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Il mio compito è credere in tutti, intervista a Roberto Samaden
07 apr 2025
Con il responsabile del settore giovanile dell'Atalanta abbiamo parlato di cambiamenti, progettualità e tattica collettiva.
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16 min
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Foto di Giuseppe Romano
(copertina) Foto di Giuseppe Romano
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Meno di un anno prima della vittoria del più importante trofeo della sua storia, l’Atalanta ha annunciato un nuovo responsabile del settore giovanile. Lo so che, messa così, sembra pretestuosa, ma per una squadra che ha fatto del settore giovanile il proprio fiore all’occhiello è sembrata davvero una mossa che annunciava quello che poi è diventato chiaro con la vittoria dell’Europa League, e cioè che il club aveva cambiato dimensione. «Oggi è una giornata che rappresenta la storia di ciò che succederà nei prossimi anni», aveva detto l’amministratore delegato, Luca Percassi, nella conferenza di presentazione, «Roberto Samaden è il più grande acquisto che l’Atalanta può aver fatto in questa sessione di mercato».

Roberto Samaden era responsabile del settore giovanile dell’Inter dal 2010, ma era entrato nel mondo nerazzurro già nel 1990, quando ha cominciato come allenatore dei piccoli. In questi 35 anni è diventato un’istituzione del settore, riconosciuta dai titoli (come i quattro scudetti Primavera) e dai ruoli (come quello di coordinatore della sezione sviluppo calcio giovanile del settore tecnico a Coverciano). Insomma, era difficile trovare, in Italia, una persona più qualificata di lui a raccogliere la pesante eredità di Mino Favini e Maurizio Costanzi. A gestire quello che da molti è considerato il miglior settore giovanile d’Italia.

Non è tanto questo, però, a segnare il cambiamento nello status dell’Atalanta, quanto proprio il fatto che Samaden avesse lavorato per quasi tutta la sua vita nell’Inter. Uno dei club che da fuori sembra avere meno bisogno del proprio settore giovanile, cioè, e in cui il salto tra le giovanili e la prima squadra è più ampio. «Io sono arrivato in un momento in cui il livello dell'Atalanta come club e come prima squadra è diventato molto simile a quello dell’Inter», mi dice Samaden nella nostra intervista. «Il livello dell’Atalanta oggi comporta che non sia molto semplice portare dei giocatori direttamente [dalle giovanili alla prima squadra, ndr]. Per questo si è scelto di investire anche nel progetto della seconda squadra, cosa che dieci o quindici anni fa l'Atalanta non avrebbe fatto perché quella distanza era più colmabile».

Lo status raggiunto dall’Atalanta, un club storicamente legato al proprio settore giovanile chiamato dalla sua crescita a competere con le migliori squadre d’Europa, è unico in Italia e allo stesso tempo sintomatico della difficoltà del nostro Paese a sviluppare giovani talenti con continuità. Quando incontro Roberto Samaden all’ECA Club Connect, quindi, non vedo miglior argomento di questo da discutere nella nostra intervista.

La registrazione integrale dell'intervista. La versione testuale che trovate qui è stata tradotta, editata e rimaneggiata per esigenze di chiarezza.

Tu fai un lavoro, che, ancora prima del calcio, ha a che fare molto con il rapporto umano. Sei da tantissimo tempo in questo settore e hai visto diverse generazioni passare sotto le tue mani. Com’è cambiata la tipologia di persona con cui hai a che fare dall’inizio degli anni novanta fino a oggi, cioè nel corso della tua carriera?

Dall'inizio degli anni Novanta, cioè da quando ho iniziato a lavorare nel mondo professionistico, credo che i cambiamenti dei soggetti con i quali abbiamo a che fare rispetto al passato siano sempre più veloci perché veloci sono i cambiamenti di tutto quello che gli sta intorno.

