'O Mourinho potente
di Daniele Manusia
Cinque anni e mezzo fa per chiudere un pezzo su José Mourinho tiravo in ballo Shakespeare. In particolare una battuta del Giulio Cesare: «O Cesare potente! Giaci tu così in basso? Le tue conquiste, glorie, trionfi e trofei sono dunque ridotti in così poco spazio?». Mourinho era appena stato esonerato (sì insomma, più o meno, il comunicato ufficiale parlò di «decisione consensuale») dal Chelsea, dopo aver perso più della metà della partite da quando era iniziata la Premier League 20015-16. Mourinho sembrava poter stare in piedi da solo, poter modellare la realtà con la forza delle sue parole come Michelangelo modellava il marmo col suo - boh, che usava, lo scalpello? E invece era caduto, era stato tradito, si era rivelato mortale.
A forza di battaglie mediatiche, di conflitti più o meno strumentali, all’esterno come all’interno della squadra - ricordate quando il grande nemico non era un allenatore avversario, Pep Guardiola, Arsene Wenger, Claudio Ranieri, ma un medico sociale, donna, che aveva attirato troppa attenzione attorno a sé? Per non parlare della piaga delle talpe che infestano i suoi spogliatoi - si era ritrovato da solo, e con poche idee.
Nell’aprile del 2014, quindi 7 anni fa - così tanto tempo che sull’Ultimo Uomo ancora scrivevamo CONCLUSIONI prima delle conclusioni - lo avevo chiamato il Grande Manipolatore oppure, a seconda dei casi, il Grande Opportunista. Che le sue idee tattiche potessero rivelarsi non solo inefficaci ma persino superate e irrazionali, che Mourinho in fin dei conti era più ideologico degli allenatori che accusava di essere ideologici, lo avremmo capito negli anni successivi, ma già allora, dopo che nella semifinale di andata di Champions League si era presentato con una linea difensiva a 7 contro l’Atletico Madrid di Simeone, fuori casa dove conviene segnare almeno un gol (è finita 0-0), al solo scopo di non concedere neanche una transizione a una squadre che giocava bene in transizione, si era capito che qualcosa stava cambiando.
Nelle conferenze precedenti alla partita Mourinho aveva presentato il Chelsea come sfavorito, e lo aveva fatto giocare come una squadra sfavorita. Pur di crearsi un nemico all’altezza della posta in gioco, un Golia, aveva trasformato la sua squadra in tanti piccoli Davide. E infatti poi hanno perso (1-3 in casa). Mai come in quell’occasione era sembrata vera la cosa cattiva che gli aveva detto anni prima Arsene Wenger, e cioè che la sua fame di vittorie era motivata dalla «paura del fallimento».
Insomma che il metodo di Mourinho non sia più infallibile come nel decennio precedente lo sappiamo da tempo, anche mediaticamente chi lo ricorda come la volpe con la risposta sempre pronta è rimasto un po’ indietro. Giusto qualche settimana fa si è attaccato a una battuta francamente stupida di Solskjaer, che per commentare una reazione esagerata di Son ha detto che lo avrebbe «mandato a letto senza cena» se fosse stato suo figlio, per farne una storia seria sul fatto che i bambini non andrebbero mai lasciati senza cena. «Never!», ripeteva Mourinho senza nessuna ironia. Che Mourinho sarebbe disposto a parlare di tutto pur di non parlare di calcio, quando il calcio non va come vorrebbe lui, ormai è una strategia troppo palese perché funzioni come un tempo.
Magari basterà per l’Italia. Così come le sue idee tattiche, in un campionato in cui adattarsi all’avversario è quasi una legge universale, potrebbero non rivelarsi poi così vecchie. Anzi, adesso che ci penso. È vero che lui è rimasto agli anni ‘10, ma è vero pure che non è che l’Italia sia andata molto avanti da quel giorno. Chi lo ha difeso, quando ha vinto l’Europa League contro una squadra più giovane, meno cara, difendendosi, giocando peggio, e commentando pure con «i poeti non vincono trofei»? Noi italiani. Chi lo difende su Facebook, su Twitter, ogni volta che c’è una notizia negativa a lui legate? Noi italiani. Chi lo difende dopo ogni esonero disastroso? Sì insomma, avete capito.
Trump ha detto una volta: «Potrei stare in mezzo alla Quinta Strada, sparare a un uomo, e non perderei comunque un solo elettore». E se l’Italia fosse la Quinta Strada di Mourinho?
