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Robbie Avila è più di un meme
19 mar 2024
Il giocatore più iconico di questa stagione del college basket.
(articolo)
9 min
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Nella foto della sua pagina profilo su ESPN, Robbie Avila indossa un completo blu dozzinale, una cravatta azzurra troppo grande e degli occhiali anonimi. Sorride a denti stretti, la faccia è puntellata dall’acne, un sottile strato di sudore imbarazzato e dei capelli in disordine completano il quadro. Sembra uno che vuole convincerti che Dio è amore.

Il suo aspetto esteriore non è totalmente nuovo all’interno del basket collegiale, una realtà in cui il concetto di “atleta” è piuttosto ampio. È parte della magia: sui parquet universitari degli Stati Uniti convivono armoniosamente ragazzi che già segnerebbero 20 punti a partita in NBA con altri che finiranno a vendere macchine in Texas. Robbie Avila, però, non è né l'uno né l'altro, quanto piuttosto una perfetta via di mezzo.

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Un post condiviso da Robbie Avila (@ravila_21)

Nelle ultime settimane il suo nome ha iniziato a farsi strada su Internet, pur non facendo parte di una delle università di punta del Paese. Vorrei dirvi che è solo per merito delle sue prestazioni, e in parte è così: Avila ha segnato 35 punti contro Evansville, 30 contro Southern Illinois, 22 contro la UIC, 23 contro Murray State. La sua università è tornata ad avere il miglior record stagionale della Missouri Valley Conference a distanza di 24 anni dall’ultima volta e lui è stato inserito nel primo quintetto. Avila è al suo secondo anno al college e sta segnando 17.5 punti a partita tirando con il 55% dal campo. Inoltre prende quasi 7 rimbalzi a cui aggiunge 4 assist. Ma, come dicevo, più che alla bontà dei numeri che sta mettendo insieme, la sua fama è legata a come queste prestazioni sono arrivate.

Avila è infatti l’antitesi del campione: è quello che nei film viene scelto per ultimo, è sgraziato, brutto, inadeguato. Se però, nei film, l’ultimo degli ultimi si trasforma in un cigno una volta sceso in campo, con lui non succede. Veder giocare Avila a basket è infatti un’esperienza straniante, come vedere un elefante non rompere nulla in un negozio di cristalli, una giraffa infilarsi in una Smart con successo. C’è qualcosa di incredibilmente goffo nel suo stile, nel modo in cui trascina i piedi per il campo, in come i googles (gli occhiali sportivi che porta) gli incorniciano il viso, nei tatuaggi sciatti sulle braccia smunte, nel fisico rotondo, nella geometrica precisione delle sue giocate.

Fake Jokic

Per come gioca, Avila è stato paragonato a Nikola Jokic, ed è impossibile non notare delle similitudini. Anche Avila è un centro, anche Avila ha quel tipo di genialità col pallone in mano, la capacità di muovere l’attacco con i suoi passaggi, di trovare i compagni che tagliano, di leggere la difesa avversaria (ha raccontato di aver passato l’estate a guardare video del serbo e di Domantas Sabonis). Come Jokic, anche Avila ha un ottimo tempismo per i rimbalzi e un più che dignitoso tiro da tre punti (sfiora il 40% dall’arco) che gli permette di allargare il campo per i compagni. E, come Jokic, avrete capito, non fa certo dell’atletismo – dove per atletismo si intende la capacità di giocare sopra il ferro – la sua arma migliore.

C’è però una grande differenza tra i due – oltre al fatto che, insomma, uno domina al più alto livello al mondo e l’altro se la cava nella piuttosto oscura Missouri Valley Conference – ed è come fanno queste cose. Se la meravigliosa grandezza di Jokic sta nel far apparire assolutamente coerente quel gioco in quel corpo, con una grazia magari atipica per gli standard NBA ma impossibile da non vedere, in Avila non c’è niente di armonioso. In campo è esattamente quello che vediamo fuori: un ragazzo di 20 anni sovrappeso, con un difficile rapporto con il proprio corpo gigante (è alto 208 centimetri), i piedi a papera e le movenze di uno che non ha mai mosso un passo di danza in vita sua e che preferirebbe non provarci mai.