È scontato e ovvio ma la tecnologia e la possibilità di conoscere tutto quello che succede nel mondo senza bisogno di girare il mondo ha cambiato tutto. Anche negli anni Novanta c’erano questi cambiamenti ma c’era anche la possibilità di assorbirli e reagire. Negli ultimi 15, 20 anni, invece, ci troviamo di fronte a cambiamenti veloci che rendono difficile il lavoro di chi questi ragazzi deve farli crescere.

Quindi è diventato più difficile fare questo lavoro?

Sì, perché i tempi di reazione sono più ristretti. I cambiamenti ci sono da che esiste il mondo e ognuno di noi ha avuto dei genitori che gli hanno detto la famosa frase: «Ai miei tempi…». Io che sono genitore la dico ogni tanto ai miei figli. È vero però che la velocità del cambiamento, che in passato dava più tempo a chi si occupava di reagire e quindi di trovare anche delle soluzioni, sia aumentata. E non penso solo a chi lavora con i giovani [nel mio campo, ndr], ma a qualsiasi soggetto che abbia a che fare con la loro crescita.

Non lo dico per rinnegare il cambiamento, che è anche fonte di crescita. Ma adesso è tutto talmente veloce che fai veramente fatica a reagire, ad adeguare anche i comportamenti di noi adulti al cambiamento. Ecco perché per me è fondamentale il concetto di ambiente - costruire un contesto adatto, sano, inclusivo, bello, dove i ragazzi e le ragazze possono stare. In questo modo, secondo me, si hanno più possibilità di rispondere a questi cambiamenti.

A questo proposito, quanto è difficile trovare un allenatore? Perché per i professionisti si parla molto di tattica, mentre per quanto riguarda il settore giovanile immagino sia un discorso molto diverso e anche molto più complesso, no? Trovare degli allenatori adatti a dei ragazzi anche di fasce d'età diversa.

È sempre più difficile, è vero. Io credo che la capacità più importante di un allenatore nel settore giovanile - con le dovute differenze per le fasce di età perché è come se parlassimo di scuole elementari, medie e superiori tutte insieme - è la capacità di tirare fuori da ogni soggetto il massimo.

E questa capacità è sempre più difficile da trovare. Oggi le generazioni degli allenatori sono molto più preparate, soprattutto dal punto di vista della formazione specifica, della metodologia. Rispetto al passato, però, è molto più difficile trovare quegli allenatori che siano anche maestri, educatori, formatori. Non in termini solo di sport ma anche di vita. Questa cosa qui, secondo me, è sempre più rara.

Secondo te perché è più rara?

Io questo non so dirtelo. Parlo dell’Italia: il livello tecnico degli allenatori è molto alto, anche grazie a quello che il settore tecnico della FIGC ha fatto in termini di formazione, di corsi, di possibilità anche di aggiornamento ormai globale che qualsiasi giovane può auto-somministrarsi. Perché la formazione specifica ormai la puoi fare anche trovando in ogni angolo del web possibilità di conoscere, condividere contenuti, e non solo nei corsi.

Dal punto di vista umano, però, questa cosa è più difficile da trovare e non so esattamente il perché. Forse è proprio per quel cambiamento che c’è stato… Alla fine gli allenatori di oggi, parlo di ragazzi di 25, 30 anni, sono passati per quegli stessi cambiamenti di cui parlavamo prima. Forse c’è anche il pensiero che tutto si riduca all'attività in campo. In passato era più comune trovare una persona che si occupava di te a 360 gradi, nel bene e nel male, anche magari con modi che non erano proprio educativi o adatti, e che oggi forse sarebbero banditi. La capacità di avere attenzione sulla formazione a 360 gradi del giovane secondo me si è un po' persa.

Ho letto alcune tue interviste e dici spesso che, come sistema a livello di settori giovanili, l'Italia sia un po' indietro rispetto ad altri Paesi. Secondo te in cosa è indietro l'Italia, in questo senso?