Cesarismo romanista
di Emiliano Battazzi
«Same coach, different players». Dopo che il suo Tottenham aveva subito una rimonta dal Newcastle, l’allenatore portoghese ha risposto così alla domanda sui motivi delle continue rimonte subite, in antitesi all’abituale facilità con cui le sue squadre riuscivano a difendere un vantaggio: “stesso allenatore, giocatori differenti”. Per alcuni, quelle parole rappresentano paradossalmente le difficoltà di Mourinho: sempre più conservatore, sempre meno capace di toccare le corde giuste dei suoi giocatori. Rimasto appunto sempre lo stesso allenatore, un lusso che nessuno può più permettersi a quei livelli.
Per la famiglia Friedkin e per i tifosi della Roma, la speranza è che Mou sia ancora davvero lo stesso allenatore che nel biennio 2008-10 sconvolse la Serie A. Non solo a livello tattico-metodologico, ma soprattutto a livello umano: un allenatore carismatico, arrogante, un Cesare spalleggiato dai suoi giocatori e dai suoi tifosi, qualunque cosa facesse e dicesse.
Una tipologia di allenatore da sempre invocata a Roma come necessaria perché l’unica in grado di contrastare il famigerato ambiente romano, e cioè quello strano coagulo di pressioni ambientali e di (non)cultura calcistica che in qualche magico modo finirebbero per influire sulle prestazioni della squadra. L’ambiente romano o lo domini, o ti domina: e di solito, gli allenatori eleganti come Luis Enrique e Fonseca, finiscono stravolti.
Uno stereotipo alimentato dai successi ottenuti da alcuni allenatori dal forte carattere, nella storia di una società che di successi ne ha raccolti troppo pochi. L’unico allenatore elegante, ironico e impeccabile ad aver vinto a Roma, e ad aver allenato a lungo i giallorossi (ben 12 stagioni) è stato Niels Liedholm: poi solo caratteri particolari, tra l’arrogante e il duro, tra il carismatico e l’arruffapopolo. E d’altronde nel nuovo millennio, cioè negli ultimi 21 anni, solo due allenatori hanno vinto a Roma: Capello e Spalletti.
Capello fu davvero un Cesare: nel corso dei suoi cinque anni a Roma si tramutò in una specie di manager all’inglese - comandava lui, su tutto, spostò persino le camere dei giocatori a Trigoria, per avvicinarle al campo. Appena arrivato, Capello disse al presidente Sensi che non avrebbe mai parlato con una radio romana (gli amplificatori del famoso ambiente). «Con me ci doveva essere rispetto, non tolleravo nulla»: una frase di Capello che sintetizza il suo rapporto con i giocatori e con l’ambiente circostante. Capello piaceva per la sua autorità, per il suo essere caudillo: e d’altronde disse che di Madrid rimpiangeva l’ordine che il caudillo vero, Francisco Franco, aveva lasciato in eredità alla città. Se poi abbia davvero ottenuto il massimo in quei cinque anni a Trigoria, è un’altra questione. I tifosi della Roma sperano che Mou ricalchi proprio quelle orme: l’allenatore dalla carriera piena di trionfi che arriva a Roma, impone il suo dominio e spinge la proprietà ad investimenti ambiziosi.
Ciò che non sperano, invece, è che Mou faccia la fine di un altro grande allenatore di successo, arrogante e dispotico, che dopo i trionfi alla guida dell’Inter si era seduto sulla panchina della Roma a fine anni ‘60: Helenio Herrera. Dopo un’ottima prima stagione, conclusa con la vittoria della Coppa Italia, il Mago aveva avuto problemi con la società: le sue restanti quattro stagioni non sono ricordate con grande entusiasmo, e il suo passaggio nella storia della Roma rimane in chiaroscuro. Si fece avvolgere, come molti, dal richiamo della Dolce Vita.
