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In ricordo di Robert Enke
08 apr 2020
A undici anni dalla sua morte, parlare di depressione nello sport è ancora un tabù. Ma può essere utile anche per parlare di noi.
(articolo)
11 min
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Il 10 novembre 2009, in un hotel di Colonia, la nazionale tedesca si appresta a cenare. Tra quattro giorni si giocherà un’amichevole contro il Cile. Oliver Bierhoff, l’assistente di Joachim Loew, si alza e richiama l’attenzione. Ha una notizia da dare, e non è una bella notizia. «Nessuno ha parlato per i successivi 25 minuti», ricorda Per Mertesacker. Robert Enke, il loro portiere, si era suicidato. «Nessuno poteva crederci, nessuno sapeva che dire. Non sapevamo che fare».

Il Momento Kennedy è quel particolare momento in cui ognuno di noi realizza che sta succedendo, o è appena successo, qualcosa di scioccante ed epocale. Qualcosa che ci segnerà così a fondo che ricorderemo indelebilmente proprio il momento in cui, per la prima volta, ne abbiamo preso coscienza. Qualche settimana fa ho vissuto il mio personale Momento Kennedy: nella maniera rovinosa in cui ci sfuggono dalle mani, precipitosamente, situazioni che credevamo di poter contenere, ho realizzato che avrei potuto perdere il mio lavoro. Quello che faccio da vent’anni. Che avrei potuto perdere quello che sono stato per vent’anni. Lo stesso giorno, e ragionevolmente i due eventi potrebbero essere concatenati tra loro, ho avuto la mia prima crisi di panico, mentre ero al supermercato. La vista si è annebbiata, non riuscivo a respirare. Ho vagato mezz’ora finché qualcuno mi ha mostrato dove fosse il burro. Non riuscivo a trovarlo.

Devo fare una premessa. Da mesi avevo intenzione di scrivere un pezzo su Robert Enke. Regolarmente, ogni settimana, aprivo il file in cui affastellavo appunti, e altrettanto regolarmente desistevo. Mi interessava capire che cosa avesse lasciato la sua esperienza. Investigare perché, a distanza di un decennio, non siamo ancora riusciti apertamente ad affrontare il tema della depressione nei contesti sportivi di alto livello, dove è ancora un tabù, qualcosa di cui non si parla compiutamente forse perché non riusciamo a carpirne la ragion d’essere, come se il nostro sistema di valori lo rifiutasse. Ma abbiamo un problema, in generale, a parlare di depressione. Chissà che non avessi bisogno di toccarla con le mie mani, la consistenza viscosa di qualcosa che le somigliasse. La disperata sensazione di non poter né saper essere padrone del tuo destino, ad esempio, può dare origine a qualcosa di quel tipo. Il punto, forse, è che non avrei dovuto cercare di capire la relazione tra il tema della depressione e quello del successo, quanto tra la depressione e la nostra idea di normalità. Anche perché la ricerca del successo, della vittoria, per uno sportivo sia la normalità. C’era bisogno che in ballo finisse la mia - la nostra, considerando il contesto storico in cui scrivo - di normalità?

Chi era Enke

Due mesi prima del suo suicidio, Enke è il titolare che Loew ha scelto per difendere i pali della Mannschaft nelle ultime tre partite di qualificazione a Sudafrica 2010. È in competizione, in realtà, con René Adler. Koepke, l’allenatore dei portieri, li aveva studiati a lungo, ne aveva analizzato i comportamenti: Enke stava subendo il peso della sfida, del confronto? A una settimana dalla partita con l’Azerbaijan, Enke ha brividi di freddo, non riesce a dormire: i medici della Nazionale gli fanno le analisi del sangue, sembra tutto nella norma. La partita si giocherà ad Hannover, dove Enke ha ritrovato lo smalto che aveva perso nell’ultimo lustro della carriera, spesa in giro per l’Europa. Di cosa dovrebbe aver paura? Per quale motivo saltarla? Nel ritiro, a Colonia, Enke incrocia Sven Ulreich, il portiere dell’Under-21. Si salutano. Il giovane gli dice «in bocca al lupo per il Mondiale, se non dovessimo vederci prima», racconta Robert Reng in A life too short, la biografia del portiere tedesco. Enke, cupo, gli risponde «chissà se ci rivedremo, e quando».

Foto di Peter Steffen / LaPresse.

In quel periodo è già in cura da uno psichiatra. I suoi attacchi d’ansia, la depressione che lo rendono evanescente non sono un mistero, anche se non ne ha mai parlato apertamente. La sera prima di comunicare a Loew che lascerà il ritiro scrive sul suo diario «non sono stato onesto con me stesso». Sono i giorni in cui nel mondo è scoppiata la pandemia dell’influenza suina, e c’è chi ipotizza che possa averla contratta. Alla moglie dice soltanto «se potessi avere la mia testa per mezz’ora capiresti cosa mi ci passa dentro». Ovviamente, declinare la convocazione non gli fa bene. La depressione non si acuisce soltanto in presenza di stress, ma anche - se non di più - quando vieni avvolto dalla coperta sdrucita dei fantasmi del fallimento.