Credo che il nostro Paese non brilli per lungimiranza e per opportunità date ai giovani. Penso al mondo del lavoro, ma anche a come in Italia nel calcio a volte si senta parlare di “un giovane calciatore di 23 anni”. All’estero non è più giovane uno di 23 anni, sono giovani quelli di 17, 18.

Insomma, viviamo in un Paese che non brilla per essere un luogo dove i giovani trovano grandi spazi. E il calcio è uno spaccato del Paese. Il fatto che da noi i giovani, non solo giocatori ma anche allenatori e dirigenti facciano fatica a trovare spazio è un dato. Che poi questo sia dovuto al fatto che non sia grandissima qualità, non so dirtelo. Io conosco tantissimi giovani di valore, ma siamo poco predisposti a dargli degli sbocchi.

Foto di Giuseppe Romano

All’estero si lavora tanto di sistema. A livello giovanile ogni Paese ha la sua direzione, una spinta che arriva da una progettualità comune, da una visione. In qualsiasi club all’estero in cui sono stato, anche in Paesi che non hanno grandissima cultura, il settore giovanile viene visto come un'area produttiva, come un'area dove dover investire, dove dover progettare, programmare.

In Italia invece l’obiettivo di far crescere i giovani è lasciato in maniera estemporanea a persone che hanno visioni di un certo tipo. Ci sono alcune eccellenze di club professionistici, anche dilettantistici, ma sono inserite in un contesto dove ce ne sono tanti altri che non hanno neanche i centri sportivi dove far allenare i ragazzi. Io credo che ci si creda un po' poco.

Poi c'è un discorso legato alle componenti del calcio giovanile. In Italia se ne occupano sette componenti diverse: le leghe, il settore tecnico, il settore giovanile scolastico, la lega dilettanti. E questo frazionamento non gioca a favore di una progettualità comune. Si fanno tante cose buone, alcune eccellenti - mi viene in mente il progetto Evolution Program, preso a riferimento dalla FIFA come modello di lavoro con i club dilettantistici sul territorio - ma poi non si riesce a lavorare con una visione generale.

In questo tipo di interviste si va sempre a parare chiedendo: cosa si dovrebbe fare per migliorare questa situazione? Per esempio, ho visto la tua proposta per l’integrazione del calcio a cinque nei sistemi scolastici, che mi sembra molto interessante, molto giusta. Però, ecco, questi sono cambiamenti infrastrutturali che riguardano l’intero Paese per cui ci vuole molto tempo. Cosa possono fare i club per colmare questi limiti infrastrutturali nel frattempo che il Paese ci pensi?

Io non credo che sia così difficile. Certo, non è che schiacci un bottone e le cose cambiano. L'esempio che tu hai fatto dello sviluppare il calcio a cinque all'interno della scuola sicuramente passa anche dal fatto che le scuole abbiano le strutture per poterlo proporre.

Però io credo che fare qualcosa con al centro l'interesse per la crescita dei giovani non sia così difficile. Il problema è che spesso le cose vengono fatte più per altri tipi di interessi, lasciando sui club il peso di questo tipo di obiettivo. In Italia non ci sono obblighi particolari, come per esempio in Inghilterra, relativi alle strutture. Ci sono degli obblighi all'interno delle licenze nazionali, ma alla fine il grosso viene lasciato alla libera iniziativa, in questo caso privata. Perché i club sono aziende private che, in base agli obiettivi delle varie proprietà, possono decidere più o meno di investire nel settore giovanile.

In Italia puoi avere un centro sportivo di proprietà per i giovani o non avere un centro sportivo. Puoi avere quindici squadre o puoi averne tre. Puoi sviluppare progetti in connessione col mondo della scuola o non farlo. La domanda che mi hai fatto secondo me ha questa risposta. Forse non dovremmo affidarci solamente al fatto che degli imprenditori illuminati decidano di investire, e renderlo obbligatorio per tutti.