L’altra caratteristica del Cesarismo giallorosso è che il dictator può venire solo da fuori: perché Roma e il romanismo sarebbero in qualche modo irriformabili da dentro. I tre scudetti giallorossi sono il lascito di un allenatore ungherese (Schaffer), svedese (Liedholm) e da Capello, nato a pochi chilometri dalla Slovenia. Persino un uno degli allenatori più signorili del continente, Claudio Ranieri, dovette dimostrare il pugno di ferro, proprio contro i due simboli del romanismo, Totti e De Rossi, sostituiti alla fine del primo tempo di un derby poi vinto. Così il Cesare può essere anche un toscano come Spalletti, il secondo allenatore più longevo nella storia della Roma (sette stagioni). L’autoritarismo di Spalletti gli valse presto l’appellativo di «Duce di Certaldo»: nella memoria dei tifosi ci sono le sue lotte contro l’ambiente («Quelli che vogliono rovinare tutto» o «A qualcuno piace tritare la Roma») ma anche all’interno di Trigoria, quando si scagliò contro il famoso «topino» che riportava le notizie dallo spogliatoio ai giornali. Una lotta molto simile a quella che Mou scatenò nello spogliatoio del Real Madrid, individuando in Casillas il capro espiatorio.
Con Rudi Garcia la Roma aveva già avuto un assaggio mourinhesco, seppur sui generis: un allenatore molto abile dal punto di vista comunicativo («Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio»), capace di coinvolgere giocatori e tifosi in un discorso emotivo, con il famoso violino alla Juventus Stadium a cementare il rapporto con la tifoseria, nell’eterna lotta contro il potere costituito. Un tasto su cui sicuramente batterà anche Mourinho, che è riuscito a utilizzare quest’arma retorica persino in club potenti e blasonati come l’Inter e il Real Madrid.
Per la Treccani, il cesarismo è un “Regime politico autoritario basato sul potere di un uomo 'forte', in genere appoggiato dalle forze armate e dotato di consenso popolare (comunque sollecitato e ottenuto), perché dotato di carisma e capace di porre termine a una situazione di disordine e di conflitto sociale e politico”. Nessuna definizione si adatta meglio alla situazione attuale della Roma: basta sostituire politico con calcistico, e forze armate con giocatori. A Trigoria, Mourinho troverà tutti i nemici che gli servono per cementare il gruppo: l’ambiente romano, i mass media, il Palazzo, un passato deludente contro cui stagliarsi come simbolo vincente.
Con grande probabilità sappiamo già come finirà, lo sappiamo dal 15 marzo del 44 a.C., e dalla storia dei precedenti Cesari giallorossi: Spalletti fu prima metaforicamente accoltellato dai senatori dello spogliatoio (nel 2009), poi costretto quasi all’esilio dopo il feroce scontro con Totti; Capello fu costretto alla fuga nottetempo con la Madza fornita dallo sponsor. Ma l’importante, per un Cesare, è lasciare un grande ricordo, al di là della conclusione, e non finire nel dimenticatoio come Helenio Herrera, che fu esonerato addirittura due volte.
Dopo aver sconfitto Pompeo, nel 49 a.C. Cesare fu nominato dittatore rei gerendae causa: una nomina a cui si ricorreva in situazioni di gravi difficoltà per lo Stato, tra cui anche un elevato indebitamento. Mourinho arriva a Roma in una situazione critica: con la squadra in caduta libera da settimane, fuori dalla Champions League nella prossima stagione, e con una rosa potenzialmente da ricostruire, oltre a un ambiente con il morale a terra e completamente balcanizzato. Se saprà essere davvero il nuovo Cesare giallorosso, non dipende solo da lui: adesso sta alla proprietà garantirgli investimenti adatti al suo livello. Come disse proprio Giulio Cesare al capitano della nave su cui viaggiava, mentre il mare era in burrasca, per esortarlo a procedere con coraggio: “Caesarem vehis Caesarisque fortunam” - porti Cesare e il suo destino.
A Roma la storia di Mourinho può ancora funzionare
di Emanuele Atturo
José Mourinho era arrivato al Tottenham per modificare il DNA di un club lagnoso e perdente per trasformarlo in uno solido e vincente. Il suo fallimento è stato incredibile e spettacolare. Ha svuotato la squadra di ogni principio tattico e di ogni certezza mentale, abbandonandola fuori dalle qualificazioni europee, nel caos e nella discordia. Dopo 17 mesi ha fatto le valigie e se ne è andato, odiato da tutti, in mezzo alle macerie. Una squadra che giocava con una profonda comunione di intenti è diventata un corpo esausto.
