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Il rigore di Baggio ci ha educati alla sconfitta
17 lug 2024
17 lug 2024
Trent’anni da un rigore a cui non smettiamo di pensare.
(foto)
Illustrazione di Arianna Farina
(foto) Illustrazione di Arianna Farina
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Del rigore più famoso della storia del calcio italiano sapete già tutto: avete in mente la sequenza filmata e anche due o tre immagini famose, magari quella da dietro la porta con Taffarel che appoggia la schiena sull’erba soffice e segue con lo sguardo la palla che vola altissima sopra la traversa, o quella di Baggio con le mani sui fianchi e la testa bassa, mentre alle sue spalle i brasiliani in riga esplodono in un’esultanza molto anni ‘90, con saltelli infantili e un po’ impacciati, che rispetto a quelle rabbiose di oggi sembra ispirata a Baywatch invece che a 300.

La generazione d’oro del calcio italiano però è uscita ai rigori da tre mondiali di fila dal ‘90 al ‘98, poi abbiamo vinto ai rigori il Mondiale del 2006 e l’Europeo del 2021. E allora è interessante chiedersi: perché è ancora questo rigore, tirato malissimo dopo una brutta partita e a ben vedere nemmeno così decisivo, a ossessionarci? E perché un paese cinico e risultatista come il nostro, quando si parla di calcio ma non solo, è rimasto così affezionato all’immagine di una bruciante sconfitta?

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La nostalgia in Italia va a cicli, come l’economia e le Birkenstock, e nell’ultimo anno a Roberto Baggio è toccata l’alta marea, forse perché dopo un picco di nostalgia di primo grado una ventina d’anni fa - quello per intenderci immortalato da un ritornello di Cremonini che già allora faceva friggere il dosimetro della paraculaggine, e oggi è diventato un oggetto meta- o iper-nostalgico che non andrebbe maneggiato senza tuta protettiva - è arrivato il momento della nostalgia mediata, quella cioè in cui lo si fa conoscere a chi era troppo giovane per ricordarselo, o non era nemmeno nato. Il motivo per cui leggete oggi questo articolo è che Baggio tirava alto il famoso rigore di Pasadena contro il Brasile trent’anni fa esatti, chi è nato quel giorno è adulto e anzi si sente vecchio, soprattutto se glielo chiedete oggi che compie trent’anni.

Più di ogni altra cosa però nell’ultimo anno è cambiato l’atteggiamento di Baggio stesso, che dopo lustri di relativo silenzio, interrotto raramente da interviste-evento dai tratti oracolari, tipo a Fazio o a Veltroni, ha iniziato a parlare regolarmente e si è pure fatto Instagram, anzi ha messo su un’operazione più complessa: si è fatto aprire dalla figlia Valentina un account Instagram in cui lei lo filma e lui brontola che deve andare a lavorare nei campi, una scenetta da commedia generazionale con Fabio Volo che infatti è piaciuta moltissimo.

Baggio ha da sempre animato, credo involontariamente, una retorica che a essere buoni potremmo definire dolciastra, a essere sinceri reazionaria: quella del campione umile con la Panda e gli stivali infangati, da contrapporre ai divetti montati di oggi, tatuati, col macchinone e nemmeno troppo forti. Retorica tanto più assurda se consideriamo che Baggio, ai suoi tempi, ha subito esattamente le stesse reprimende che oggi toccano a Donnarumma o Zaniolo, quando lasciava la Fiorentina per la Juventus a una cifra record, quando si infortunava troppo spesso, quando si presentava in conferenza stampa con cappellini griffati e per giunta passivo-aggessivi («matame si no te sirvo», «uccidimi se non ti servo», chiaramente rivolto a Lippi nel 2000). Ma niente di questo importa, ormai Baggio è il campione-operaio, il campione-contadino, il campione d’altri tempi che probabilmente andava ad allenarsi attraversando le risaie seduto sulla canna della bicicletta di Ginetto Bartali, in un‘ucronia in cui facciamo di Baggio il correlativo oggettivo nella nostra nostalgia per un’epoca dorata che non abbiamo vissuto, che non ha vissuto lui, e che da ultimo non è mai esistita. Tutto questo per dire che temo sia solo questione di tempo perché ci ritroviamo su Instagram i reel di Baggio che parla dei giovani d’oggi come Crepet, ma la colpa non è sua. Un anno fa ho passato una giornata con lui per intervistarlo, posso rassicurarvi sul fatto che è una persona molto più interessante di così e più che a un anacoreta triste fa pensare a un monello che, coi primi capelli grigi, si è ritirato in campagna a fare le marachelle senza che nessuno gli rompa le balle.

