Spiegare perché sabato eravamo tutti lì incollati a vedere un uomo che girava per un’ora intera in un velodromo da solo, senza avversari, è molto più complicato di quanto possa sembrare. Semplicisticamente si potrebbe dire che è perché si fa così da un sacco di tempo. Il Record dell'Ora si è imposto quasi subito come il simbolo più alto del ciclismo, la prova più estrema. Spingere per un'ora alla massima velocità possibile è uno sforzo che un ciclista riesce a preparare e ad affrontare due o tre volte al massimo nell'arco di un'intera carriera. Fisicamente - com'è ovvio - ma anche mentalmente, nella preparazione e nell'idea, malsana e folle, di dover correre per un'ora in tondo, a testa bassa, senza orizzonti da raggiungere ma tornando sempre inevitabilmente nello stesso punto.
Più in profondità, quindi, forse quello che ci attira è proprio il fatto che non ci sia motivazione apparente, ma che il ciclista sia spinto da qualcosa di più profondo e viscerale, quasi inconscio. Da parte nostra, del pubblico, forse allora è gusto per la sofferenza - uno dei motivi principali per cui guardiamo il ciclismo. Da parte dei ciclisti, forse, l’ancestrale stimolo umano per la comprensione dei propri limiti, la ricerca di una linea che ponga fine all’infinito.
Nel ciclismo il record, quello con la erre maiuscola, si fa da soli, senza avversari, senza competizioni in corso. Si decide in autonomia quando e dove, si prenota il velodromo, si organizza tutto e si prova a stabilire il nuovo record. L’avversario non c’è, come non c’è una gara da vincere. È la sfida dell’uomo contro sé stesso e - in un certo senso - dell’essere umano contro i suoi limiti. Il tempo è la dimensione all’interno della quale il ciclista si muove, mentre l’avversario è lo spazio da percorrere; quanto più possibile in quel determinato arco temporale che qualcuno ha deciso essere di 60 minuti.
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