Quando il Tottenham lo ha assunto c’era qualche scetticismo, certo. Jonathan Wilson aveva scritto «C’è qualcuno che insisterà dicendo che stiamo parlando di un vincente nato, ma c’è una crescente sensazione che la sua fine sia vicina». Eppure quando Levy diceva «Abbiamo preso uno dei due migliori manager al mondo» era difficile obiettare. La sua bacheca parlava per lui, e nel suo fallimento al Manchester United due trofei li aveva pur alzati. Ora invece va via dal Tottenham senza nemmeno una coppa: la prima volta da quando ha lasciato l’Uniao Leira una ventina d’anni fa. L’assenza di successi però non basta a raccontare il senso di decadenza e apocalisse che ha trasmesso l’esperienza di Mourinho al Tottenham. Persino nei momenti più brillanti - all’inizio di questa stagione - la squadra sembrava reggersi su un sottile filo nervoso di disperazione. Senza solidità, senza controllo, senza idee. Aggrappandosi allo sconfinato talento atletico e calcistico di Son ed Harry Kane. Col passare dei mesi, era venuta meno anche la solidità difensiva e nessuno sembrava più credergli, quando ripeteva che dovevano trasformarsi in «Un mucchio di bastardi che vincono le partite».
Al Tottenham Mourinho ha dato un’impostazione quasi totalmente reattiva e cucita sulle caratteristiche degli avversari. Una strategia che non ha pagato né contro le grandi squadre - a cui concedeva percentuali folli di possesso palla e dominio del gioco - né contro le piccole, in cui il Tottenham pagava la mancanza di un sistema di idee e principi su cui poggiarsi. L’approccio non ha pagato soprattutto perché il Tottenham è uno dei migliori club al mondo, era difficile convincerli a giocare da underdog. Avevano pur sempre fatto una finale di Champions League pochi mesi prima, le energie erano prosciugate. Era ingiusto e controproducente provare a farli sentire una piccola squadra in lotta contro il mondo. E lo stesso era al Manchester United, uno dei più titolati e disgustosamente ricchi club al mondo. Senza convincere i suoi giocatori di una storia, Mourinho non esiste più come allenatore. L’incapacità di aggiornarsi - o lo sfacciato rifiuto a farlo - gli lasciano ben poche armi a disposizione per fronteggiare la complessità tattica del calcio contemporaneo. Il suo istinto pratico, negli ultimi anni, è sembrato sempre di più un’ideologia. Ma sarebbe sciocco dare per morte le capacità manipolatorie di Josè Mourinho, perché ora lavorerà in un contesto molto diverso da quelli precedenti. Lo abbiamo visto in questi mesi quanto la dimensione mentale diventi soverchiante a Roma, per una squadra capace solo di schizofrenia, fin troppo in empatia con i sentimenti della città.
A Roma la sua storia potrebbe funzionare. Indipendentemente dalla forza con cui i Friedkin si muoveranno nel mercato estivo, per la prima volta da anni Mourinho potrà allenare una squadra autenticamente underdog. In conferenza stampa, sui prati di Trigoria o negli spogliatoi dell’Olimpico, Mourinho troverà terreno fertile per costruire la sua narrativa di squadra sfavorita, osteggiata dai poteri forti, che gioca sull’orlo della disperazione e della follia. È l’auto-narrazione della Roma di sempre. La società gli lascerà tutto il potere di cui avrà bisogno, la mentalità dei giocatori - disabituati agli alti livelli - un terreno fertile da concimare. In sala stampa, per le strade di Roma e a bordocampo sarà “El puto Jefe” (“il fottuto capo”), come lo definì Guardiola in senso spregiativo ormai dieci anni fa, quando Mourinho imperversava nel calcio spagnolo con le sembianze del demonio in persona. La grandezza del suo posto nella storia si può misurare nella fiducia di cui continua a godere nonostante siano anni che fallisca in praticamente ogni aspetto del suo lavoro: non vince un trofeo dal 2017, le sue squadre hanno problemi tattici di ogni tipo, i suoi giocatori lo odiano al punto da essere sollevati quando viene licenziato. Mediaticamente, senza il sostegno dei risultati, persino uno come lui comincia a mostrare la corda. Eppure gli continua a venir riconosciuta una capacità mistica. E se in Inghilterra magari la sua reputazione ad alti livelli è finita col suo addio al Tottenham, in Italia il suo culto è rimasto intatto. Sarà l’ultimo banco di prova per lui, per dimostrare che non ha ancora perso il tocco e che sa ancora entrare in contatto viscerale con un ambiente, farlo sentire parte di una guerra santa.
