Ma, a differenza della sua prima stagione in McLaren, la continua irritazione di Alonso fu in questo caso ingiustificata, dato che in Ferrari il team fu costruito nuovamente tutto intorno a lui, come avvenne nella Renault di Briatore. Degli ultimi anni a Maranello dello spagnolo verranno ricordate soprattutto alcune insofferenti comunicazioni radio, in particolare quella in cui diede sarcasticamente dei «geni» ai membri del suo team. Il suo triste addio alla Rossa e l'approdo alla McLaren-Honda non fece altro che acuire ulteriormente questo sentimento di rabbia e di senso di ingiustizia. La casa giapponese non riuscì mai a fornire una powerunit efficiente e soprattutto affidabile alla scuderia inglese e ad Alonso, che proprio nel Gran Premio del Giappone del 2015 non si astenne dal definire un «motore da GP2» quello della Honda, in un'altra comunicazione radio che sarebbe diventata pubblica.

Nelle ultime due stagioni, nonostante l'arrivo della power unit Renault sulla McLaren 2018, il pilota spagnolo si è trasformato quasi nella caricatura di se stesso. Scompare qualsiasi traccia di risultati di rilievo - il suo ultimo podio fu proprio il secondo posto in Ungheria nel 2014 - e il significato della presenza di Alonso nel circus oscilla tra un lungo farewell tour nostalgico e pieno di rimpianti e una compilation di arroganti e divertenti comunicazioni radio sia verso il team, che verso i concorrenti nelle lotte a centro gruppo.

C'entra poco, in questo senso, il misterioso incidente che ebbe nei test pre-stagionali del 2015 a Barcellona, in cui si parlò addirittura di un elettroshock. Il suo rendimento in pista continuerà ad essere di alto livello in relazione alle potenzialità della vettura. In realtà, è tutto l'insieme delle scelte compiute negli ultimi anni che ha contribuito maggiormente a scrivere le ultime malinconiche pagine della sua carriera.

Con l'abbandono alla Ferrari a fine 2014 l'autodistruzione di Fernando Alonso si è completata. La rinascita della Rossa con l'arrivo di Sebastian Vettel e di Sergio Marchionne non fece altro che prolungare le ombre sulla precedente gestione del team nel periodo in cui il pilota di punta era stato proprio Alonso.

Non sono mancate le possibilità di un possibile rilancio della sua carriera. L'addio di Ricciardo alla Red Bull la scorsa estate, ad esempio, aveva aperto la possibilità di sedersi su un sedile prestigioso, ma il team manager Christian Horner disse pubblicamente che «Fernando crea caos, non fa per noi».

E così di quel pilota invincibile in gara e che collaborava in pieno con il team non è rimasta più traccia. Forse è proprio vero che quel 2007 in McLaren accese qualche spia nel carattere del campione spagnolo, che dopo quell’anno sembrò sempre meno incline all’autocritica. Il cortocircuito definitivo si creò però dopo i due Mondiali persi in Ferrari e soprattutto da quella crescente frustrazione data dallo scollamento tra le sue pretese e le persistenti difficoltà della Rossa.

Forse Alonso, ribadendo al suo ingegnere di pista di aver ottenuto 1800 punti in carriera, negli ultimi chilometri della sua ultima gara in Formula 1, ha voluto convincere per l'ultima volta se stesso e il suo pubblico di aver trascorso una vita sportiva per lui soddisfacente, e alla fine è anche difficile dargli torto alla luce dei due Mondiali vinti.

Nonostante ciò, il talento dimostrato nei primi anni lascia una sensazione ineludibile di incompiutezza. Quella sensazione di non aver visto legittimata la sua carriera piena di rimpianti, contraddizioni, sliding doors, errori pagati a carissimo prezzo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura