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Roberto Baggio detto Roby
14 nov 2016
La vita, i successi, le delusioni del Divin Codino.
(articolo)
56 min
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Intro. La sciarpa viola

Con le braccia abbandonate lungo i fianchi, il collo piegato in avanti, Roberto Baggio guarda il pallone e la porta della Fiorentina come un viaggiatore fissa in lontananza un rifugio irraggiungibile, un puntino sull’orizzonte mentre cala il sole e la temperatura comincia a scendere. Fa cenno di no con la testa e si allontana.

Poco prima: tra i fischi assordanti del Franchi, Baggio riceve il pallone sulla sinistra, salta un difensore della Fiorentina ed entra in area, poi ne salta un altro vincendo un rimpallo, sente la maglia tirare, si ferma di colpo e gira la testa come un ragazzino in piazza che si è sentito chiamare dalla finestra. Guarda senza emozione l’arbitro che indica il dischetto.

Poco dopo: a battere va il suo compagno di squadra De Agostini e calcia bene, di sinistro a incrociare, ma il portiere, Mareggini, è ancora più bravo e schizza a togliere la palla dall’angolino basso. A fine partita De Agostini dirà: «Baggio ha preferito non calciare», pausa. «Mi è sembrato giusto andare io sul dischetto».

Così si arriva al sessantottesimo minuto di gioco con la Juve ancora sotto di un gol all’Artemio Franchi di Firenze, e Gigi Maifredi, tecnico bianconero, decide di fare una sostituzione. Mentre Baggio esce, i fischi si affievoliscono e si mischiano agli applausi. Lui cammina vicino alla panchina con lo sguardo basso e si fa passare un giaccone troppo grande e pesante per un pomeriggio tiepido di inizio aprile. Lo indossa senza chiuderlo e a passi rapidi ma cadenzati sfila sotto la tribuna dei tifosi della Fiorentina, da cui vola un oggetto che si ferma ai suoi piedi. È una sciarpa viola. Baggio la raccoglie senza fermarsi, come se fosse caduta a lui. Continua a camminare tenendola stretta in mano. È un gesto molto elegante, un modo di indossarla meno vistoso ma più intimo che metterla al collo. Lo stadio lo acclama.

Guardatelo nelle immagini televisive, con la testa bassa e il sorriso triste di chi è abituato agli sguardi altrui e li considera una specie di dolce tormento. Guardate i fotografi che si spintonano intorno a lui, la docile riluttanza con cui Baggio lascia sbiadire tutto quanto intorno a sé e fa il giro del campo in un cono di luce virtuale. Sembra un uccello raro appollaiato su un ramo, disposto a lasciarsi avvicinare ma pronto a volare via al primo segnale di minaccia. Fissate questa immagine nella vostra mente, perché andrà sempre così nei momenti decisivi della sua carriera, in quelli belli e in quelli brutti: il mondo che scompare e Baggio da solo in mezzo a un prato verde che improvvisamente sembra fragile e insidioso come una sottile lastra di ghiaccio.

La storia collettiva che diventa storia individuale e Baggio che oscura gli altri 21 in campo e le migliaia sugli spalti, abbracciando la solitudine come una disciplina e come un vizio.

Parte I. La sfortuna non esiste

Il legame con la Fiorentina è speciale fin dalle origini: a sedici anni Baggio è un bambino - sciamano che incanta il pubblico del Vicenza, in serie C1. I biancorossi lo prendono dal Caldogno prima che abbia l’età richiesta dal regolamento per giocare partite ufficiali anche solo in Primavera, per cui per alcuni mesi Baggio partecipa soltanto agli allenamenti. Nel frattempo si rompe il menisco, ma questo non gli impedisce di esordire in prima squadra appena compiuti sedici anni e segnare subito su rigore.

Con un’aureola pagana di ricci neri non ancora raccolti, i lineamenti duri, sottili, vagamente asiatici, in una stagione e mezza segna sedici gol riuscendo a non farsi azzoppare da avversari grossi il doppio di lui ma veloci la metà.

Nelle immagini filmate con una sola telecamera dalle modeste regie delle categorie inferiori lo si vede disegnare arabeschi intorno ai difensori avversari, adornare il campo palla al piede con traiettorie di corsa incomprensibili e forse irridenti, piegarsi sul pallone e prendere improvvisamente velocità quando sembra stia per perdere l’equilibrio. Si vedono difensori che cadendo si allungano disperatamente per aggrapparsi alla sua maglietta e altri che si ritraggono e provano a far finta di niente, come in un affresco del giudizio universale. Si vede Baggio partire da lontano e conquistare un rigore con la linearità di una mossa di torre a scacchi, poi lo si vede sprecare un gol a porta vuota con l’incoscienza della gioventù, solo per il piacere di aspettare il ritorno del portiere e tentare un ultimo dribbling.

Il calcio di Baggio da ragazzino è semplice in modo disarmante, come succede sempre coi predestinati e con la loro capacità di districare all’istante materie che a noi sembrano complicatissime. “Avevo solo un pensiero – ricorderà, evocando questo periodo – prendere la palla e andare dritto in porta”.

Come tutte le dimostrazioni di genio precoce, le immagini di Baggio al Vicenza contengono un elemento di mostruosità, e in una tale sorgente di bellezza spontanea, immeritata, c'è qualcosa di crudele e sconfortante.

Una parte di noi vuole che Baggio faccia un altro tunnel, ma un’altra si identifica nei difensori che si sono allenati una vita per arrivare a trent’anni e farsi prendere in giro da un bambino.

Anche facendo un ulteriore passo indietro, il racconto degli esordi di Baggio assomiglia a certe nerissime mitologie di fondazione che associamo più all’epoca del rock o delle arti che a quella sportiva (con la differenza che qui, fortunatamente, la “morte” prematura dei giovani prodigiosamente dotati non va intesa in senso letterale ma solo sportivo): “Negli allievi del Vicenza eravamo così forti che spesso a fine partita andavamo dall’arbitro a chiedergli se avevamo vinto 8 o 9 a zero. Capisci? Perdevamo il conto – racconterà nella sua autobiografia Una porta nel cielo – c’era Marangoni. C’erano i miei amici del cuore Diego Ceola e Mauro Carli. Che fine hanno fatto? Si sono rotti i legamenti del ginocchio, come me, più o meno nello stesso periodo. Purtroppo, non ce l’hanno fatta a riprendersi. Oggi Diego possiede un bar e Mauro lavora in un’officina”.

Talento locale - di Caldogno per la precisione, poco più di 10.000 abitanti, qualche chilometro a nord del capoluogo - sesto degli otto figli di Florindo e Matilde, nonostante la nomea del predestinato si divide, non ancora maggiorenne, tra lo sport agonistico e il lavoro nella carpenteria del padre. “Era un padre molto...rigido. Teneva molto all’educazione, teneva molto al rispetto, teneva molto all’onestà” ricorda Baggio con incondizionata ammirazione “Tutto il tempo che aveva lo passava a lavorare. Perché non aveva tempo di star lì a... ad ascoltare o comunque... a confrontarsi” aggiunge.

Molti aspetti della vita, della personalità e persino del vocabolario del Baggio adulto sembrano in effetti scolpiti dall’influenza di un genitore autoritario: la fissazione per il “rispetto” e per l’”umiltà”, l’orrore per la menzogna che lo porta a ripetere quasi in ogni intervista di essere una persona “schietta” e “diretta”, la severità nei confronti di se stesso, l’etica del sacrificio, l’amore per la solitudine e la natura, perfino il fatto di essersi sposato giovanissimo con una ragazza conosciuta in pratica da bambino (che è un modo di uscire presto dal nucleo familiare originario, ma senza contestazione).

Nel 1985 Baggio riceve il primo riconoscimento della carriera, il Guerin d’Oro come miglior giocatore della serie C, e la chiamata della Fiorentina. Quando viene a sapere che i “viola” vogliono farne il diciottenne più pagato d’Italia, Baggio commenta a un giornale locale: «Continuerò la mia vita, calcio e fabbrica. Spero solo che mio padre mi conceda qualche ora di riposo in più », come se non gli fosse del tutto chiaro che giocare in serie A è un lavoro a tempo pieno.

A fine campionato, però, contro il Rimini allenato da un giovanissimo Arrigo Sacchi, tenta una scivolata ma mette male la gamba destra rompendosi il crociato anteriore, la capsula, il menisco e il collaterale. Oggi sarebbe un infortunio gravissimo, ma allo stato della scienza chirurgica di quegli anni significa la concreta possibilità di non poter giocare mai più a calcio. La Fiorentina non ha ancora firmato niente e potrebbe tirarsi indietro, ma non lo fa. Paga i quasi tre miliardi pattuiti con il Vicenza e porta comunque Baggio a Firenze, prendendosi carico delle cure e della riabilitazione.

