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Lo strano tempismo delle dimissioni di Roberto Mancini
14 ago 2023
Il colpo di scena in una sonnolenta domenica d'agosto.
(articolo)
10 min
(copertina)
Foto MAGO / Gribaudi/ImagePhoto
(copertina) Foto MAGO / Gribaudi/ImagePhoto
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Le notifiche che iniziano a popolare gli smartphone poco dopo le 13 di una domenica di metà agosto sono quelle che lasciano a tre quarti la forchetta con lo spaghettino alle vongole, fanno cadere i pomodorini dalla frisella, tengono il canederlo sospeso sul cucchiaio. Un’indiscrezione di Libero diventa in fretta ufficialità, il fuoco d’artificio che esplode in anticipo sulla tabella di marcia: Roberto Mancini si è dimesso. Cinque parole che non avrebbero stupito nessuno se giunte nelle turbolente ore post Macedonia del Nord, oppure al termine dell’ultima Final Four di Nations League, o paradossalmente persino a qualche giorno di distanza dal trionfo di Wembley, ma che oggi ci prendono alla sprovvista nello stesso modo in cui faceva Mancini quando giocava, quando era in grado di spostare palla, compagni e avversari apparentemente con la sola forza del pensiero.

Ma stavolta è diverso, perché il 4 agosto era stato nominato coordinatore anche di Under 21 e Under 20: la Federcalcio non solo aveva ribadito la fiducia nei confronti del commissario tecnico, ma ne aveva, se possibile, ulteriormente rinforzato la posizione, mettendo nelle sue mani una bella fetta del movimento azzurro. Quelli che seguiranno saranno i giorni dei retroscena, della verità sui motivi che avrebbero ispirato questo ribaltone, questo improvviso cambio di inquadratura. C’è già chi si è aggrappato ai cambiamenti nello staff come possibile miccia: eppure quel cambiamento è arrivato proprio nel momento in cui a Mancini erano stati dati pieni poteri. Possibile che non ne sapesse nulla? Che non avesse avuto voce in capitolo? Dunque, come si è arrivati fin qui? Come è possibile che un uomo che aveva fatto della manipolazione del tempo, della lettura in anticipo di tutto ciò che lo circondava su un campo da calcio, abbia sbagliato così clamorosamente quasi tutte le decisioni prese una volta salito sul tetto d’Europa?

Le reazioni di stupore in queste ore sono molto simili a quelle che si susseguirono nel momento in cui la Federazione decise di puntare su Mancini, con benedizione papale del presidente del Coni Giovanni Malagò. La parabola del Mancio da tecnico aveva imboccato una rotta confusa subito dopo l’addio al Manchester City: il ritorno in sella in fretta e in furia al Galatasaray, senza prendersi un periodo di stop ma accettando una chiamata arrivata a fine settembre per subentrare a Fatih Terim; l’Inter-bis, a novembre 2014, ancora una volta in corsa, al posto di Walter Mazzarri; quindi, stavolta dopo un anno di stop, la virata verso la Russia, una stagione senza gloria allo Zenit San Pietroburgo. Quello tra Mancini e la Nazionale era stato l’incontro di due momenti difficili: da una parte le macerie post Svezia, dall’altra un allenatore che sembrava aver perso il tocco.

In una circostanza molto simile a quella che aveva visto la sua esplosione da tecnico, però, il "Mancio" aveva restituito vita a un movimento finito nel vortice della depressione. Gli era successo quando era stato nominato, praticamente a furor di popolo, allenatore della Lazio: una società in crisi economica si aggrappava all’uomo che aveva cambiato il corso stesso della storia del club, arrivato a Roma nel 1997 in una squadra che non vinceva dal 1974 per poi togliersi la maglietta per l’ultima volta nel maggio del 2000, con scudetto e Coppa Italia appena messe in bacheca dopo aver vinto un’altra Coppa Italia, una Supercoppa Italiana, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea nel percorso. Aveva raccolto un gruppo emotivamente e tecnicamente devastato dalla gestione Zaccheroni, ridando entusiasmo e reinventando ruoli a giocatori parsi totalmente fuori luogo e fuori fuoco (su tutti Cesar e Fiore), attraverso un gioco bello e codificato.