Eppure, nonostante tutto in lui sembri remare contro le sue possibilità di successo nel basket, Avila gioca benissimo a basket. Guardate come domina il campo senza alzare un piede da terra, come le sue finte vadano a rallentatore, come la sua partenza in palleggio è la vostra partenza in palleggio, forse anche peggio. Come tutto quello che dovrebbe remare contro di lui diventa un vantaggio.

Avila ha provato a spiegare almeno come la sua lentezza non sia un peso: «L’allenatore scherzando dice sempre che io sono un passo più lento di chiunque altro, allora io gli rispondo che sono due passi più lento, perché gli avversari si aspettano che io sia un passo più lento di loro, così io vado ancora più lento». A dirla tutta sembra più complicato di così: Avila non ha quel ritmo sincopato alla Paul Pierce o quegli strani controtempi alla Slow-mo Kyle Anderson. Come riesca a generare dei vantaggi muovendosi così male è abbastanza un mistero, e per fortuna: se avessimo capito tutto dello sport non sarebbe così divertente.

Questa inadeguatezza è stata ovviamente presa di mira da Internet. Avila ha iniziato ad ammonticchiare soprannomi sempre più ironici. Se era partito come College Jokic, presto si sono aggiunti, solo per rimanere in tema Jokic: Walmart Jokic, Mini Jokic, American Jokic, Jokic mexicano (il padre è originario del Messico), the Nikola Jokic of Mason Plumlees (per intenditori).

Qualcuno si è sentito in dovere di far notare come Avila non sia “davvero” dominante come il miglior giocatore di basket del pianeta.

La questione soprannomi però nelle ultime settimane è davvero deragliata: dopo Jokic sono iniziate storpiature sempre più fantasiose. Avila è diventato Cream Abdul-Jabbar (anche Kareem indossava gli occhiali), Milk Chamberlain, Steph Blurry, Larry Blurred, Larry Nerd. Ognuno di questi nomi ironizza proprio sull’ambiguità di Avila, al tempo stesso fenomenale e inadeguato. Soprattutto il paragone con Larry Bird è significativo: Avila gioca per gli Indiana State Sycamores, la stessa università per cui ha giocato Larry Legend, portandoli nel 1979 alla loro unica finale NCAA della storia, persa contro i Michigan State di Magic Johnson, in quella che è forse la più famosa partita a livello collegiale della storia.

Avila, senza avere nessuna possibilità neanche di avvicinare Bird, riprende però lo stesso archetipo di giocatore-che-non-sembra-un-giocatore ma che grazie alla sua comprensione del gioco e alla sua intelligenza cestistica riesce a stupire tutti. Avila, in più, proprio come Bird, è figlio del Midwest (è dell’Illinois) bianco e contadino che stravede per il basket come gioco geometricamente immacolato. In più Avila ci aggiunge una neanche tanto vaga estetica nerd, che rende ancora più affascinante vederlo giocare.

Non la vostra solita Internet Sensation

La domanda, a questo punto, è quanto lontano può arrivare Avila. Se bisogna considerarlo solo una simpatica nota di colore nel pazzia di marzo della NCAA oppure se c’è davvero qualcosa nel suo talento. Non avendo assolutamente gli strumenti per rispondere a questa domanda, ho chiesto a Lorenzo Neri, autore qui a Ultimo Uomo, ma soprattutto scout con esperienza a livello collegiale. Al contrario di quello che pensavo, e che magari avete intuito leggendo fin qui, mi dice che Avila ha notevolmente alzato i giri negli ultimi due mesi e con le sue ultime prestazioni sta effettivamente attirando le attenzioni di allenatori e dirigenti: «Se magari prima era una nota di colore, ora non lo è decisamente più».