Baggio viene operato in Francia e salta tutta la prima stagione in viola per ristabilirsi. Possiamo immaginarcelo, appena diciottenne: i risvegli alla mattina presto con la testa piena di nuvole e i sensi affilati dal dolore al ginocchio, la fisioterapia e poi, col passare delle settimane, gli allenamenti in solitaria per imparare di nuovo a correre, a calciare, a scaricare il peso del corpo prima su una gamba e poi sull’altra. Secondo le testimonianze dell’epoca, per sei mesi non si fa mai vedere al campo di allenamento, in pratica non fa nemmeno conoscenza con i nuovi compagni, e se ne sta da qualche altra parte ad allenarsi furiosamente come uno scrittore indebitato rinchiuso in una mansarda in un periodo di feroce e dolente ispirazione.

Torna in campo all’inizio della campionato ‘86/’87contro la Sampdoria, in una partita che la Fiorentina vince facilmente per 2 a 0. La sua intervista nel dopopartita mostra bene il livello di frustrazione accumulato da Baggio stando fermo un anno, e fa venire voglia di abbracciarlo: “non sono abbastanza contento di me stesso” risponde seccamente a un giornalista che vorrebbe solo qualche parola di circostanza sul suo esordio in serie A. “Cosa non è andato?” chiede allora quello, spiazzato. “eh, l’ultima azione. Non ho dato il pallone a Monelli. Stavolta eravamo sul 2-0, ma magari potrei rifarlo sullo 0-0”.

Pochi giorni dopo in allenamento il menisco salta di nuovo. Forse è questo il momento in cui una zona di oscurità entra nella vita di Baggio per non uscirne mai più, colorando di una luce epica ma anche di un senso di paranoia, persecuzione e rivalsa tutti i grandi successi e le cadute che seguiranno per quasi un ventennio.

Baggio perde un’altra stagione e sprofonda in una spirale di autocommiserazione: «Avevo occhi solo per la mia sfortuna. Non guardavo nient'altro, non avevo altri interessi: esisteva solo il mio dolore». In riferimento alla vita di quel periodo ricorda: «Non avevo voglia di uscire di casa e anche se mi fosse venuta pensavo che la gente mi avrebbe giudicato male: ‘guarda Baggio, invece di curarsi si dà alla bella vita’».

Uno dei pochi amici che frequenta in quel periodo è Maurizio Boldrini, membro della Soka Gakkai, la scuola italiana del buddhismo giapponese. Dopo un breve apprendistato, Baggio si aggrappa alla nuova filosofia come un naufrago ad una tavola di legno, e attraversa un periodo di vero e proprio fervore spirituale. Prende l’abitudine, tuttora mai abbandonata, di dedicare alla preghiera l’enormità di due ore al giorno.

Sempre nell’autobiografiaracconta di essere stato sedotto dalla “rivoluzionaria” idea buddhista che «ognuno è responsabile di quello che gli succede: tutto ciò che ti capita, è colpa o merito tuo». In realtà questa è una banalizzazione (se non proprio una distorsione) tipicamente occidentale del concetto complesso di karma, ma non è difficile capire perché un ragazzo di diciott’anni che sarebbe in grado di volare se solo gli infortuni lo lasciassero camminare sia attratto dal messaggio che non esiste la sfortuna e tu puoi controllare tutto. «Senza il buddhismo non avrei mai superato i miei problemi fisici» dirà tanti anni dopo.

Nonostante la vera e propria rivoluzione interiore che attraversa, Baggio vivrà sempre la propria adesione al buddhismo con discrezione e senza manifestazione plateali. Siamo però nel 1988, la moda delle religioni orientali è già esplosa negli Stati Uniti ma in Europa ancora no, e quindi in un ambiente prosaico e conformista come quello del calcio italiano il buddhismo di Baggio è più che sufficiente a conferirgli una notevole aura di eccentricità. A molti sembra un vezzo da divo, un capriccio da star annoiata che finisce per tracciare un’ulteriore barriera di incomprensione tra Baggio e il resto del mondo.

Roberto Baggio riesce a rientrare in campo alla penultima di campionato, giusto in tempo per partecipare da avversario alla festa del primo scudetto del Napoli di Maradona al San Paolo.

Una manciata di minuti dopo che Carnevale ha portato in vantaggio gli azzurri, il nuovo (di fatto) fantasista viola va sul pallone per calciare una punizione poco fuori dall’area di rigore. Il primo gol in serie A di Roberto Baggio è carico di suggestioni simboliche: la nascita di un nuovo immenso 10 (anche se quel giorno indossa l’11) nel giorno della grande festa del più grande numero 10 di sempre, con una parabola lenta, tagliata e paradossale, proprio come quelle che spesso nascevano dal piede di Maradona.

È facile vederci un’investitura, soprattutto considerando che da lì a cinque o sei anni quel ragazzino in completo viola con le gambe magre e i calzettoni abbassati sarà considerato l’unico giocatore al mondo capace di competere, quantomeno sotto il profilo strettamente tecnico, con le capacità stregonesche del Pibe de Oro.

Nella stagione successiva, con Sven-Goran Eriksson sulla panchina viola, Baggio finalmente può giocare da titolare in serie A senza essere tormentato dagli infortuni. Alla seconda di campionato la Fiorentina va a Milano, per il battesimo a San Siro di Arrigo Sacchi, Marco Van Basten e Ruud Gullit. Ma non sono i due olandesi a prendersi la scena.

Due minuti dopo il vantaggio viola segnato da Ramon Diaz, Baggio riceve un pallone poco oltre la metà campo, rallenta per un attimo come se dovesse raccogliere su di sé le energie che lo circondano e poi parte improvvisamente sfilando tra Filippo Galli e Ancelotti a una velocità innaturale, come una barca a vela a pelo d’acqua sospinta da un colpo di vento improvviso. Arriva quindi davanti a Giovanni Galli con largo margine, rallentando al piccolo trotto. Finge di accelerare di nuovo verso l’esterno e invece sposta il peso di colpo e salta il portiere sull’interno, una cosa difficilissima e rischiosa che però per Baggio diventerà una specie di marchio di fabbrica. Infine mette in rete con il piatto, senza fretta.

Nella sua prima stagione da protagonista Baggio segna sei gol, e soprattutto conferma di possedere la grazia inafferrabile dei predestinati. All’ultima di campionato conquista definitivamente uno spazio speciale nel cuore dei tifosi viola segnando il gol del vantaggio contro la Juve al Comunale, con una frenata improvvisa in area che fa girare la testa a Bruno seguita da un preciso passante di destro.

Nel novembre successivo, contro i Paesi Bassi, Azeglio Vicini lo fa esordire con la maglia più importante della sua carriera: quella azzurra della Nazionale, con cui diventerà un’icona mondiale.

22 aprile 1989, Italia - Uruguay, il primo gol di Baggio in Nazionale.

L’’88/’89 è l’anno della vera esplosione di Baggio, che con Stefano Borgonovo dà vita a una delle coppie d’attacco più amate della storia della Fiorentina, la B2.

Appare subito chiaro che Baggio è un giocatore unico, estremamente moderno e allo stesso tempo già classico per portamento e universalità del suo patrimonio tecnico. Il pallone si calma immediatamente quando gli arriva tra i piedi, anche se il passaggio è impreciso o troppo forte, e poi gli resta incollato addosso come se Baggio avesse imparato a camminare così. È uno di quei giocatori che sembrano provare repulsione per qualsiasi manifestazione di forza fisica sul campo, e riesce a sfilare tra gli avversari come se per loro fosse impossibile toccarlo o se lui si trovasse su un piano dimensionale diverso. Le immagini di alcune tra le sue discese sembrano la sovrapposizione di due pellicole diverse, una con gli avversari che arrancano e l’altra con Baggio che corre indisturbato verso la porta.

È, però, un giocatore molto diverso dai grandi ’10’ dell’epoca - Maradona per esempio, ma anche Platini che ha appena smesso - perché rispetto alla loro centralità nervralgica lui ha una presenza più intermittente e liminale, che gli consente di assecondare la propria naturale attrazione verso la porta avversaria. Baggio ha la tecnica di un trequartista epocale ma invece della pazienza del ragno che tesse una tela a centrocampo ha la cattiveria e la verticalità di un attaccante. Anni dopo questo gli varrà la famosa definizione (coniata proprio da Platini) di “nove e mezzo”, e darà luogo a una serie di malintesi e di contrasti con allenatori e dirigenti. Il ragazzino che fa sognare i tifosi della Fiorentina non può ancora saperlo, ma la sua unicità lo terrà per tutta la carriera in bilico sul crinale affilato tra ciò che è indispensabile e ciò che è superfluo.

L’incanto degli anni di Baggio alla Fiorentina e il suo impatto fortissimo sul calcio italiano - a livello tecnico ma anche di immaginario - possono essere riassunti in una manciata di gol che ancora oggi fanno davvero stropicciare gli occhi. Contro la Lazio nel gennaio dell’89 la Fiorentina ottiene una punizione di seconda dal limite dell’area. Baggio la tocca per Di Chiara che gliela ferma, ma sull’uscita dell’uomo in barriera Baggio invece di calciare se la tocca ancora un po’ più in là e poi lascia partire una parabola mai vista, che gira sul secondo palo e sembra andare verso la punta delle dita di Fiori, ma per qualche motivo si alza ancora e va a baciare la faccia interna della traversa, sotto l’incrocio dei pali. La palla è lentissima ma avrebbe potuto esserlo ancora di più. L’impressione è che Fiori non avrebbe potuto farci niente nemmeno se Baggio gliel’avesse spiegata prima, nemmeno se gli avesse indicato l’incrocio dei pali o fatto un disegnino con la traiettoria.