La stessa cosa è accaduta in Nazionale: a eccezione del biennio di Antonio Conte, raramente la squadra azzurra aveva avuto un gioco così riconoscibile come nel percorso che ci ha portato, con un anno di ritardo causa Covid, a Euro 2020. La prima Italia di Mancini aveva preso vita in una notte di metà ottobre del 2018, a Chorzow: un Polonia-Italia di Nations League deciso all’ultimo respiro da una zampata di Biraghi su spizzata di Kevin Lasagna (perché il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco), affrontato con Bernardeschi centravanti e la voglia di controllare il pallone il più possibile. Un’Italia diversa era possibile, e si era manifestata danzando sul baratro della retrocessione nella Lega B della Nations League, risultato che si sarebbe verificato in caso di sconfitta in Polonia.

Il resto lo conosciamo: l’arrivo all’Europeo in pompa magna, la cavalcata fino a Wembley, gli abbracci con Gianluca Vialli, salito in corsa sul pullman azzurro per regalarsi l’ultima esperienza collettiva insieme all’amico di una vita. L'Italia di Mancini è stata tante cose: il suo stile di gioco controculturale, l'emotività della sua amicizia con Vialli, la forza psicologica di un gruppo che arrivava dalla grande delusione della mancata qualificazione ai Mondiale. E poi l'incredibile fragilità mostrata nel percorso che ci ha portato a una nuova, davvero imprevista, disillusione.

Da quel momento in poi, l’Italia di Mancini ha smarrito la strada. Un eccesso di riconoscenza gli ha impedito di rivoluzionare il gruppo che lo aveva portato alla vittoria e la mano divina che gli si era posata sulla testa per accompagnarlo nei momenti clou dell’Europeo l’ha abbandonato nelle due occasioni in cui Jorginho si è avvicinato al dischetto contro la Svizzera, costringendo gli azzurri a un playoff in due fasi del quale abbiamo assaporato soltanto la prima, estromessi dalla Macedonia del Nord ancora prima di poter arrivare a sfidare il Portogallo. Cosa sia realmente successo nei minuti successivi al disastro di Palermo, probabilmente, lo sapremo con esattezza nei prossimi mesi o forse anni: c’è chi ipotizza che Mancini possa aver rimesso l’incarico nelle mani di Gravina, raccogliendo però dalla parte opposta una fiducia cieca, così incrollabile da indurlo a voler ripartire da zero. Doveva essere il momento della rivoluzione e invece, partita dopo partita, Mancini è parso sempre meno convinto, scollato dalla realtà che egli stesso cercava di dipingere diversa, almeno a parole.

Nella notte di Napoli contro l’Inghilterra, match di apertura del cammino di qualificazione all’Europeo, nel marzo di quest’anno, aveva ripescato la difesa a 4 pur dopo aver stilato un elenco di convocati molto più affine alla conferma del modulo con i tre centrali dietro (Darmian, Acerbi, Toloi, Scalvini, Bonucci e Buongiorno, con il solo Romagnoli impiegato in una linea a quattro in campionato): «È con il 4-3-3 che ci sentiamo più a nostro agio, soprattutto per giocare una partita molto propositiva». Aveva quindi incastrato Toloi e Acerbi come centrali della difesa a quattro come fanno quelli che cercano di forzare le tessere di un puzzle nei posti sbagliati, dando vita a un primo tempo dominato dagli inglesi prima di una convincente ripresa, nella partita del discusso debutto (con gol) di Retegui. Era stato anche il giro di convocazioni in cui aveva eletto Simone Pafundi a icona: «Prima Pafundi, poi tutti gli altri: questa è la mia idea quando scrivo la lista». Due mesi dopo, sconfitto dalla Spagna in semifinale di Nations League, si era indicato come principale responsabile: «Avevamo impostato la partita in un certo modo, ma forse questo non è il nostro calcio: lo abbiamo impostato alcuni anni fa e forse dobbiamo continuare con quello», dichiarava pentito del ritorno al 3-5-2, con la mezz’ora finale giocata con una coppia d’attacco Zaniolo-Chiesa totalmente fuori contesto.

Proprio come gli era successo dopo il City, molto semplicemente Mancini ha perso la strada maestra, quella che lo aveva riportato al successo, il supremo diavolo tentatore in un Paese in cui, nei giorni subito successivi alla vittoria degli Europei, si accavallavano gli articoli che lo raccontavano mentre faceva la fila dal salumiere «come uno qualsiasi» e da «campione di normalità». Mancini ovunque, testimonial ideale per campagne pubblicitarie di ogni tipo, emblema del genio italico dimenticando che per tutta una vita aveva fatto del suo essere sì geniale, ma allo stesso tempo scostante e irascibile, la propria cifra distintiva.

