Sabato notte, anziché andare al cinema e farmi incantare da un film, anziché andare a cena e farmi incantare dai miei affetti, sono rimasto incantato davanti a Twitter, a leggere le notizie dei principali quotidiani argentini e le testimonianze di chi era al Monumental Vespucio Liberti. Ci sono rimasto fino a notte fonda, nonostante l’annuncio della sospensione - al giorno successivo, prima che diventasse sine die - della Finale di Libertadores fosse arrivato già da un’ora abbondante.
Come molti altri appassionati di calcio sudamericano non riuscivo a venire a patti con il senso di vuoto, di privazione, di ingiustizia nei confronti degli istinti più nobili dello sport, e della sua narrazione. Più leggevo, più cresceva in me la confusione, e il terrore dell’ovvietà: comprendere davvero cosa fosse successo (o meglio, cosa fosse iniziato a succedere) la sera in cui la Copa Libertadores avrebbe dovuto avere un vincitore, ed è invece rimasta senza un proprietario, sospesa in un limbo giuridico, era un’ambizione sterile, inconcludente e pericolosa come l’idea di salire su un battello nelle Andemane e andare a evangelizzare l’isoletta di North Sentinel.
La Finale delle Finali, in un ribaltamento semantico beffardo, era diventata, e continua ad essere, la Finale Senza Finale.
Foto di Ivan Pisarenko / Getty Images.
In uno degli slogan più convinti dei giorni precedenti, la CONMEBOL aveva sintetizzato gli effetti del Superclásico in finale di Libertadores in una frase tristemente premonitrice: «niente sarà più come prima». Va da sé che nessuno si aspettava che avrebbe acquisito un senso totalmente diverso da quello che si aspettavano.
Mano a mano che gli aggiornamenti si rincorrevano, in quella maniera sempre un po’ sfumata, piena di doppi sensi, apparentemente incoerente con cui si definiscono tutte le cose in Sudamerica, il sentimento di privazione non scemava, anzi. L’oggetto della narrazione si sfaldava, i suoi confini si dilatavano troppo per essere contenuti. Ci sono stati non uno, ma addirittura due rinvii, della durata più o meno di un’ora ciascuno - prima alle 22.20 italiane, poi alle 23.30 - comunicati al pubblico presente allo stadio, e agli appassionati nel mondo tutt’intorno, sempre all’ultimo.
Nel frattempo hanno iniziato a circolare immagini dell’autobus che trasportava i giocatori del Boca Juniors assaltato all’ingresso del Monumental, vetri infranti, gas urticanti lanciati dalla polizia, i cui fumi finiscono per intossicare il bus. Calciatori feriti, come il capitano del Boca Pablo Pérez, costretti a lasciare lo stadio per farsi togliere schegge di vetro da un occhio in un ospedale vicino, e altri in condizioni fisiche che non gli avrebbero reso facile, se non possibile, scendere in campo. Non alla pari, almeno, come giustamente pretendeva il Boca e il popolo bostero. «Avessimo giocato in quelle condizioni», ha confessato Tévez a Oscar Ruggeri, «ci avrebbero fatto cinque gol nella prima mezz’ora».
Sono uscite voci che riportavano delle pressioni della FIFA - di Gianni Infantino lì presente - e della CONMEBOL affinché quella partita, cascasse il mondo, anche se il mondo, nel suo piccolo, fuori dal Monumental, stava già cascando, si giocasse (forse anche per ragioni televisive). Abbiamo saputo di meeting d’urgenza, semiclandestini, tra vertici federali e presidenti delle due squadre, nella pancia dello stadio. Gentlemen agreements vergati in maniera informale, promesse tra hidalgos a conti fatti mai mantenute.
Il giorno dopo è ricominciato, seppur in scala ridotta, lo stesso circo, sempre davanti agli occhi del mondo intero, con il Monumental prima chiuso, poi aperto con i tifosi in coda e poi, di nuovo con un tempismo ambiguo, la partita rimandata a data - e luogo - da destinarsi. Contemporaneamente sono uscite anche le voci, discordanti con l’epicità dell’evento, secondo cui il Boca questa partita invece non voglia mai più giocarla, se non negli uffici della CONMEBOL, alla quale si è appellata affinché il River venga squalificato e la Coppa assegnata d’ufficio agli xenéizes.