Invece all’inizio della stagione ‘89/’90, l’ultima in viola, Baggio segna un gol che se gli fosse capitato in una partita appena più importante di un primo turno di Coppa Italia contro il Licata sarebbe nella storia del calcio italiano. Su un lancio in profondità riesce a saltare il portiere con un sombrero, poi inchioda la palla a terra quasi sulla linea di fondo, fa una giravolta e con due sterzate secche manda a vuoto il ritorno del portiere e un difensore, come in uno spaghetti western in cui due mosse accennate dal protagonista bastano a mettere ko un’intera banda di fuorilegge. Poi con la punta del piede spedisce la palla in rete, superando i difensori avversari disposti sulla linea di porta praticamente come una muraglia umana.

Baggio anticipa un po’ il famoso gol di Ibra ai tempi dell’Ajax.

Infine, e soprattutto, c’è quello che secondo molti resterà il più bel gol della carriera di Baggio (e credetemi, la competizione è dura) segnato contro il Napoli il 17 settembre dell’89. Baggio riceve palla praticamente al limite dell’area viola, e si lancia in un coast-to-coast paragonabile a quello famosissimo di Weah contro il Verona o agli “Undici Tocchi” di Maradona. Per una ventina di metri conduce la palla con il collo esterno del piede, riuscendo a mantenere una velocità maggiore degli avversari in corsa libera. Poi rallenta, coccola il pallone con l’esterno e salta secco Renica con una frustata verso destra, sterzando subito dopo per sfilare tra Ferrara e la disperata scivolata di Corradini. Solo davanti a Giuliani, lo salta nascondendo la palla con l’interno e poi procede a passettini come se volesse entrare in porta col pallone. Infine se lo sistema sul destro e insacca nell’angolino.

Proprio come Maradona contro l’Inghilterra, Baggio sembra l’unico con le scarpe mentre gli altri provano a correre scalzi sulle uova o qualcosa del genere. Dall’alto la sua discesa è irregolare ma fluida, come quella di una goccia d’acqua sulla condensa.

Alla fine della stagione ‘89/’90 ha Firenze ai suoi piedi. Ha segnato quasi venti gol nonostante il campionato mediocre della squadra, e ha fatto brillare gli occhi degli appassionati di calcio di tutta Europa nella cavalcata che ha portato la Fiorentina alla finale di Coppa Uefa, persa con gli eterni rivali della Juve.

Nella finale di andata la Juve segna un gol chiaramente irregolare,

e subito dopo Baggio (già chiacchieratissimo) fallisce l’occasione

del pari. Al ritorno sbaglierà un altro gol. Prima delle finali aveva

chiesto pubblicamente alla società viola di ‘smentire certe voci di

mercato’, ma la sua richiesta era rimasta inascoltata.

Non è la prima estate in cui il giovane fantasista è al centro delle attenzioni delle grandi squadre italiane (che all’epoca è un po’ come dire delle migliori squadre europee). Un anno prima l’Inter aveva provato a portarlo a Milano senza successo, e già nel ’88 il conte Pontello, proprietario della Fiorentina, aveva in qualche modo presagito che non sarebbe stato semplice trattenerlo: «Baggio se vuole può firmare a vita ma quando vuole parlare di soldi, mi raccomando, deve venire da solo».

Appunto: nel 1990 Antonio Caliendo è più o meno ciò che oggi è Mino Raiola. Di più: è colui che ha inventato la professione, facendo firmare nel 1977 la prima procura di un calciatore a un agente nella storia del calcio italiano. Il calciatore, allora appena diciassettenne, era Giancarlo Antognoni, e il luogo della firma, naturalmente, Firenze.

Tredici anni dopo Caliendo è il più importante procuratore italiano, e un talento epocale come Roberto Baggio finisce quasi fatalmente nella sua scuderia. Proprio come Raiola, Caliendo sa di non poter tenere in conto i sentimenti dei tifosi, e dopo una trattativa mai del tutto sbocciata col Milan inizia a parlare di Baggio proprio con i più acerrimi rivali della viola. «Faremo di tutto per portare Baggio alla Juventus» dice l’avvocato Agnelli a un gruppo di tifosi. «Baggio è nostro al 51%» aggiunge qualche giorno dopo, vidimando poi la dichiarazione con la smentita di rito. Infine, con la consueta verve immaginifica: «Baggio è uno di quei giocatori che non vogliamo far invecchiare».

In uno strano gioco di eco, Caliendo invece non fa nomi ma tira fuori le cifre: «Una grande squadra è pronta a pagare 25 miliardi» dichiara.

E Baggio? La sua prima reazione è insolitamente drastica per un professionista, soprattutto in rapporto a quella che per il momento è solo una voce: «non se ne parla, sono sicuro di restare alla Fiorentina».

I tifosi però sono inquieti, e lanciano una campagna di sottoscrizione straordinaria degli abbonamenti per trattenere il loro idolo. Il fermento è tale che dice la sua persino Cecchi Gori, all’epoca tutt’al più indicato da qualche fantasioso giornalista come potenziale futuro acquirente della Fiorentina: «Vogliono che compri la Fiorentina per salvare Baggio, ma quello non lo salva più nessuno».

Lo strappo arriva il 18 maggio, quando Caliendo convoca una conferenza stampa e annuncia: «Baggio è un giocatore della Juventus». I tifosi fiorentini si riversano nelle strade, si scontrano con la polizia, lanciano sanpietrini e vengono dispersi coi lacrimogeni. Una reazione fuori scala almeno quanto lo sono, rispetto agli standard dell’epoca, le cifre del trasferimento: pagato 18 miliardi più il cartellino di Renato Buso, Roberto Baggio diventa il calciatore più costoso di sempre.

Lui appare sballottato e ombroso come capita spesso ai calciatori coinvolti in questi trasferimenti-caso, e sembra preoccupato soprattutto di proteggere il proprio talento dal rumore e dai pettegolezzi. Alla prima conferenza stampa da giocatore della Juve, però, gli passano una sciarpa bianconera e lui la rifiuta, in un’anticipazione del gesto opposto con cui qualche mese dopo raccoglierà la sciarpa viola al Franchi. L’ autolesionismo qui è quasi poetico: Baggio sceglie di mostrare rispetto a una tifoseria che comunque lo considera un traditore, a rischio di inimicarsi i suoi nuovi tifosi. Se ne possono trarre varie conclusioni, incluso il sospetto che la lungimiranza non rientri nel novero delle qualità del nostro, ma anche questo aneddoto ripropone l’elemento ricorrente di questa storia: Baggio non ha paura di restare solo.

Nessun contrasto con i tifosi potrà comunque allentare il suo legame con la Fiorentina, a cui tantissimi anni dopo renderà omaggio scegliendo un aggettivo che mi pare bellissimo: “Il Baggio che avete visto a Firenze” dirà dopo essersi ritirato “è stato il più puro”

Parte II. Notti magiche

“Ai mondiali vado ancora da giocatore della Fiorentina” dice Baggio, dopo che il suo trasferimento alla Juve è diventato ufficiale.

Nel 1990 il calcio italiano è il più bello e competitivo al mondo con un distacco a cui oggi né quello inglese né quello spagnolo possono aspirare. Tutti o quasi i grandi campioni dell’epoca giocano in Italia, e il programma del mondiale trabocca di incroci geografici e sportivi pieni di fascino: l’Olanda dei tre milanisti contro la Germania dei tre interisti a San Siro, l’Argentina di Maradona a Napoli nel girone e poi di nuovo in semifinale contro l’Italia, in un contesto che non ha ancora finito di generare polemiche.

L’Italia di Vicini non ha forse l’assortimento di fuoriclasse del Brasile, della Germania o dell’Argentina ma è di diritto tra le favorite, perché gioca in casa e per il gioco divertente ed efficace mostrato solo due anni prima con un gruppo molto simile agli Europei di Germania.

Baggio arriva all’appuntamento da riserva di lusso, e in condizioni psicologiche e ambientali molto difficili. Al ritiro di Coverciano, a pochi chilometri da Firenze, lo portano su una volante. «Ero circondato dal risentimento di quelli che avrei voluto fossero ancora i miei tifosi». Nelle prime due partite contro Austria e Stati Uniti, mentre Vicini insiste su Vialli e Carnevale, e Schillaci da subentrante inizia a incidere il proprio nome sulle “notti magiche”, Baggio non si alza nemmeno dalla panchina.

Il 19 giugno 1990, quando l’Italia all’Olimpico di Roma incontra la Cecoslovacchia in una partita ormai pressoché inutile ai fini della qualificazione, diventa però imprevedibilmente la data di inizio della leggenda mondiale di Roberto Baggio. Dopo 78 minuti giocati così così, per sua stessa ammissione con le gambe molli per l’emozione, Baggio riceve palla da Giannini prima della linea di metà campo, defilato a sinistra, spalle alla porta. La controlla, si gira e dopo un’occhiata alla metà campo avversaria restituisce subito palla al capitano della Roma, quasi con deferenza. Giannini però crede nel suo movimento anche più di lui, e lo serve di nuovo in profondità di prima.