A Enke hanno sempre detto che l’unica maniera per scendere a patti con la propria vita, per conservare un barlume di tranquillità, foss’anche apparente, è nascondere. Nascondersi, in qualche modo, e tirare dritto. A pensarci bene, è lo stesso processo mentale che stiamo attraversando noi, che sto attraversando io, in questo periodo assurdo: tirare dritto, mostrarci forti consapevoli delle nostre forze e forti delle nostre certezze. Andrà tutto bene, ci ripetiamo; anche se al momento, bene, soprattutto dentro di noi, non va proprio nulla. In campo, Enke è sempre stato molto professionale. Jupp Heynckes lo ha definito il calciatore più professionale che abbia allenato, insieme a Fernando Redondo. Non proprio sempre ineccepibile, quello sì. Non molto reattivo, ma di certo affidabile: nella sua carriera in Bundesliga, 14 dei 33 rigori che gli hanno calciato contro sono finiti tra le sue mani, lontani dalla rete. Dopo l’esordio con il Borussia Moenchengladbach si era trasferito, appena ventiduenne, al Benfica, una delle società più gloriose d’Europa, alle prese con un periodo un po’ turbolento della loro storia. Nel club lusitano si era guadagnato un posto da titolare e la fascia di capitano, fino a raggiungere, nel 2002, quello che sembrava il coronamento di una carriera: la chiamata dal Barcellona. Il terzo tedesco nella storia dei catalani.

Uno dei primi istinti che scatena la depressione è una voglia, che diventa necessità, di farsi invisibile. Va da sé che un trasferimento al Barcellona non è propriamente il contesto migliore in cui cercare una sacca di anonimato. Allo stesso modo, non lo è esporsi quotidianamente a chi ti circonda. Essere obbligati a farlo. La quarantena, da un punto di vista, è una specie di peep show delle nostre debolezze, ci obbliga a renderci massimamente visibili, alla trasparenza coatta. Dove vai a cercarla, la tua sacca di resistenza, all’interno delle mura in cui convivi con i tuoi cari? Sei davvero in diritto di cercartela? La sicurezza di sé non è mai stata un valore oggettivo, per Enke. Durante la trattativa per trasferirsi dal Benfica c’erano stati tentennamenti, a un certo punto aveva anche chiamato van Gaal per cercare rassicurazioni e l’allenatore olandese gli aveva risposto «ma se non so neppure chi sei!».

A pochi mesi dal suo arrivo, nel settembre del 2002, il Barcellona affronta il Novelda, una squadra di semi-dilettanti, che annaspa nei bassifondi della Segunda B, la terza serie del calcio spagnolo. Ronald Reng, nella biografia di Enke scritta dopo averci vissuto a stretto contatto ben prima del suicidio, ha spiegato che quello era il tipo di partite in cui «se tutto fosse andato come previsto il Barça avrebbe vinto 3-0, 4-0, e nessuno avrebbe neppure menzionato il portiere. Se fosse andata male, invece, si sarebbe preso tutte le colpe». Sorprendentemente i blaugrana vengono eliminati, sconfitti per 3-2, e la rete decisiva è frutto di un errore piuttosto marchiano di Enke. Frank de Boer, l’allora capitano del Barça, al termine della partita si scaglia contro il suo portiere in maniera piuttosto plateale. «Fu gettato in mezzo ai leoni», disse Victor Valdés del suo collega.

Il portiere ex Liverpool Chris Kirkland ha ammesso di essersi ritirato, nel 2016, dopo aver capito di non riuscire a gestire la preoccupazione che gli dava «sentirsi vicino al prossimo livello». L’ansia che gli generava il progredire della sua carriera era un fardello troppo pesante da sopportare. La difficoltà di Enke - e in qualche modo, in piccolo, la mia - è di tipo inverso: l’avanzamento di carriera, per certi versi naturale, non ha mai costituito una preoccupazione, almeno fin quando non ha fatto capolino il timore di deludere, di piombare nel fallimento, nell’insuccesso. Fin quando il crollo, il capolinea, non è apparso come inevitabile. La preoccupazione che proverbialmente non situa il problema tanto nella caduta, quanto nell’atterraggio.

Foto di Ronald Wittek / LaPresse.

Mi sono fatto l’idea che Robert Enke, per conformazione mentale, non abbia mai cercato il successo nella sua accezione iper-materialistica, non nel significato che questa parentesi dei nostri tempi finirà per ridefinire, o spazzare via. Ciò che più lo metteva in difficoltà era l’impossibilità di potersi godere ciò che meglio gli riusciva, o gli piaceva più fare. Insomma, l’impossibilità di conservare la sua quotidianità. Nelle ultime settimane ce lo siamo sentiti ripetere come un mantra: l’unica maniera per non crollare nel baratro della frustrazione, durante la quarantena, è ritagliarsi una parvenza di routine. E se il problema centrale fosse proprio questo doverci ostinare a rispettare una routine che non possiamo avere? Dopotutto non credo possa esistere uno standard: la normalità è uno stato dell’anima. E invece non sappiamo come finirà, neppure se finirà. Ci diciamo che certo, prima o poi tornerà la luce, ma più per rassicurarci. Siamo inermi, senza strumenti, passivi. Peggio: con una fata morgana di strumenti tra le mani. In questo tipo di situazione, crescono i disturbi ossessivo-compulsivi. Ci facciamo domande, veniamo risucchiati da una spirale. Ci fa più bene esternarle o interiorizzarle? Siamo davvero liberi di esternarle? Robert lo era? Noi - io - lo siamo?