L’incertezza si è protratta fino all’incontro di ieri, in Paraguay, in cui pur non avendo deciso niente si è capito che questa finale, sul campo, prima o poi si giocherà, per quanto possa importare.
Probabilmente l’8, o il 9 dicembre. Molto probabilmente, non sul campo del River. E neppure in Argentina (questo lo deduciamo perché la CONMEBOL si farà carico delle spese per la trasferta di una delegazione di 40 persone).
A questo punto, però, è la narrazione stessa di quella che sarebbe dovuta essere la Partita del Secolo, la finale di Libertadores più importante della Storia, ad essere andata in frantumi, come i vetri dell’autobus del Boca. Rimettere insieme i pezzi, oltre che impossibile, è un dolore del quale ci saremmo volentieri privati.
Ho imparato ad amare l’Argentina attraverso i suoi scrittori, i libri che ne mettevano a fuoco i controsensi, i chiaroscuri. Da Sopra eroi e tombe di Ernesto Sabato ho capito che non esiste mai un solo piano di narrazione, che i livelli si stratificano, sovrappongono, e non è mai chiaro chi sia il vincitore, e chi lo sconfitto. Da Julio Cortázar ho appreso il senso del perturbante. E da Osvaldo Soriano, che tutte queste sfaccettature potevano applicarsi al calcio.
In uno dei racconti più famosi di Soriano, e più citati, “Il rigore più lungo del mondo”, ci sono già tutti i crismi di quello che è successo in questo fine settimana: è la narrazione di un rigore decisivo, che avrebbe assegnato un titolo minore eppure importantissimo, che ha impiegato più di una settimana per essere tirato, perché nel mezzo, tra l’assegnazione e l’effettiva esecuzione, c’è stata un’aggressione, una rissa, la sospensione della partita e l’ordine, da parte della polizia, di «sparare in aria». «Quella sera il comando militare decretò lo stato di emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti quelli che non sembravano del posto».
Davvero, non manca nulla per un parallelo: la follia a cui conduce la passione, che si trasforma, anche in maniera sbadata, in violenza. E poi, l’assurdità delle scelte incomprensibili, al tempo stesso arbitrarie e significative, senza la poesia della finzione, però.
In un hotel di Puerto Madero, il giorno prima della Finale Che Non C’è Stata, il presidente della CONMEBOL José Dominguez aveva battezzato la partita non solo come la fine di un’attesa durata quasi sessant’anni, dalla fondazione della competizione, per la più importante partita sul più importante palcoscenico del Sudamerica, ma anche come l’inizio di una nuova era per la Libertadores, che se non avrebbe potuto battere in termini di glamour la Champions League, almeno avrebbe potuto completarla. Essenzialmente, con il folklore, il colore, l’animo passionale, insomma con la portata mitopoietica che il calcio latinoamericano sa produrre.
La gara d’andata aveva avvalorato questa tesi, con i quindici minuti di fuoco a cavallo tra la mezz’ora e la fine del primo tempo, il botta e risposta che aveva generato un 2-2 dalla forte carica emotiva, che ha sedotto anche il pubblico meno appassionato di Sudamerica. Ma anche l’allenamento a porte aperte del Boca alla Bombonera, riempita da cinquantamila tifosi, erano sembrati l’incipit perfetto per la Grande Epica che attendeva solo la stesura dell’ultimo paragrafo. I nuovi spettatori si aspettavano semplicemente una grande partita; quelli di più vecchia data il compimento di un processo emozionale che avrebbe portato finalmente il calcio sudamericano nella propria maturità.
Prima della gara d’andata Mauricio Macri, il presidente argentino, aveva dichiarato che quella doppia finale sarebbe stata l’occasione perfetta per dimostrare che il Paese è cambiato, cresciuto, che non solo poteva ospitare un evento di tale magnitudo, ma che poteva anche farlo in armonia. Aveva addirittura immaginato che entrambe le tifoserie potessero partecipare liberamente a questa festa collettiva, ponendo la domanda se non fosse ormai obsoleto il divieto in vigore da ormai più di cinque anni (giugno 2013, dopo l’uccisione di un tifoso negli scontri tra Estudiantes e Lanus) di seguire la propria squadra in trasferta.