Baggio riceve col sinistro, e quando accelera piegandosi lievemente verso destra è come se il campo si inclinasse di colpo. La palla sembra procedere attaccata al piede di Baggio per volontà propria o per gravità, e il primo ad accorgersi che sta per succedere qualcosa di eccezionale è il mediano cecoslovacco Hašek, che a trenta metri dalla porta si lancia in una scivolata disperata, come se presagisse che superata quella soglia non ci sarà più modo di interrompere l’azione. Baggio non sembra nemmeno accorgersi degli ottanta chili di Hašek che piombano da dietro di lui contro le sue caviglie: senza cambiare velocità e senza smettere di guardare davanti a sé fa un saltino, evitando l’intervento e continuando a puntare la porta avversaria. Tra lui e il portiere resta il terrorizzato Kadlec, che continua ad arretrare a passettini convulsi senza avere idea di cosa fare.

Baggio gli piomba addosso, con le gambe che sembrano incrociarsi e saettare come pulviscolo in controluce, poi finge di andare a sinistra ma con un passo da milonguero cambia direzione, aprendosi lo spazio per spiazzare Stejksal con un destro secco.

“In campo mi è sembrato un gol bellissimo – dirà anni dopo in un’intervista –

ma quando l’ho rivisto da fuori... dài...normale... (sorriso tirato) Guarda che non lo dico per... A volte penso che avrei potuto fare di più. Saltare il portiere ad esempio.

Allora il gol sarebbe stato completo”

I gol così segnati ai mondiali sono rari come diamanti, e segnano un’epoca. L’indomani Repubblica titola enfaticamente: “È nato il genio che ci farà felici”. Baggio concede: «È il gol più importante della mia carriera. Una specie di liberazione». E in effetti la carriera di Baggio cambia per sempre: con questo gol si apre un arco di quattro o cinque anni (approssimativamente da Italia ‘90 a USA ‘94) in cui Baggio accede ad un livello di fama diverso da quello strettamente sportivo e diventa una vera e propria star mondiale. Il mondo da noi italiani si aspetta una manciata di cose tra cui la bellezza e l’estro, e l’artista minuto che scivola in maglia azzurra tra gli energumeni cecoslovacchi come in una danza rituale ha un impatto fortissimo sull’immaginario collettivo. Il codino di Baggio diventa un simbolo globale di grazia con una punta di leziosità, e il suo nome e la sua faccia sono impossibili da ignorare anche per chi non sa niente di lui nello specifico, come quelli di Michael Jordan o di Bono Vox.

Agli ottavi contro l’Uruguay e nei quarti contro l’Irlanda Baggio è confermato titolare con Schillaci, e continua a increspare il campo con ondate di puro talento, come la discesa che porta al gol decisivo di Schillaci contro gli irlandesi. In semifinale contro l’Argentina però, con una scelta che non gli verrà mai perdonata, Vicini restituisce la maglia da titolare a Vialli. Il resto è storia nota: il pareggio nei tempi regolamentari, Baggio che entra a un quarto d’ora dalla fine e nei supplementari sfiora il gol su punizione, fa espellere Giusti, mette il panico alla difesa albiceleste con un paio di serpentine delle sue, e poi segna anche il suo rigore. Ma non basta, e l’Italia viene eliminata.

Nella finalina contro l’Inghilterra Baggio fa ancora in tempo a dare un saggio della sua distanza glaciale in area di rigore, rubando palla al portiere e poi depositando in rete dopo un dribbling secco quasi sulla linea di porta.

Parte III. Tutte le strade portano a Pasadena

Baggio arriva quindi alla Juve da eroe di un’impresa incompiuta, e per un paio di stagioni rimane intrappolato nello stesso schema. Il suo impatto in bianconero è devastante fin da subito (al netto di incomprensioni coi tifosi come quella del Franchi con cui ho aperto questo pezzo) ma dobbiamo ricordarci che la Juventus in cui approda Baggio non assomiglia a quella di oggi in quasi nulla, se non nel lignaggio. Incapace di vincere lo scudetto per cinque anni, frastornata dai colpi del Napoli di Maradona e del Milan di Berlusconi, la Juve cerca in Baggio l’elemento decisivo per colmare il gap dalle avversarie, ma non riesce per il resto a costruire una squadra all’altezza. Per capire il punto da cui parte l’avventura di Baggio in bianconero basta prendere il suo esordio assoluto, in Supercoppa italiana, quando la Juve viene letteralmente maltrattata dal Napoli di Maradona che le rifila cinque gol. L’unica marcatura bianconera la segna Baggio su punizione, rispondendo poi alla maliziosa domanda di un giornalista a fine partita: «Nessun messaggio a Maradona. Ha vinto di nuovo e tutti i complimenti vanno a lui».

La Juve di Maifredi continuerà su questa falsariga fino a fine stagione: prestazioni mediocri o addirittura deprimenti punteggiate dai colpi di genio estemporanei di Baggio, che palleggia in mezzo a quattro o cinque giocatori del Pisa o che danza nell’area del Parma prima di spedire un pallone a giro sotto l’incrocio dei pali. In campionato segna 14 gol, mentre in Coppa delle Coppe ne fa addirittura 9 in 8 presenze, l’ultimo dei quali è una splendida punizione in semifinale contro il Barcellona che però non basta ad evitare l’eliminazione.

Senza titoli e con un settimo posto in campionato che la esclude dalle coppe, per il ‘91/’92 la Juve esonera Maifredi e richiama Giovanni Trapattoni, l’allenatore dell’ultimo scudetto. La musica cambia e la Juve riesce ad arrivare seconda, sia pure lontanissima dal super Milan di Fabio Capello. Baggio segna 18 gol e in un certo senso sale ancora di un gradino: se l’anno prima è stato un grande attore che recitava in una pièce scritta e diretta malissimo, adesso il livello della sua interpretazione è tale da nascondere i difetti della struttura e valere da solo il prezzo del biglietto. Nella seconda metà del torneo trascina la squadra segnando in pratica un gol a partita, ma soprattutto dà mostra di una tecnica che ormai eccede il manuale del calcio e ne scrive nuovi capitoli: contro il Foggia inventa un gol alla Del Piero ante litteram, dopo aver agganciato il pallone in volo con il malleolo, e due settimane dopo con l’Atalanta scaglia il pallone di collo pieno sinistro sotto l’incrocio dei pali, con la naturalezza di un mancino. Contro la Cremonese protegge la palla in area buttando a terra due difensori come un centravanti di peso, prima di mettere a sedere Rampulla con l’ormai consueta spazzolata d’interno e depositare in rete. Contro l’Inter segna forse il gol più bello di tutti, attraversando il campo quasi senza fretta in una rete di triangoli coi compagni, come se il campo fosse un labirinto e lui l’unico ad avere la mappa.

Tutta Italia si è ormai resa conto di avere di fronte non soltanto un campione, ma uno di quei giocatori di cui ci si vanterà di essere stati contemporanei. “Ho visto giocare Baggio” sarà per quella generazione di tifosi il corrispettivo del “ho visto giocare Rivera” dei padri o del “ho visto giocare Piola” dei nonni. Un’esperienza collettiva che definisce una generazione e rassicura, per metonimia, di aver abitato un’epoca degna di essere vissuta.

Manca ancora qualcosa, però. Qualcosa di importante. Baggio ha 25 anni, l’età della maturità dei campioni, e non ha ancora vinto niente. Ha tante giustificazioni, certo, dagli infortuni al livello mediocre della Juve in quegli anni (passando per l’eliminazione ai rigori dal mondiale) ma il giudizio su un calciatore è in questo senso tradizionalmente sommario: per diventare uno dei grandi di questo sport ci vogliono i trofei. A sintetizzare questa mancanza per Baggio è la classifica del Pallone d’Oro 1992, che nonostante un’annata stellare non lo vede nemmeno menzionato in una classifica che comprende il romanista Hassler al terzo posto, Stéphane Chapuisat all’ottavo, Enzo Scifo al decimo, una manciata di sconosciuti danesi appena diventati campioni d’Europa e addirittura al ventesimo posto tal Rune Bratseth, libero norvegese del Werder Brema.

Lo stesso Baggio dice all’inizio della stagione ‘92/’93: «Sono stufo di vincere solo i tornei da bar», e infatti prende la Juve per mano e con una delle stagioni individuali più memorabili della storia del calcio italiano la porta a vincere la Coppa UEFA. In particolare a partire dal 1993 Baggio entra nel periodo migliore della sua carriera, accedendo a quello stato di grazia frequentato solo da un campione o due per generazione in cui gli avversari possono fare poco o niente per arginarlo, e si limitano a contenere i danni collaterali come si fa con i grandi fenomeni naturali.

Il primo poker in serie A segnato da Baggio, contro l’Udinese. A fine

partita un giornalista gli dice: «Robi, forse quattro gol li avevi segnati

solo nel Caldogno, da ragazzino». «Lì ne avevo segnati sei» risponde

Baggio, e poi quasi si rabbuia: «poteva succedere anche oggi. Ma va

bé, sono contento anche così».