Insicurezza

Robert Enke non è mai stato sicuro di sé. A sei anni è stato costretto a mettere un apparecchio ortodontico. Di ritorno dal dentista, il padre gli chiese come si sentiva. Nessuna risposta, non con le parole: Robert si mise a piangere. Nessuna scenata, nessun melodramma: solo lacrime silenziose, la sensazione che gli mancasse il respiro. Gli psicologi descrivono la paura come la risposta che ci si può aspettare di fronte a una minaccia concreta. L’ansia, invece, come la risposta a una minaccia più vaga, indefinita, senza oggetto. Enke non ha mai avuto paura: temeva, piuttosto, che la sua depressione potesse esporlo troppo, che lo avrebbe portato, se ne avesse parlato apertamente, o avesse accettato di farsi seguire da un istituto psichiatrico, alla fine della sua carriera. L’isolamento è una cassa amplificatrice: sarebbe fin troppo semplice, e retorico, affondare nel retroterra immaginifico del portiere come ultimo - e solitario - baluardo. Non siamo mai davvero, totalmente, soli. Eppure, possiamo isolarci. O siamo costretti a farlo, come adesso.

Andreas Marlovits era lo psicologo sportivo in carica all’Hannover 96 quando Robert Enke ha deciso di togliersi la vita. Le sue crisi si erano fatte più profonde dopo la scomparsa della figlia Lara, affetta da problemi cardiaci, nel 2006. Adottare un’altra bambina non era bastato. «C’è stato un periodo, dopo Istanbul (dove Enke aveva giocato per il Fenerbahce, NdA) e Barcellona, in cui avevamo superato tutto, guardavamo con speranza a quello che avremmo potuto ottenere» ha detto la moglie Teresa, dopo la sua morte. «Dopo la morte di Lara pensavamo che saremmo riusciti ad andare avanti grazie all’amore, ma alle volte l’amore non basta. Ho cercato di dargli prospettive e speranze, gli dicevo che c’erano delle cose belle nella vita, ma non ha funzionato».

Nella lettera d’addio trovata dalla polizia, prima di finire sotto a un treno, Enke chiedeva scusa a medici e familiari che lo avevano seguito e confortato. Chiedeva scusa per avergli nascosto i pensieri di suicidio che lo tormentavano.

In un evento organizzato nel decennale della sua scomparsa, Teresa ha rivolto un appello accorato: «Dovrebbe essere permesso, negli spogliatoi, a giocatori e allenatori, mostrare le proprie emozioni. Dire “Non sto bene” non dovrebbe immediatamente tradursi nel rischio di perdere il proprio posto in squadra». Durante il periodo di quarantena per il COVID-19, un’organizzazione britannica no profit di nome Back Onside, che si occupa di problemi di salute mentale, sta offrendo un servizio di consulenza ai calciatori frustrati per la sospensione della stagione. «Ci chiamano e ci dicono che sono a quello stadio in cui non riesci a vedere nessun futuro». Uno studio di qualche anno fa condotto dal sindacato dei calciatori scozzesi ha evidenziato come più della metà dei calciatori abbiano avuto a che fare con disturbi del pensiero, almeno una volta nella loro vita. È uno scenario che mostra quanto estesa sia questa criticità, molto più di quanto vogliamo credere. Di quanto ci sforziamo di credere, noi per primi - io per primo, che non ho voluto o saputo affrontare e riconoscere l’ansia fin quando un evento massivo non mi ha messo nelle condizioni di doverlo fare - di doverci scendere a patti.

«So poco della notte

ma la notte sembra sapere di me,

e in più, mi cura come se mi amasse,

mi copre la coscienza con le sue stelle.»

Sono i versi iniziali di una poesia di Alejandra Pizarnik, me li ero appuntati perché volevo inizialmente usarli come epigrafe al pezzo che volevo scrivere su Robert Enke, ma oggi mi sembrano totalmente miei, compiutamente nostri. Il giorno prima del suicidio di Robert, la Germania aveva celebrato il ventennale della caduta del muro di Berlino. Era stato un grande momento di aggregazione, di esaltazione del senso di comunità, di appartenenza. Oggi, mentre scrivevo, alle sei, è risuonato l’inno italiano dalle finestre dei vicini. Poi, subito dopo, Azzurro di Adriano Celentano. Ho pensato che questa benevolenza ecumenica è l’armatura sotto la quale nascondiamo le nostre paure più intime, cercando di domare l'ansia. Nella speranza di un Momento Kennedy al contrario; che abbia un colore diverso, un sapore di normalità. Intanto, ricordiamoci che non siamo soli.

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