Baggio trent’anni fa sbagliava il rigore di Pasadena, dicevamo, un errore dal dischetto che è diventato un simbolo di un sacco di cose, anche del modo in cui deformiamo la memoria collettiva, nel caso migliore per darle un senso condiviso, nel peggiore per fare cattiva letteratura.

Per esempio probabilmente avete in mente un’immagine molto precisa del rigore di Baggio, mentre è possibile che non riusciate a richiamare alla mente il modo in cui sbagliò Baresi, in un momento ben più decisivo della sequenza. Magari avete scordato che quando Baggio va sul dischetto Pizzul dice «abbiamo ancora una tenue speranza», perché la situazione è già compromessa anche dall’errore di Massaro, che ha tirato così lento e centrale che in partita Taffarel probabilmente avrebbe bloccato il pallone invece di respingerlo. Non è detto che vi ricordiate che se anche Baggio avesse segnato, ai brasiliani sarebbe bastato realizzare il rigore successivo per diventare campioni del mondo.

Va detto però che se c’è una mistificazione volta a enfatizzare la gravità di quel momento, Baggio ne è partecipe: in un’intervista dell’anno scorso ha detto che ancora oggi a volte non dorme ripensando a quell’errore, e il suo stesso ricordo mi pare significativo: ha ripetuto in più occasioni di aver calciato tranquillo, a botta sicura, di aver perfino avuto una buona sensazione al momento del contatto del piede con il pallone, e di non avere idea del perché la traiettoria si sia alzata in quel modo. È difficile credergli, naturalmente: Baggio calcia male e spedisce la palla alle stelle, ed è impensabile – proprio perché è Roberto Baggio – che non se ne accorga. Del tutto plausibile è invece che con gli anni abbia deformato in buona fede il ricordo di un momento così larger than life, attribuendo la propria caduta a quello stesso complesso di forze magiche che hanno spinto in rete il pallone calciato in modo così timido con la Nigeria, da un’angolazione proibitiva con la Spagna e poi ancora due volte con la Bulgaria. Un incantesimo che finisce con una maledizione.

Tutto quel mondiale segnato dal dualismo tra Baggio e Sacchi, del resto, può essere letto come un conflitto tra natura e cultura, tra l’individuo e la tecnica, tra positivismo e misticismo. Forse quel rigore continua ad affascinarci e perversamente a gratificarci perché dopo un mondiale in cui si sono scontrate due forze opposte ma entrambe creative, l’apollinea logica di Sacchi e il dionisiaco talento di Baggio, riafferma il fatalismo e l’iniquità che sono due delle caratteristiche del calcio che lo fanno risuonare così bene nella nostra psicologia nazionale.

Indipendentemente dall’eziologia dell’errore, comunque, è inevitabile chiederci cosa sarebbe successo se quel rigore fosse entrato (e se il Brasile avesse sbagliato i due rigori successivi e l’Italia invece li avesse segnati, etc, etc…). L’Italia sarebbe diventata campione del mondo trascinata da un singolo giocatore in misura simile forse solo a quanto successo all’Argentina dell’86 con Maradona. Se oggi ricordiamo Baggio come uno dei due o tre talenti più nitidi della storia del nostro calcio, come lo ricorderemmo con quella vittoria? Possiamo addirittura immaginare che la tradizionale disputa tra sostenitori di Pelé e Maradona per il titolo di più grande calciatore di sempre si sarebbe arricchita di un terzo autorevole partito?

E ancora: si può entrare nella storia come un campione assoluto, come uno tra i più grandi di tutti, se la partita più importante della tua vita l’hai persa? È un’idea, quella di un campione senza vittoria, che ha qualcosa di liberatorio e trasgressivo ma anche qualcosa di utopistico, come l’amore senza il possesso.

Restando nella hall of fame del calcio italiano per la sua classe straordinaria ma anche con la foto sbagliata, quella del rigore a Pasadena, Baggio riesce in un’impresa ancora più singolare della vittoria di un Mondiale: educare un popolo che per costituzione non sa perdere alla nobiltà della sconfitta.

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