Prendete la primavera del ‘93: in campionato a San Siro Baggio riceve palla in profondità dal tedesco Moller all’altezza del centrocampo. Finge di andare incontro e invece la lascia sfilare facendo perno con la schiena per mandare a vuoto Costacurta alle sue spalle, che finisce addirittura seduto per terra. Baggio parte e divora mezzo campo con soli due tocchi da predatore, poi sterza di colpo davanti a Sebastiano Rossi mettendolo a terra e segna col sinistro. È il gol del 3-1 con cui la Juve espugna il campo dell’imbattibile Milan di Capello, ed è un saggio impressionante di come Baggio abbia la capacità di trasformare da solo l’azione della squadra in offensiva, anche a sessanta metri dalla porta.

Quello che fa davvero impressione è la combinazione di velocità

e controllo. Se io o voi per magia da domani potessimo correre velocemente

come Baggio, probabilmente ci faremmo schizzare via la palla dai piedi al primo

o al secondo tocco. Lui la tiene attaccata ai piedi come se fosse la sua normale

velocità di crociera.

Intanto c’è la fase decisiva della coppa UEFA, e qui se possibile Baggio riduce ancor più autoritariamente il racconto della vittoria della Juve a storia individuale, relegando compagni e avversari al ruolo di comparse. Nella semifinale di andata contro il PSG la Juve va sotto in casa subendo un gol di Weah, e vede in faccia l’eliminazione. Nel secondo tempo però Baggio prima pareggia con una rasoiata di collo esterno da venti metri che resta bassa e continua a sfiorare l’erba fino a insaccarsi nell’angolino a destra di Lama, e poi segna il gol del 2-1 su punizione.

Nel ritorno a Parigi mette dentro di rapina in pratica il primo pallone che sfugge all’assedio forsennato dei francesi, suggellando la qualificazione.

Sul primo gol i telecronisti francesi si limitano a definire Baggio “un attaccante”.

Sul secondo assumono il tono grave di quando bisogna riconoscere che un italiano è bravo.

Infine, Baggio domina la finale d’andata contro il Borussia, a Dortmund, segnando due gol da attaccante puro: il secondo, in particolare, è una girata strozzata che sarebbe quasi goffa se non fosse l’unico modo di far rotolare la palla lentamente come una boccia verso l’angolo cieco in cui il portiere del Borussia non può arrivare. Baggio è a quel livello di ispirazione in cui perfino gli errori tecnici si trasformano in giocate decisive, come un tennista che segna un punto chiave con il telaio della racchetta o uno scrittore che sbagliando la punteggiatura di una frase apre al significato imprevisto che trasforma il suo romanzo in un capolavoro.

Un capolavoro, appunto, che viene premiato di conseguenza: a dicembre del 1993, Baggio diventa il terzo italiano dopo Rivera e Paolo Rossi (il quarto se vogliamo contare l’oriundo Omar Sivori) a vincere il Pallone d’Oro, piazzandosi davanti a Bergkamp e Cantona.

Riceve il premio con orgoglio ma anche con un certo undestatement: «Il Pallone d’Oro è una cosa mia» dichiara «sono sicuro che se scendeste in strada a chiedere ai tifosi cosa vorrebbero che vincessi vi risponderebbero lo scudetto, se sono juventini, o il Mondiale, se non lo sono. Infatti i miei veri traguardi sono questi, come per un attore è bello vincere l’Oscar, ma è molto meglio se il pubblico apprezza il suo film». Forse è questo genere di dichiarazioni che non piace ai giornalisti di France Football, se è vero come riporta Repubblica in un articolo dell’epoca che nell’intervista di rito rimangono “colpiti dall’insolita scontrosità del premiato”.

In ogni caso, come in una sceneggiatura perfetta, Baggio riceve il premio il 2 gennaio 1994 in occasione di Udinese-Juventus, e festeggia con una delle prestazioni e uno dei gol più impressionanti della sua carriera: prima inventa un assist splendido per Marocchi, poi segna un gol di tacco che solo per via delle regole dell’epoca figurerà come autogol di Pellegrini che tocca sulla linea, infine chiude la partita con una serpentina che descriverò come il telecronista del video dell’epoca che metto qui sotto: “Silenzio, parla Baggio”.

È il periodo più felice della carriera di Baggio, o per lo meno il meno controverso: i problemi fisici non lo hanno mai abbandonato, così come le polemiche (da quelle di chi continua a non considerarlo un leader a quelle di chi ha gridato allo scandalo per il Pallone d’Oro attribuito a lui e non alla carriera di Baresi) e si vocifera di qualche incomprensione nello spogliatoio e con Trapattoni, ma tutto sommato Roberto Baggio e il calcio italiano sono in luna di miele. C’è un’espressione ricorrente nei ricordi dei compagni di club e nazionale dell’epoca, che parlano di Baggio come uno che sapeva mantenere la “giusta distanza” dalle cose: dalla carriera, dalle polemiche, dalla propria stessa vita. Lo chiamano ‘la personcina’ per indicare il suo piglio dimesso e la maniera modesta di manifestarsi.

Anche le risposte laconiche nelle interviste, in cui i giornalisti gli parlano del suo posto nella storia della Juve e lui risponde raccontando come si diverte a prendere in giro Torricelli che non segna mai, fanno pensare a un campione che coltiva un certo scetticismo nei confronti della retorica e degli entusiasmi del mondo del calcio. Più che un’attitudine innata, però, sembra una disciplina che Baggio è riuscito a imporsi con gli anni. In un lunghissimo documentario della Gazzetta su di lui che si trova su YouTube in dieci puntate, la primissima cosa che Baggio dice è che la vita del calciatore ha un grande difetto e un grande pregio: il grande difetto è che quando le cose vanno bene non hai tempo per godertele. Il grande pregio è che quando le cose vanno male hai subito modo di rifarti.

In altre parole, Baggio sembra dire che nel calcio è inutile preoccuparsi del passato e del futuro perché conta solo il presente. E lo dice come si enunciano le verità che riteniamo di aver imparato pagando un prezzo: con convinzione, ma anche con malinconia.

E’ in questo periodo, almeno quindici anni prima che Moehringer e Agassi ne facciano un vero e proprio genere letterario, che Baggio inizia a lasciar venire a galla nelle interviste un grumo di fatica da campione riluttante: “Il calcio è diventato troppo complicato – dice a Repubblica -Non mi diverto più. Ma spero di far divertire chi paga”.

Si arriva così al Mondiale americano del 1994. Arrigo Sacchi nelle qualificazioni mette in chiaro due cose: che Baggio per lui è la stella della squadra e che Baggio per lui è un attaccante. Non una seconda punta, non un trequartista che parte defilato sulla sinistra per accentrarsi, ma una delle due punte del 4-4-2.

Il percorso di avvicinamento al mondiale di Baggio è travagliato come spesso capita (o capitava, prima di Ronaldo e Messi) a chi vince il Pallone d’Oro: una lieve flessione di rendimento e tanti piccoli problemi fisici lo rallentano. Proprio in Nazionale si frattura una costola, poi si fa male a un piede e subito prima del mondiale al tendine di Achille sinistro.

Il film del Mondiale di Baggio, quello che abbiamo rivisto tutti mille volte, inizia con un’altra delle sue solitudini: lo sguardo incredulo verso la panchina, il campo attraversato a testa bassa, quel “ma questo è matto” detto tra sé ma in modo che tutti possano leggere il labiale, la posa inflessibile di Sacchi con gli occhiali scuri da poliziesco anni Settanta. Baggio spiegherà quel labiale tante volte negli anni successivi, ripetendo che la sua reazione non fu dovuta alla sostituzione in sé, ma alla parola non mantenuta da Sacchi, che all’inizio del mondiale gli avrebbe garantito: «Tu per questa squadra sei insostituibile, come Maradona per l’Argentina» (eccolo di nuovo, l’eterno confronto con El Pibe). Mi sembra una spiegazione plausibile, anche perché succede abbastanza spesso che i personaggi travolti da una fama e una popolarità incontrollabili come Baggio sviluppino per reazione una specie di ossessione narcisistica per la lealtà e la sincerità delle persone che gli stanno attorno.

Quello tra Baggio e Sacchi in quel Mondiale è però un rapporto complesso e contraddittorio, perché con la Nigeria è sempre Sacchi a lasciare Baggio in campo fino all’ultimo minuto, a partita virtualmente persa e nonostante una prestazione abulica. Quello che succede poi, mentre Pizzul già mormora “finiamo in un clima sconfortante”, contribuisce ad instillare aspettative irrealistiche sui lieto fine nella vita in almeno un paio di generazioni di giovani spettatori:

Cambia tutto, in quel modo un po’ inverosimile da film americani in cui un attimo prima il protagonista è finito e quello dopo si riscatta completamente, scuotendosi di dosso tutti i fantasmi che lo stavano soffocando: qualche giorno dopo contro la Spagna, con la squadra in dieci e a due minuti dalla fine, Baggio salva di nuovo l’Italia, contraddicendo l’assunto per cui le cose eccezionali sono tali appunto perché non ripetibili. Su una verticalizzazione di Berti viene servito da Signori in spaccata. Solo davanti a Zubizarreta, Baggio lo salta sull’esterno allungandosi troppo il pallone e con un angolo ormai stretto a disposizione calcia forte e in diagonale, di un soffio troppo forte perché un difensore spagnolo riesca ad intervenire alla disperata. Baggio corre fino alla bandierina e alza le braccia al cielo, prima di voltarsi verso i compagni con una smorfia di sollievo che si può scambiare per felicità.