Due anni dopo, ci troviamo a commentare una decisione il cui tempismo è apparentemente privo di senso: Mancini fa un passo indietro nove giorni dopo avere ricevuto un ruolo molto simile a un plenipotenziario e otto giorni dopo l’annuncio dell’arrivo di Gianluigi Buffon nella veste di capodelegazione che fu di Gianluca Vialli, con il prossimo impegno azzurro da qui a un mese e i principali campionati europei già iniziati. Un contesto così particolare da indurre a esprimersi con sommo scetticismo anche il ministro dello Sport, Andrea Abodi, che a Mancini è vicinissimo come dimostrano alcuni tornei di calcetto che profumano di Aniene: «Sono dispiaciuto e perplesso, è una decisione che arriva a sorpresa a Ferragosto: tutto molto strano. Mi viene da pensare: le nomine dello staff tecnico azzurro annunciate recentemente erano state concordate con lui o no?». C’è anche chi, come Alessandro Alciato, riferisce di un malcontento per una clausola contrattuale: eppure il rinnovo di contratto risale al 2021, addirittura prima del successo continentale.

Subito dopo l’addio poi è partita la giostra delle indiscrezioni, su tutte quelle che lo vorrebbero alla guida dell’Arabia Saudita con contratto, neanche a dirlo, di mostruose proporzioni economiche. Uno scenario, quest’ultimo, che sarebbe per certi versi disturbante: siamo diventati così tanto periferia dell’impero da indurre il nostro commissario tecnico, per quanto alle prese con un’offerta ricchissima, a rinunciare all’incarico per definizione più ambito nel Paese dei 60 milioni di ct? O forse la prospettiva dalla quale osserviamo il fenomeno Arabia Saudita è viziata dal nostro vissuto, e c’è qualcosa di più profondo che ci sfugge, che non siamo in grado di comprendere? Qualcosa, ovviamente, che non siano i milioni, apparentemente l’unica ragione che sta portando calciatori e allenatori anche di primissimo piano a lasciare l’Europa per andare in Arabia. E se da un lato il Mancini calciatore probabilmente mai avrebbe ascoltato le sirene saudite, così abituato ad andare controcorrente da condizionare in parte una carriera comunque gloriosa, dall’altro sarebbe una scelta perfettamente coerente con il suo percorso professionale da allenatore. “Le dimissioni dalla Nazionale sono state una mia scelta personale”, ha scritto in un post su Instagram laconico, più vicino ai comunicati con cui le società scaricano gli allenatori che a un addio sentito all’avventura azzurra, quella che l’ha rimesso sulla cartina geografica dei grandi allenatori mondiali e gli ha concesso di fare finalmente pace con uno dei capitoli più complessi della sua carriera da calciatore.

Ma la mossa di Mancini dovrebbe, innanzitutto, certificare il fallimento di una gestione federale che a lui si era legata mani e piedi, come se non ci fosse via d’uscita: con Mancini fino alla morte, fino ad affidargli la supervisione di Under 21 e Under 20 in una linea di continuità con il lavoro di Maurizio Viscidi, rimasto a capo delle altre selezioni giovanili. È bastato spostare il tassello principale, come in una partita di Jenga, per rendersi conto in maniera brutale che il palazzo eretto a fatica presentava difetti strutturali giganteschi. L’impressione è che, a livello di vertici federali, questo scossone non porterà ad alcuna modifica. In poche ore, stando alla Federcalcio, scopriremo chi sarà l’erede di Mancini. A pensarci bene, viene difficile immaginare che i due nomi più altisonanti accostati alla panchina azzurra, Luciano Spalletti e Antonio Conte, possano effettivamente accettare un incarico di questo tipo: al posto loro, varrebbe davvero la pena sporcarsi le mani in una situazione del genere? Pistola alla tempia, verrebbe da dire di no. Ma del resto nessuno, 24 ore fa, avrebbe ritenuto possibili le dimissioni di Mancini. Per l’ennesima volta, forse l’ultima, mentre guardavamo da una parte ha fatto qualcosa che ci ha obbligato a girare la testa.

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