Lo aspettiamo a Roma col repertorio fresco, comunque vada ci sarà da divertirsi.
Cosa vogliono dirci i Friedkin?
di Dario Saltari
Con tutto quello che è successo alla Roma quest'anno, quasi ci eravamo dimenticati che era iniziata una nuova era. È vero, era passato poco: nemmeno nove mesi da quando la famiglia Friedkin aveva prelevato la Roma da James Pallotta. Ma fino a ieri non avevamo avuto praticamente nessuna indicazione di che rotta avrebbero voluto dare alla società. Dan e Ryan Friedkin si erano fatti vedere quasi sempre allo stadio quando giocava la loro nuova proprietà, ma ancora non avevano rilasciato dichiarazioni ufficiali che andassero oltre a quelle contenute in pochi freddi comunicati. E così eravamo passati da un presidente che allo stadio non c’era mai, a stadi vuoti che contenevano quasi solo il presidente della Roma. Non era forse già questo un messaggio, dopo anni di lamentele e rancori per un presidente che della Fontana di Trevi forse aveva visto più spesso la riproduzione in cartongesso al Caesar’s Palace di Las Vegas? Non aiutavano ad interpretare le intenzioni della nuova dirigenza le prime decisioni prese in ambito societario: la scelta di rinnovare la fiducia come amministratore delegato a Guido Fienga, il criptico ingaggio di Tiago Pinto per un ruolo che è un ibrido tra quello di direttore sportivo e direttore tecnico. La decisione di puntare sull’ex dirigente del Benfica non era forse un segno che i Friedkin volevano continuare a basare il loro modello di business sul player trading, comprando a poco per rivendere a tanto? Sembrava andare in questo senso anche la leggenda venutasi a creare intorno a Charles Gould, misterioso collaboratore della nuova dirigenza con un ruolo poco definito ma che aveva riportato a Roma parole che avevano agitato gli incubi dei tifosi più nostalgici per anni, come “software”, “database” e “algoritmo”.
Eppure qualche segnale che si volesse rompere con il passato era già arrivato. La decisione di mettere una pietra tombale definitiva sul maledetto nuovo stadio, nato dal sogno di far entrare la Roma nell’élite del calcio europeo moltiplicando finalmente i ricavi commerciali, e impantanatosi per anni nella balcanizzazione della politica romana diventando vecchio ancora prima di nascere. L’incontro con Franco Caltagirone, figura totemica del sistema di potere che da sempre regge e muove Roma, e contro cui si era andata a scontrare la precedente dirigenza affidandosi a costruttori concorrenti. La scelta di produrre delle mascherine con il tanto agognato vecchio stemma, che è ricomparso sulle facce dei nuovi presidenti e ricomparirà sulle seconde maglie della Roma già dal prossimo anno. Tutto insomma sembrava titillare il subconscio del tifoso romanista sfibrato dal vedersi promessa la grandezza nel futuro, in un lungo periodo fatto di progettualità, giovani che ancora devono dimostrare il proprio potenziale, allenatori visionari di cui ancora dobbiamo conoscere la storia. Tutte promesse che si erano rivelate illusorie quando se n’era andato il talento e la retorica da poeta maledetto di Walter Sabatini, uomo-scoglio a cui si era aggrappata la precedente dirigenza per continuare ad agitare la carota del futuro di fronte ai nasi dei tifosi giallorossi. Dopo la sua partenza, e gli spettacolari fallimenti di Monchi e Petrachi, non era rimasta che una desolante decadenza. “Chiediamo trofei, campioni e rispetto delle nostre tradizioni”, aveva scritto qualche mese fa qualcuno sotto la nuova sede della Roma all’EUR, altro simbolo di quello sguardo al futuro che non arriva mai impersonato da James Pallotta.