Con altri due gol segnati in semifinale con la Bulgaria Baggio completa un’incredibile sequenza di cinque gol in tre partite, portando l’Italia in finale e mettendo in chiaro al di là di ogni possibile discussione che in questo momento lui è il miglior giocatore del mondo.

Come purtroppo sappiamo bene, la sua impresa da eroe classico si fermerà a un passo dal compimento.

Baggio ha male alla caviglia, è in dubbio fino all’ultimo per la finale contro il Brasile, Sacchi prima della partita gli chiede se la sente e lui risponde affermativamente. Va in campo, ma non è il solito Baggio. Trotta per 120 minuti nel verde allucinato del prato di Pasadena senza incidere. «Non ero infortunato. Ero solo stanco come tutti gli altri». Ripeterà fino alla nausea negli anni successivi.

Sul rigore più famoso delle storia del calcio italiano sono stati spesi fiumi di inchiostro e palate di citazioni di De Gregori, ma ancora una volta il punto di vista più interessante è quello autografo dello stesso Baggio, che ripeterà in più occasioni di aver calciato tranquillo, a botta sicura, di aver perfino avuto una buona sensazione al momento del contatto del piede con il pallone, e di non avere idea del perché la traiettoria si sia alzata in quel modo.

È difficile credergli, naturalmente: Baggio calcia male e spedisce la palla alle stelle, ed è impensabile – proprio perché è Roberto Baggio – che non se ne accorga. Del tutto plausibile è invece che abbia deformato in buona fede il ricordo di un momento così larger than life, attribuendo la propria caduta a quello stesso complesso di forze magiche che hanno spinto in rete il pallone con la Nigeria, con la Spagna e con la Bulgaria. Un incantesimo che finisce con una maledizione.

La famosa pubblicità in cui Baggio invece segna il rigore, per la

quale spero si sia fatto pagare VERAMENTE TANTO

Indipendentemente dall’eziologia dell’errore; è inevitabile chiederci cosa sarebbe successo se quel rigore fosse entrato (e se il Brasile avesse sbagliato i due rigori successivi e l’Italia invece li avesse segnati, perché come Baggio ricorda ogni volta che ne ha l’occasione, al momento del suo errore la situazione era in realtà già largamente compromessa). L’Italia sarebbe diventata campione del mondo trascinata da un singolo giocatore in misura simile forse solo a quanto successo all’Argentina dell’86 con Maradona. Se oggi ricordiamo Baggio come uno dei due o tre talenti più nitidi della storia del nostro calcio, come lo ricorderemmo con quella vittoria? Possiamo addirittura immaginare che la tradizionale disputa tra sostenitori di Pelé e Maradona per il titolo di più grande giocatore di sempre si sarebbe arricchita di un terzo autorevole partito?

Non lo sapremo mai e non lo saprà mai Baggio, e probabilmente non gliene importa granché. Come dice lui, nel calcio non c’è tempo per godersi i successi e soffire per le sconfitte.

Conta solo il presente.

Parte IV. Perdersi nel mondo.

Sembra incredibile che un singolo errore dal dischetto possa determinare il destino di uno dei più grandi campioni di sempre, eppure in un certo senso da Pasadena in poi la carriera di Roberto Baggio, che ha ancora solo 27 anni, perde la linearità della propria traiettoria ascendente. Più o meno fino a fine millennio sarà perseguitato da un canovaccio costante, pur con varianti emotive e tecniche significative: stagioni iniziate con grandi aspettative, allenatori che col passare dei mesi si convincono che Baggio è meno insostituibile del previsto, discussioni da bar sulla sua capacità di leadership e di essere decisivo, contrasto aperto con l’allenatore, Baggio che decide di cambiare squadra ma subito prima riesce a inventare qualcosa di meraviglioso e decisivo, facendosi rimpiangere.

Andiamo con ordine. Il declino di Baggio a livello di top club inizia e finisce con la sua vera nemesi, l’unico tra i tanti allenatori con cui si è scontrato a cui ancora oggi non ha offerto un ramoscello d’ulivo: Marcello Lippi.

Lippi arriva alla Juve proprio dopo i mondiali americani da integralista del 4-3-3, un modulo che fin dall’inizio non sembra ideale per le caratteristiche del Codino. Allo stesso tempo la Juve si rende conto di avere in rosa un nuovo predestinato, che per certi versi assomiglia a Baggio come si assomigliano due diamanti della stessa taglia, e per certi altri è tutto il contrario. Alessandro Del Piero ha la stessa grazia efebica di Baggio, la stessa capacità di portare il pallone quasi per telepatia e poi sprigionare comete abbaglianti che si spengono dove il portiere non può arrivare. Anche caratterialmente i due hanno molti tratti comuni: la riservatezza, la scarsa loquacità, perfino il tono di voce dolce e dimesso.

Si collocano, però, a due poli opposti sul fronte del rapporto con la squadra. Se Baggio è sempre stato il trascinatore solitario, il campione che nel bene e nel male sembra levitare in una dimensione diversa da tutti gli altri, Del Piero costruirà invece la sua grande carriera nel ruolo di genio cooperativo, umile, capace di mettersi in secondo piano rispetto al collettivo. Non è difficile prevedere chi dei due andrà più d’accordo con Lippi e con la sua mistica della “squadra” e del “gruppo”.

Come se non bastassero i problemi con l’allenatore, nel ‘94/’95 di Baggio si ripresenta il fantasma dei guai fisici. Per colpa di un’infortunio al ginocchio e di un intervento chirurgico deciso forse troppo tardi, Baggio resta fuori in pratica da novembre ad aprile. Quando rientra riesce comunque a fornire alcune prestazioni decisive, e paradossalmente proprio in questa annata sciagurata vince il primo scudetto della sua carriera. Ma Lippi e i dirigenti della Juve hanno già deciso che il loro futuro è Alessandro Del Piero: la storia di Baggio alla Juve si conclude con una sceneggiata francamente evitabile, con tanto di ultras invitati ad assistere a un incontro per il rinnovo del contratto che tutte le parti sanno essere destinato a fallire. Nei primi giorni di luglio, con una trattativa di una sbrigatività quasi profana, Baggio viene ceduto per 18 miliardi al Milan, dove lo ha voluto Fabio Capello in persona.

A Milano le cose non andranno meglio che nell’ultima stagione a Torino: Baggio vince subito il secondo scudetto della carriera, ma nella squadra di Capello ha un ruolo marginale, spesso perde il dualismo con Savicevic, e nell’estate del ’96 subisce l’umiliazione di non essere convocato da Sacchi per gli europei (Roberto Baggio! Solo due anni dopo USA ’94!). Ci vuole poi un’altra stagione opaca per spingerlo a compiere la prima di una serie di scelte irrituali che gli permetteranno di aggiungere una coda imprevista alla propria leggenda.

I gol di Baggio nel Milan. Come un grande artista che per un paio d’anni non completa nuove opere ma si limita ai bozzetti, fa cose poco vistose ma comunque bellissime, come il colpo sotto nel derby con l’Inter del ‘97

Nell’estate del ’97 Baggio sembra a un passo dal Parma, la minore delle sette sorelle che si contendono quella grande serie A. L’accordo con Tanzi c’è, l’entusiasmo del giocatore anche, ma all’ultimo momento a porre il veto sull’operazione è Carlo Ancelotti. Una decina di anni dopo, nella sua autobiografia, l’allenatore romagnolo ne parlerà come di uno dei suoi più grandi rimpianti: «Sono stato un pazzo. Ero giovane e tatticamente rigido. Oggi non rinuncerei mai a un campione come Baggio». Rimangono sul tavolo le offerte del Borussia Dortmund e del Derby County dove gioca il suo amico Eranio, ma il 19 luglio Baggio annuncia di aver firmato per una squadra di provincia come il Bologna. Le reazioni vanno dalla sorpresa al divertimento, dalla commiserazione del campione decaduto all’ammirazione per la radicalità di un simile ripensamento di sé.

Baggio come sempre si limita a predicare l’accettazione dell’inevitabile: «Non mi volevano più. Quando c’è gente più brava di te devi rassegnarti. Qui mi gioco tutto». Fa venire in mente un’altra bella frase che dirà tanti anni dopo in un’intervista al Corriere dello Sport: “ se sei umile non hai mai problemi ad affrontare sfide. Gli arroganti hanno paura del futuro. Gli umili lo cercano”.