I fatti hanno dimostrato, al contrario, che l’Argentina versa in una situazione decisamente più complicata, in cui l’ordine pubblico non può essere garantito neanche in assenza di scontri tra tifoserie - e a questo proposito in molti hanno ricordato che tra pochissimi giorni, il 30 Novembre, a Buenos Aires inizierà il G20. Il presidente della FIFA, Gianni Infantino, ha chiesto subito che qualcuno pagasse per quanto accaduto, ma non è semplice attribuire le responsabilità, così come non lo è identificare i colpevoli.
La narrazione di questo fine settimana si è concretizzata, per gli argentini, in una messa funebre, in un rito di autocommiserazione, che obbliga tutti ad ammettere che no, non sono cambiati. E che probabilmente non cambieranno mai. Come dice una frase circolata molto in questi giorni, avevano l’occasione per dimostrare al mondo come sono davvero. Il timore è che l’abbiano fatto.
Come ha scritto Daniel Lagares sul Clarín: «La Superfinale ha sancito l’atto finale di una società incolta e malata, con sistemi di convivenza feriti a morte». Una società che nel calcio ha spesso cercato la panacea a tutti i suoi mali, trovandoci soltanto però piaghe purulente. Una società in cui i codici morali della barrabrava, che non sono già più calcistici ma trascendono il gioco, sono anche i codici di riferimento per la definizione della propria identità. Una società in cui la relazione con il calcio è più radicata che in ogni altro luogo del mondo, ma anche più incancrenita.
Foto di Alejandro Pagni / Getty Images.
I fatti di questa Finale di Libertadores, salita sul carro della Storia per i motivi sbagliati, hanno portato al risultato che a uscirne svilita è innanzitutto la sua narrazione. Come influiscono così tanti e orrendi fatti di cronaca sulla nostra volontà di raccontare un evento? Che parole dovremmo usare? Potremo più parlare di poesia del calcio sudamericano?
Nel nostro immaginario, anche laddove la finale vera e propria si finirà per giocarla, i fatti di sabato rimarranno l’istantanea di un evento che si è svolto essenzialmente nel suo non svolgersi. L’immagine di uno stadio convertito in una sala d’aspetto. Ma non nell’attesa di un parto; piuttosto nella veglia a un ferito, forse morente.
Henrik Lorgion, uno dei personaggi de “La sinagoga degli iconoclasti” dello scrittore argentino J. Rodolfo Wilcock, si vantava di aver scoperto una sostanza da lui chiamata eumorfina, che è alla radice di «ogni cosa perfetta, armoniosa e simmetrica nella natura», e che «si dilegua quando la vita muore». Ciò che è successo in questi giorni di locura è che il Superclásico, la sua ideale armoniosità, si sono in qualche modo dissolti. E l’eumorfina si è dileguata, come la Libertadores che ha abbandonato il Monumental senza che nessuno l’abbia sollevata, probabilmente poggiata sulle ginocchia strette di un ufficiale della CONMEBOL, in un anonimo taxi.
La riunione di ieri, e il lento processo di disfacimento che ha innescato, ha confermato che nessuno potrà mai restituirci la fascinazione che ci aveva pervasi in queste settimane. E se il Boca Juniors insisterà affinché la vittoria arrivi a tavolino? Un istinto che potremmo anche trovare razionale ma che abbandonerebbe uno dei principi dei valori dello sport sudamericano, ovvero il sentimento di sfida. Sarebbe l'ennesima vittoria della prosa sulla poesia.
Nel mio pezzo di presentazione alla Finale delle Finali di qualche settimana fa, a un certo punto mi chiedevo se non fosse «quasi volgare, un dettaglio superfluo che per forza di cose rovinerà le nostre aspettative, il fatto che alla fine si giochi».
Dopo aver assistito a quella tremenda ridefinizione della scala di prosaicità, dopo esserci riempiti gli occhi delle scene di guerriglia fuori dallo stadio, e di mestizia all’interno, forse l’unico e ultimo frammento logoro di poeticità a cui aggrapparci sentimentalmente risiede proprio nel fatto che davvero qualcuno finisca per scendere in campo, a giocarsi la vittoria con le armi del talento, della passione, della tecnica. Che torni ad andare in scena il gioco.
Il rischio, al contrario, è che questa Finale senza Finale finisca per diventare una Finale senza Fine. Senza vincitori né sconfitti. Anzi, soltanto senza vincitori.