In pochi, però, si aspettavano davvero che tutte queste piccole scelte sarebbero cadute per arrivare a svelare il tassello più grande del domino, l’ingaggio di José Mourinho. Una scelta che, al di là del curriculum recente dell’allenatore portoghese, non può che promettere “trofei e campioni” (un po’ meno il “rispetto delle nostre tradizioni”, ma si sa che nel calcio la memoria vale poco). E non in un punto imprecisato del futuro, alla fine di una carriera di un allenatore che ancora non conosciamo, ma qui e adesso: basta leggerlo nella sua bacheca, è la storia che parla per lui. Se dei Friedkin fino ad adesso si è parlato soprattutto come uomini di spettacolo per via del loro coinvolgimento nel mondo del cinema, adesso forse bisognerà rivalutare il loro talento politico (come d’altra parte la loro vicinanza con l’amministrazione repubblicana del Texas forse doveva già farci sospettare): questa è la mossa che la stragrande maggioranza dei tifosi voleva, soprattutto alla fine di una stagione in cui il futuro promesso dalla precedente dirigenza si era accartocciato su se stesso come uno dei mille progetti di allungamento della Metro C.
A questo punto, però, viene da chiedersi se la strada scelta sia davvero questa. I Friedkin hanno preso in considerazione tutte le implicazioni che comporta un ingaggio del genere? La Roma deve davvero aspettarsi adesso i campioni che il nome di Mourinho promette? E se sì: come pensano di arrivarci? Si inizieranno a iniettare milioni in una società il cui monte ingaggi è già insostenibile e la cui rosa è disastrata? Lo faranno attraverso sponsorizzazioni fittizie, come già molte società fanno per aggirare il FFP? Oppure l’ingaggio di Mourinho è solo un colpo di teatro per far dimenticare il presente e si continuerà a puntare sul player trading con il progetto software? Mourinho sarebbe l’allenatore adatto ad allenare una rosa di soli giovani? Impossibile sapere oggi quali risposte ci regalerà il futuro a queste domande. Al momento c’è solo la speranza che nel presentarsi al pubblico romanista come rottura rispetto al passato, i Friedkin non abbiano buttato via anche il piccolo insegnamento che la precedente dirigenza ha lasciato con il suo fallimento: per perseguire una rotta, qualunque essa sia, non basta la storia o il talento di una singola persona, che sia Sabatini, Spalletti o adesso Mourinho, a meno che non la si voglia prendere come semplice foglia di fico per coprire l’assenza di una progettualità vera e propria. Siamo troppo abituati a vedere i marmi di Roma facendo finta di convincerci che ci basti quella grandezza immaginata e andata in rovina da migliaia di anni per sopportare le mille imperfezioni di questa città per non sapere che è solo un’illusione.
Josè Mourinho, il nemico dei nemici
di Marco D’Ottavi
La prima cosa che ho pensato quando ho visto il tweet della Roma, subito dopo aver controllato non fosse un falso account come tutti, è che Mourinho avrebbe fatto un casino, ma anche che avrebbe stracciato la Juventus in un Olimpico gremito fino all'inverosimile. Mi sono immaginato la corsa verso la Sud, con il dito rivolto verso i tifosi o qualche altra trovata incredibile in cui, bisogna dargliene atto, è ancora un campione. Poi ho riflettuto e mi sono ricordato che la faida tra la Juventus e Mourinho è tutta farina del suo sacco.
Al suo primo anno in Italia l’Inter era la squadra da battere, mentre la Juventus tornava in A dopo l’anno di punizione senza particolari ambizioni immediate. Mourinho dovendo fare dei bianconeri un nemico, per ragioni più storiche che altro, aveva preso di mira Ranieri, allenatore di quella Juve un po’ pane e salame. Neanche era iniziata la stagione che lo aveva messo nel mirino. Gli aveva dato del settantenne davanti ai microfoni, quando di anni ne aveva 57 (uno in meno di lui oggi) e lo aveva accusato di essere «troppo vecchio per cambiare mentalità» (ahia). Ranieri aveva risposto dicendo che «avrebbe pagato per battere l’Inter, ma non è una faida con Mourinho» (lo era). Uno speciale e l’altro normale. Un mese dopo lo aveva accusato di non studiare: «Io ho studiato cinque ore al giorno l'italiano per diversi mesi per poter comunicare con tutti voi. Ranieri dopo cinque anni in Inghilterra aveva ancora difficoltà a dire 'good morning' e 'good afternoon’, nient’altro». L’antipatia risaliva al periodo al Chelsea, quando il portoghese aveva sostituito l’italiano sulla panchina. Una faida personale e oltre confine, Mou l’aveva resa una tra due delle squadre più importanti della Serie A.