Resta difficile, a distanza di quasi vent’anni, capire le motivazioni che portarono il calcio italiano a infliggere a uno come Roberto Baggio, appena trentenne, un esilio in provincia simile a quello che anni dopo toccherà in sorte a talenti incompiuti come Cassano e Balotelli, considerando che Baggio di incompiuto non aveva proprio nulla, e a quanto ne sappiamo non aveva nemmeno particolari problemi caratteriali. (Va detto per completezza che esistono voci, come ad esempio quella di Stefano Tacconi, che parlano di Baggio come uno che “rovinava gli spogliatoi”. Ma moltissimi altri – una maggioranza schiacciante - lo ricordano come un compagno di squadra impeccabile).

Sta di fatto che i quattro grandi allenatori di quella generazione (Sacchi, Capelli, Lippi e Ancelotti) ebbero tutti problemi personali o tattici con Baggio e scelsero di disfarsene appena ne ebbero la possibilità. Perfino Ulivieri a Bologna (!) dovette essere convinto dalla società prima di accettare di prenderlo.

Guardo le immagini dei gol di Baggio e cerco qualche elemento di inattualità, qualche indizio di incompatibilità con l’evoluzione del calcio che proprio in quegli anni si modernizzava rapidamente, ma quello che vedo è al contrario un giocatore completo e devastante, che sarebbe molto più facile da collocare nello scacchiere di qualsiasi grande squadra contemporanea di un trequartista di pensiero e posizione come Zidane, per dirne uno.

Forse allora le sue difficoltà derivano da un’idea di calcio –orgogliosamente rivendicata – che non ammette intermediari tra giocatori e tifosi. Baggio ha sempre sentito la responsabilità di offrire uno spettacolo che ripagasse chi aveva pagato il biglietto (ai tempi del Pallone d’Oro, su alcuni giornali comparvero dei riferimenti a un misterioso ‘studio’ che avrebbe stabilito che Baggio da solo valeva il 25% degli abbonamenti della Juve), ha cercato di farlo anche quando il suo corpo e la sua mente gli strillavano di fermarsi, ha vissuto il rapporto coi tifosi in modo talmente diretto da sembrare quasi malsano (a Firenze gli amici con cui usciva nel tempo libero erano i ragazzi della curva Fiesole; e il suo primo ricordo di USA ’94 è che ad ogni gol, in campo, pensava “a cosa stava succedendo nelle case segli italiani”) e di conseguenza ha sempre vissuto con scetticismo se non con fastidio il ruolo di quelle che per lui sono figure di contorno, come gli allenatori.

In un’intervista rilasciata l’anno scorso a Veltroni, che gli chiedeva di giustificare il suo essere “un buddhista che litiga”, Baggio rispose: “Ho sempre pensato che al calcio chi conta sono i giocatori. Sì, certo, un allenatore può tirare fuori le qualità di un giocatore ma, alla fine, conta chi para, fa un lancio, tira in porta. Il calcio è i calciatori”. Veltroni insiste: “Infatti con gli allenatori non si trovava sempre a suo agio”. E Baggio: “Non nego che loro avessero difficoltà. La verità è che ho sempre avuto un rapporto meraviglioso con i tifosi. Questo dava fastidio”.

Probabilmente una risposta chiara non esiste: le zone d’ombra di Baggio sono inafferrabili e profondamente legate alla sua solitudine quanto le sue abbaglianti luci, e contribuiscono ad alimentare il fascino e il mistero di uno dei campioni più iconici della storia questo sport.

Comunque, quello al Bologna è sicuramente l’anno più strano della sua carriera, a cominciare dalla rasatura dei capelli che si impone quasi come una penitenza o un rito di raccoglimento. E anche i 22 gol che segna, sfiorando il titolo di capocannoniere, sono in qualche modo meno spettacolari del solito, più asciutti ed essenziali, come se Baggio avesse voluto rinunciare a una parte di sé e disfarsi di tutto quello che non era strettamente necessario a raggiungere l’ultimo vero grande obiettivo della sua carriera: i mondiali di Francia.

Il pallonetto di sinistro da posizione impossibile contro il Vicenza (minuto 0:53) è

secondo alcuni addirittura il gol più bello della sua carriera, ma secondo me,

sinceramente, voleva crossare.

Riesce ad essere convocato da Maldini a furor di popolo e a prendersi la soddisfazione di stritolare psicologicamente Del Piero, concedendosi un’ultima luna di miele con i tifosi italiani. Il gioco che Baggio offre in Francia è ormai quasi incorporeo, pura luce che irradia il campo senza quasi bisogno di correre: contro il Cile si procura un rigore ipnotizzando un difensore e spedendogli il pallone contro il braccio, con la facilità di un padre che incanta un bambino piccolo con un gioco di prestigio. Fa segnare Di Biagio contro il Camerun, contro l’Austria subentra a Del Piero e segna di nuovo.

Il suo ultimo Mondiale si chiude per l’ennesima volta dalla parte sbagliata del sottile confine tra impresa e sconfitta, con quello che alcuni hanno definito “il più bel non-gol della storia dei mondiali” (ricordo ancora i commentatori che rimasticarono per minuti e minuti: “ha calciato troppo bene... se avesse colpito appena un po’ peggio avrebbe fatto sicuramente gol...”) e la successiva eliminazione contro la Francia.

So Youtube c’è addirittura questo video specifico intitolato

“Roberto Baggio: il più bel non goal”. Baggio poi dirà semplicemente

di aver intravisto Barthez accennare l’uscita ma di non essersi accorto

che poi si era fermato a metà strada, altrimenti l’avrebbe stoppata e

avrebbe calciato con calma.

Il Mondiale gli vale un biglietto per l’ultimo giro della carriera in una grande squadra, all’Inter. C’è Lippi, purtroppo, e anche se Baggio il primo anno gli salva la panchina vincendo da solo lo spareggio Champions contro il Parma, stavolta le cose tra i due finiscono malissimo. Di quell’esperienza Baggio ricorda atti di vero e proprio bullismo calcistico da parte dell’allenatore, che una volta in allenamento sarebbe andato su tutte le furie con Vieri e Panucci, colpevoli di aver applaudito un lancio particolarmente bello di Baggio: “Vieri, Panucci, ma che cazzo fate? – avrebbe gridato il tecnico viareggino - Credete di essere a teatro? Non siamo qui per farci i complimenti a vicenda, tantomeno al signor Baggio, siamo qui per lavorare!” Anni dopo Baggio rivolgerà a Lippi anche l’accusa ben più grave di avergli chiesto di fare la spia sui suoi compagni di squadra, e Lippi risponderà sfoderando l’artiglieria pesante: «Lo escludo. Non avrei mai chiesto una cosa del genere a una persona di cui non ho stima e che non reputo importante dal punto di vista umano».

La doppietta di Baggio che risolve lo spareggio Champions con il Parma del ’99.

E’ rimasto famoso soprattutto il primo gol, una punizione da posizione

defilata su cui Baggio inganna Buffon fingendo di voler crossare e calciando

invece in porta con una forza e un taglio pazzeschi. E’ in effetti una giocata

impressionante sia nella tecnica che nel pensiero, e il fatto che arrivi da Baggio

le conferisce qualcosa di definitivo, di antico.

Parte V. Venerabile maestro

La carriera di una grande icona nazionalpopolare come Roberto Baggio illustra alla perfezione il famoso adagio di Alberto Arbasino per cui in Italia le carriere dei personaggi pubblici si articolano in tre fasi: da giovane promessa a solito stronzo, da solito stronzo a venerabile maestro.

Finora abbiamo ripercorso le prime due fasi, ma da quando Baggio nel 2000 firma con il Brescia, dopo un mese passato da svincolato a Caldogno ad allenarsi da solo con gli amici d’infanzia, accede finalmente a quel nirvana di apprezzamento universale che non gli è toccato in sorte nemmeno quando ha vinto il Pallone d’Oro e poi quasi un mondiale da solo.

C’entra anche l’aspetto fisico, secondo me: la vecchiaia nel calcio è sempre un concetto relativo, ma il Baggio del Brescia ha davvero qualcosa di un uomo vecchio. I ricci neri che sembrano macchiati di cenere, il colore degli occhi sbiadito, le piccole rughe sopra gli zigomi, la corsa prudente da plurioperato.

Ulteriori elementi romantici che contribuiscono all’atmosfera fiabesca dell’ultima avventura da calciatore di Baggio: il rapporto filiale con Corioni, la clausola sul contratto che consente a Baggio di svincolarsi immediatamente in caso di esonero di Carlo Mazzone.

Un’immagine sola che racconta tutto: Baggio contro la Juve, ovvero contro il fantasma di sé stesso giovane. Verticalizzazione improvvisa e millimentrica di Pirlo, ovvero un’altra incarnazione di Baggio giovane, Baggio col 10 e la fascia di capitano che corre verso la porta e si trova davanti a Van der Sar, esempio di giocatore straniero e inutilmente costoso che la Juve ha comprato invece di tenersi a vita gente come Baggio (ulteriore elemento di rivalsa). La palla che scende e atterra sul collo del piede destro più prezioso della storia del calcio italiano, un colpo di prestigio che Van der Sar non può capire prima di tutto perché viene da un’altra epoca, la palla che viaggia sul piede di Baggio da destra a sinistra come agganciata a una teleferica. Il gol.

A fine anno Baggio, ormai trentaquattrenne, torna nella lista dei candidati al Pallone d’Oro e si classifica venticinquesimo.