Oltre l’apparenza, infatti la qualità del gioco di Avila è veramente alta. Indiana State è uno degli attacchi più efficienti della NCAA e la sua stagione sta andando molto oltre le aspettative. Avila è il fulcro di questo successo, grazie a una naturale capacità di coinvolgere ed elevare i compagni di gioco. Questo talento un po’ intangibile, che va oltre gli assist in sé o il saper tirare bene da tre punti o il saper fare un taglia fuori, attira inevitabilmente l’attenzione degli scout, perché non è facilmente insegnabile.

E infatti è talento che, mi dice sempre Lorenzo, allenatori e dirigenti in Europa proverebbero volentieri a tradurre nella pallacanestro professionistica. Nel basket FIBA infatti i limiti atletici di Avila sarebbero meno esposti e non è un caso se alcuni profili simili sono riusciti a costruirsi una carriera in Europa. Mi cita il caso di John Bryant, che negli anni del college a Santa Clara aveva lo stesso tipo di aura di Avila, cioè un centro con ottimi fondamentali ma con un fisico e una percentuale di massa grassa non da professionista, e che però è riuscito a costruire un’ottima carriera vincendo un campionato tedesco con il Bayern Monaco e due volte il premio di MVP della Bundesliga, arrivando a giocare addirittura in Eurolega.

Se la NBA, al momento, sembra un po’ un miraggio, anche un possibile approdo in G League non è del tutto da scartare. La lega di sviluppo prevede contratti molto flessibili e non è da escludere che qualcuno voglia provare a vedere se Avila possa funzionare. Per provare a darsi una possibilità, però, Avila deve far vedere un miglioramento dal punto di vista atletico. Se infatti è goffo e non salta, il suo corpo non è «bruttissimo», non è cioè «sproporzionato», «ma c’è massa che non dovrebbe esserci». Avila ha 20 anni, che non sono pochissimi (gli stessi di Victor Wembanyama, per fare un paragone assolutamente cattivo), ma ha anche iniziato a fare sul serio da poco e i miglioramenti, nel giro di meno di un anno, sono già visibili.

Se il basket non ripudia i fisici “rotondi” e anzi avere un cilindro grosso ha anche i suoi vantaggi, la lentezza e la mancanza di atletismo di Avila possono essere tragici in difesa. Se infatti in attacco la sua intelligenza e i suoi fondamentali possono farlo stare in campo anche a un livello più alto, che succede quando si tratta di difendere? È il lato oscuro delle possibilità di Avila. Se fin qui ha affrontato avversari modesti, contro centri particolarmente atletici o più mobili quanto andrebbe sotto? Generalmente nel basket lo stare in campo è il risultato della sottrazione tra quanto dai in attacco e quanto togli in difesa (o viceversa). Così è facile pensare che Avila tolga troppo in difesa, ma anche questo bisogna scoprirlo.

È uno dei motivi per cui tutti avrebbero voluto vedere lui e gli Indiana State Sycamores al torneo NCAA, magari accoppiato contro qualche centro che l’anno prossimo andrà in NBA. Purtroppo la sconfitta nella finale della propria Conference contro Drake ha bruscamente interrotto un matrimonio che sembrava perfetto. Avila e compagni sono, o per meglio dire sarebbero stati, il perfetto materiale da March Madness: una squadra andata oltre le aspettative con un gioco spettacolare e con un giocatore copertina che sembrava disegnato e sceneggiato per questo torneo. Da più parti hanno implorato la commissione che compone il tabellone di dargli una casella, cosa che però non è avvenuta.

In ogni caso, a prescindere da come andrà a finire, Avila è più di una Cinderella story. Da una parte è una manifestazione positiva di una certa idea di sport che c’è negli Stati Uniti, e che magari seguendo solo la NBA, o comunque le leghe super-professionalizzate, tende a sfuggirci; dall’altra è un inno al talento come concetto astratto, che va oltre tutte le altre parti che servono per avere successo nello sport. Che diventi un professionista o meno, per chi ama e segue il basket, Avila rimarrà sempre quello che ha scomodato i paragoni con Jokic, Bird e Kareem Abdul-Jabbar. E, pure se erano ironici, cosa importa? Dopotutto dentro ogni battuta, come per ogni leggenda, c’è un fondo di verità.

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