Così era nata l’antipatia tra Mourinho e la Juventus, che era tutta nelle sue dichiarazioni perché in campo lo scarto si era mostrato troppo evidente. Nella famosa conferenza dei “Zero titoli” aveva tirato in ballo la Roma, e i suoi grandi giocatori, il Milan, e i suoi giocatori con cultura vincente, infine la Juve «che aveva vinto tanti ma tanti punti con errori arbitrali». Passato Ranieri, che non era riuscito a fare breccia nel mondo Juve, l’allenatore portoghese aveva continuato con la sua agenda sugli arbitri, capendo che - vera o falsa a seconda delle settimane - l’accusa di rubare rimaneva un nervo scoperto per i bianconeri, che intanto passando nelle mani di Ferrara erano finiti così lontani dall’Inter da far passare le parole di Mourinho come puro sadismo.
Nel febbraio del 2010, quando c’erano già quasi 20 punti tra le due squadre, aveva accusato il calcio italiano «di mettere la testa sotto la sabbia» riferendosi a un rigore fuori area fischiato alla Juve: «di aree di 25 metri ce n'è solo una in Italia» aveva concluso. Qualche settimana prima si era fatto espellere dall’arbitro per un applauso ironico in una delle poche serate belle di quegli anni bianconeri, la vittoria della Juventus sull’Inter per 2-1 con grande gol di Marchisio. Insomma Mourinho aveva preso un avversario alle corde di suo e l’aveva spremuto, ne aveva fatto uno dei tanti nemici, perché nel suo calcio esistono solo nemici.
Non era passata neanche dopo aver lasciato l’Inter e l’Italia, perché ogni tanto la stoccata era lì e ogni stoccata del portoghese è più affilata delle altre, non ti puoi voltare dall’altra parte.
L’apice era arrivato nel doppio confronto del 2018 in Champions League, quando con la Juventus a dominare all’Old Trafford, in una delle ultime grandi partite di Allegri, Mourinho aveva risposto ai cori di scherno degli juventini in trasferta mostrando le tre dita, ovvero ricordandogli del triplete. Dopo la partita aveva parlato come se fosse ancora l’allenatore dell’Inter: «Loro non sono innamorati di me, il momento più duro per loro è stato il nostro triplete». Al ritorno era stata ancora più drammatica: dopo aver dominato per 80 minuti la Juventus si era fatta battere da due gol negli ultimi 4 minuti di partita. Al fischio finale Mourinho si era spinto fino al centro dello Juventus Stadium portandosi la mano all’orecchio per chiedere ai tifosi della Juventus di fischiarlo ancora più forte, con una posa così arrogante che la trovate anche nella copertina di questo articolo fiume.
Questa storia che ho raccontato vale per tutte le avversarie di Mourinho e varrà anche per l’Inter. Per il portoghese non esistono i toni calmi, le partite normali. È come quel brutto film in cui il protagonista non poteva far scendere il proprio battito cardiaco sotto una certa soglia altrimenti erano dolori (era così brutto che non ricordo bene perché dovesse farlo). Questa visione del mondo aveva funzionato quando Mourinho era tra i migliori allenatori del mondo che allenava tra le migliori squadre del mondo. Con la Roma è difficile immaginare possa avere quella superiorità (come immagino farà notare da subito), eppure sicuramente troverà il modo di portare ogni singolo scontro nel fango. Come disse il suo più grande avversario, Guardiola, in conferenza stampa Mourinho è il «puto jefe». Se negli ultimi anni la sfida tra Juventus e Roma si era spenta, per motivi di ambizioni differenti e perché i giocatori più coinvolti non erano più in campo, oggi prende tutto un altro sapore. Per chi sarà dolce e per chi molto amaro lo scopriremo tra qualche mese. Intanto però possiamo tirare fuori dal fondo della credenza quel pacco stantio di pop-corn.
Quando mi ricapita di guidare una Ferrari
di Simone Conte
Io guidavo una Panda Cross, e ci stavo benissimo, perché è una macchina oggettivamente sottovalutata. Ancora di una misura accettabile per trovare parcheggio a Roma, ma spaziosa il giusto, affidabile, consuma poco, e comunque non è uno scassone che ti vergogni di portare in giro, anzi è anche carina, ci puoi fare viaggi più lunghi di quello che ti aspetteresti, ci puoi raggiungere bei posti anche lontani. Mi ci sono sinceramente affezionato, alla mia Panda Cross, anche perché è l’auto con la quale ho riportato mia figlia dall'ospedale a casa quando è nata e insomma, queste cose hanno un valore.