Continua a giocare nel Brescia fino al 2004 segnando 45 gol, uno ogni due partite giocate. Sono annate dense ed emozionanti, che per Baggio non hanno nulla da invidiare a quelle trascorse su palcoscenici più presigiosi, tanto è vero che ancora oggi quando gli chiedono quali siano stati i gol più belli di tutta la sua carriera lui ne cita due, entrambi segnati nel Brescia.

Il primo è quello segnato nel “derby” con l’Atalanta del 6 aprile 2003: Toni spizza un lancio lungo arrivato dalla difesa, Baggio appoggia all’indietro senza curarsi di un difensore che arriva in ritardo e gli dà un colpo da dietro. Il Brescia inizia un possesso di palla tortuoso e orizzontale nella propria metà campo che dura una quindicina di secondi, poi accelera improvvisamente con Appiah. La palla arriva a Baggio che serve in verticale Toni in area, il centravanti si scontra con un difensore, si trova il pallone alle spalle e lo passa di nuovo all’indietro a Baggio, che arriva a rimorchio. A venti metri dalla porta Baggio pizzica la palla da sotto e disegna un arco morbido che supera Taibi e si spegne dolcemente all’incrocio dei pali più lontano.

L’altro è quello lievemente meno spettacolare ma concettualmente ancora più impensabile segnato all’Olimpico contro la Lazio, quando Baggio riceve allargandosi la verticalizzazione di Appiah, e su uno strano rimbalzo, girato verso la bandierina del corner e senza degnare la porta di uno sguardo, tocca sotto la palla scavalcando Stam e Peruzzi.

Nella primavera del 2002 Baggio si rompe il crociato per l’ennesima volta, ma riesce a rientrare in dieci settimane (un record per quel tipo di infortunio) e a segnare tre gol nelle ultime tre giornate di campionato, salvando il Brescia. Tutti aspettano la sua convocazione per il quarto mondiale in carriera, la FIFA aggiunge un ventitreesimo posto alle liste in pratica apposta per lui, ma Trapattoni non ne vuole sapere. Telefona a Baggio e gli dice che non lo convocherà perché non l’ha visto bene. Baggio risponde che ha segnato tre gol nelle ultime tre partite, e questo è tutto quello che sappiamo della conversazione tra i due.

Il 28 aprile 2004, a più di cinque anni dall’ultima presenza, il Trap rende comunque omaggio a Baggio convocandolo per un’ultima amichevole con la Spagna. Per caso la partita si gioca a Genova, per cui diventa anche la prima e ultima volta in cui vedrò giocare Roberto Baggio dal vivo.

Il ricordo di quella serata è strano, con gli ultras fascisti della Nazionale nel settore ospiti del Ferraris e i tifosi genovesi uniti solo in una standing ovation quando a pochi minuti dalla fine Baggio viene sostituito. La sua ultima apparizione in azzurro è bagnata nella luce della consapevolezza, che solo in pochi hanno la fortuna di possedere, di essere diventato un simbolo unificatore. Roberto si ferma in mezzo al campo e prolunga il momento più a lungo che può, gli occhi lucidi, i folti ricci ormai del tutto grigi che riposano sulla testa come radici annodate di una quercia secolare.

La festa dell’ultima partita in assoluto, giocata due settimane dopo a San Siro contro il Milan, è in realtà vissuta da Baggio in modo molto ambivalente. Subito prima del fischio d’inizio, negli spogliatoi, Baggio richiama l’attenzione di un cameraman e gli dice: “vieni a vedere come sto giocando”, poi gli fa puntare l’obiettivo della telecamera sul proprio ginocchio destro. “Guarda qua eh? Si vede bene? Bisogna vedere il liquido che c’è qua, eh. Si vede?” dice premendosi con le dita il lato destro della rotula e producendo un rigonfiamento simmetrico su quello sinistro, come se la pelle del ginocchio fosse un palloncino pieno di sabbia. Ha la voce incerta e vagamente compiaciuta di un ragazzino che mostra agli adulti una sbucciatura o il segno dell’appendicite, ma quello che in realtà sta facendo è togliersi un gran peso. Sta pensando – è evidente – a tutte le volte in cui avrebbe voluto dire al mondo“venite a vedere come sto giocando”, ma non si poteva perché non era la sua festa e delle sue gambe malconce non importava niente a nessuno: doveva giocare e basta.

La moglie, la figlia, lo storico manager Vittorio Petrone del giorno del suo addio al calcio dicono tutti e tre la stessa cosa: “eravamo più dispiaciuti noi di lui”.

«Ho dato tutto. Non ho rimpianti» saranno le sue ultime parole da calciatore, dette negli spogliatoi a Petrone.

Nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi, Baggio parlerà spesso del momento del suo addio al calcio come di “una liberazione”, sia dal punto di vista fisico (“finita la partita, per due giorni faticavo a camminare. Quando tornavo a casa non riuscivo a scendere dall’auto, dovevo prima far uscire una gamba, appoggiarmi alla portiera e poi tirarmi su”) che da quello personale (“Avevo dato tutto, e anche di più. Di più non potevo fare”).

Una parte del mondo del calcio vedrà in certe dichiarazioni l’ultimo sgarbo di una lunga serie, ma a Baggio di quel che si diceva nel mondo del calcio non fregava granché quando giocava, figuriamoci dopo.

Epilogo. Il puma scappato dallo zoo

Nell’agosto del 2012 alcuni avvistamenti di un puma in libertà nei boschi vicino a Gorizia generano qualche apprensione tra gli abitanti della zona. Vengono organizzate delle squadre per stanare l’animale, forse fuggito da uno zoo, ma senza successo.

«Ve lo abbatto io in due giorni» propone qualcuno. Vanagloria trascurabile, se quel qualcuno non fosse Roberto Baggio.

Forse è utile ricapitolare brevemente cosa è successo da quando si è ritirato: allontanatosi dal mondo del calcio, ha comprato una fazenda in Argentina dove trascorre buona parte dell’anno dedicandosi alla sua grande passione d’infanzia: la caccia.

Dopo alcuni anni di totale lontananza dalla scena pubblica, nell’agosto 2010 ha accettato la proposta di diventare presidente dell’area tecnica della FIGC. Sebbene la sua nomina sia parsa a molti un tentativo dei dirigenti federali di far dimenticare la fresca umiliazione dei mondiali sudafricani con un nome prestigioso, Baggio ha preso l’incarico con la massima serietà e si è perfino iscritto – lui, con quello che ha sempre pensato degli allenatori! – al corso da allenatore della Federazione. Dopo poco più di un anno ha presentato un ambiziosissimo e tentacolare progetto di 900 pagine per la riforma dell’area tecnica e della formazione nel calcio italiano, intitolato un po’ cacofonicamente Rinnovare il futuro.

Accettare un incarico in Federazione pensando di cambiare le cose e scrivere diligentemente un programma di 900 pagine credendo davvero che qualcuno lo leggerà è uno splendido esempio di quel misto di candore, serietà e folle determinazione che ha sempre contraddistinto la personalità di Baggio. Nel 2013 si dimetterà lamentando che Rinnovare il futuro è rimasto lettera morta.

Tornando al puma di Gorizia,la generosa offerta di aiuto di Baggio ai cittadini non viene universalmente apprezzata. Gli animalisti lo contestano con tanto di striscioni ad hoc (“Baggio cacciatore Buddhista il più infame della lista”) e addirittura un europarlamentare dell’IDV si dice “scioccato” dal fatto che Baggio si ritenga “al di sopra della legge”.

In Una porta nel cielo Baggio racconta che la sua passione per la caccia deriva dal fatto che da piccolo – sesto di otto fratelli – era una delle poche occasioni di trascorrere del tempo con suo padre. Prova anche, sia pure in modo maldestro, ad affrontare la contraddizione tra buddhismo e caccia con un’argomentazione poco convincente: «Allora non dovremmo neanche camminare, perché camminando uccidiamo esseri viventi». Subito dopo però, come spesso accade a tutti dopo averla sparata grossa per difendere l’indifendibile, scrive invece quella che penso sia la cosa più sincera possibile per lui su questo argomento: «Per me la caccia non vuol dire uccidere, ma stare bene con me stesso».

E forse la ricerca della coerenza è un lusso riservato a chi può misurarsi con un’immagine privata di se stesso, senza che la vita pubblica inghiotta e distorca la propria capacità di auto-rappresentazione. Baggio abbraccia le sue contraddizioni (individualismo e spirito di squadra, forza e malinconia, buddhismo e caccia) perché non ha scelto. Perché è da quando è poco più che un bambino che tutto quello che fa e tutto quello che dice diventa il simbolo di qualcos’altro, in quel rapporto di simbiosi tra il pubblico e le persone incredibilmente famose che nutre entrambe le parti ma allo stesso tempo le svuota. Perché, in attesa della reincarnazione, può essere solo Roberto Baggio.

Ad oggi non è chiaro se il puma di Gorizia è davvero esistito, e se alla fine è stato catturato.. Per quel che ne sappiamo, magari è ancora lì, e Baggio aspetta che gli diano il permesso di andarlo a cacciare.

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