Gli amici mi dicevano: oh ma lo sai che è carina, rapporto qualità prezzo ottimo.
Poi, ancora non ho capito perché, le cose sono cambiate in fretta. Hanno iniziato prima a tagliarmi la strada, poi proprio a tamponarmi, a farmi trovare le gomme sgonfie, a smontarmi i fari, a mettermi lo zucchero nel serbatoio e a staccarmi i tergicristalli e io ho iniziato a guidare male, a tamponare a mia volta, a sembrare un neopatentato. La gente ha iniziato a dire: quello non sa guidare. Io ho provato a far notare che era diventato quasi impossibile con tutto quello che mi avevano combinato tra motore e carrozzeria, ma più lo dicevo e più: quello non sa guidare. Alla fine mi sono mezzo convinto anche io: mi sa che non so più guidare, e ho iniziato a sbandare anche sui vialoni dritti dove oggettivamente anche con tutte le botte che mi avevano dato, dritto ancora ci potevo andare.
Poi ieri mi hanno regalato una Ferrari.
Eh? Cosa?
Esatto. Mi fa ancora strano dirlo, non mi suona la frase, non mi sembra di parlare di me, ma in questo esatto istante ho in mano le chiavi di una Ferrari. Mi sembra sinceramente assurdo, ma mi sto avvicinando e ok, si apre, non è uno scherzo.
C’un foglietto sul cruscotto. Entro, prendo posto: che seduta pazzesco. Non pensavo che si potesse stare così comodi in una macchina. Faccio subito un pensiero scemo: e adesso chi ci si risiede sulla Panda. Povera Pandina mia, non te lo meriti questo pensiero.
Scusa se l’ho fatto.
Vediamo il foglietto.
“Occhio ai freni”. Ecco, già mi prende male.
Che cazzo di avviso è da lasciare. Ma chi lo ha scritto poi. Ma soprattutto perché.
Lo giro. “Uscita di strada nelle ultime tre curve”.
Ma vaffanculo io scendo. Ma ti pare che all’età mia con una figlia devo rischiare di ammazzarmi. Io scendo. Tra un attimo scendo e madonna ma senti la pelle di questo volante. Guarda quel cambio, ma di cosa è fatto? Non sembra materiale che esce dalla fabbriche delle macchine che ho guidato fino a oggi. Io scendo comunque, non scherziamo.
Certo che non l’ho mai guidata una Ferrari. Ma quando mi ricapita. Vabbè vediamo se si accende almeno e ODDIO ma che rumore è? Sarà normale? Sta esplodendo?
No, è il rumore suo proprio. Pazzesco, si stanno girando tutti, mi viene da sorridere come un cretino, ma che ridi dai. Ok è pieno di gente qua intorno, alcune sono facce conosciute, altri li conosco e non mi si filavano da un po’ di tempo, uno sono sicuro che sia uno di quelli che mi ha bucato una gomma e mi sta facendo un applauso, altri non mi sembrano proprio di zona, mi sa che ci sono pure degli stranieri. Mi fanno ok con il pollice. Ma ok cosa, ma che ne sai, ma chi ti conosce però mi viene da ridere, che follia.
Vabbè, questi vogliono vedere qualcosa, vado. Quando mi ricapita.
“Occhio ai freni”.
Ok, non ha scritto che non ci sono i freni, dice occhio. Io le strade qui le conosco, magari l’hanno guidata in posti più difficili, su strade impervie, magari qui invece si riesce, con un po’ d’attenzione, l’importante è partire piano, prendere le misure, specialmente sulle curve che comunque mi hanno lasciato scritto pure quell’altra cosa.
Vado, dò gas. Mi stanno letteralmente facendo un applauso dai palazzi. Uno mi grida dal finestrino “ti pago per fare un giro”, zitti, non mi distraete.
C’è una curva, freno, sta rallentando, la faccio piano, ci siamo, è andata. Si può fare, non so se non so guidarla io o se è una macchina strana, ma cammina, frena, si può guidare.
Ma soprattutto io ora voglio solo andare. Non ho mai avuto così voglia di arrivare in un posto in tutta la mia vita. Non ho mai pensato di poterci arrivare in così poco tempo. Che sensazione assurda, mi sembra di essere ubriaco e lucido nello stesso istante.
Vabbè io accelero, che potrà succedere dai. Ma soprattutto, ma quando mi ricapita.