In quasi tutti i Paesi europei, poi, è stato inserito un ranking dei settori giovanili che determina la distribuzione di risorse economiche alle squadre. Bisognerebbe inserire dentro le licenze degli obblighi di questo tipo relativi alle strutture. In Italia ci si sta lavorando ma ancora non ci siamo arrivati. Sicuramente ci vorrà del tempo, ma se non iniziamo il tempo non basterà mai.

L'esempio delle seconde squadre è stato abbastanza evidente. Le seconde squadre in Italia sono state introdotte in un periodo di commissariamento, se no non so quando ci sarebbe stata la possibilità di farlo. Poi ci sono anche le difficoltà dei club nel proporre questo progetto. A oggi le seconde squadre sono tre, diventeranno quattro, forse cinque, però non c'è stato un seguito massiccio. E questo indica come nei fatti si faccia difficoltà a credere nei giovani.

Perché secondo te gli allenatori italiani hanno così tanta difficoltà a far giocare i giovani a qualsiasi livello, sia di club che di Nazionale?

Premetto che con le Nazionali giovanili negli ultimi anni è stato fatto un salto in avanti clamoroso: lo dimostrano non solo i risultati ma anche quello che ha fatto Maurizio Viscidi con il suo gruppo di lavoro. Detto questo, credo che il problema principale sia il livello del nostro campionato, che è sicuramente molto alto. Non è l’unico, però, anche perché non è che la Premier League o altri campionati siano più facili del nostro. Ci sono tantissimi esempi all'estero di squadre anche di primo livello che danno la possibilità ai giovani di sbagliare una volta, due volte, tre volte e poi quando partono non si fermano più.

Poi ovviamente il nostro Paese è anche molto legato ai risultati. C’è un tasso di rotazione degli allenatori molto alto e questi, se non c'è un input preciso da parte della proprietà, pensano a salvare il loro posto di lavoro, a cercare di fare dei risultati immediati. Questa ricerca continua del risultato immediato combinata con la poca capacità di programmare, fa sì che sia difficile per il nostro campionato dare queste opportunità. Ovviamente ci sono delle eccezioni e io ho la fortuna di lavorare in una di queste, l’Atalanta, che ha una tradizione, un passato, un presente e anche un futuro in questo senso. Una spinta che arriva dalla famiglia Percassi di investire e lavorare coi giovani.

A livello giovanile spesso si vedono partite inguardabili perché c’è più l’obiettivo di ottenere il risultato che quello di entrare, giocare liberamente e cercare di essere migliori del proprio avversario. All’estero questo è diverso: anche nelle squadre di club di altissimo livello vedi i ragazzi entrare con una predisposizione all'essere propositivi e con una libertà di pensiero che è completamente diversa dai nostri, che invece entrano in campo con la preoccupazione del risultato. Ma perché ce l’hanno? Perché qualcuno gliela trasmette: gliela trasmette l'ambiente, gli allenatori, i dirigenti. Credo che il nostro ambiente per i giovani sia un disastro perché alla fine tutti siamo schiacciati da questa ricerca continua del risultato.

Foto di Giuseppe Romano

In questo discorso c'è anche il dibattito sulla tattica, sul fatto cioè che in Italia tutto sia troppo centrato sulla tattica, anche a livello giovanile. In un mondo ideale secondo te qual è l'età in cui iniziare a insegnare la tattica collettiva?

Innanzitutto bisogna mettersi d’accordo su cosa significhi tattica collettiva. Perché anche i bambini più piccoli che giocano a cinque hanno bisogno di qualcuno che gli dia un'organizzazione per entrare in campo e per giocare una partita. Se invece con tattica collettiva intendiamo studio dell'avversario, delle strategie che possiamo utilizzare per vincere una partita, utilizzo della videoanalisi, 11 contro 0 durante le sedute d'allenamento e così via, ecco tutto questo non dovrebbe minimamente essere parte del processo di crescita e di allenamento, almeno fino all'Under 17.

Diverso il discorso invece per la tattica individuale, per cui deve essere fatto un grandissimo lavoro e deve essere proposta continuamente nei settori giovanili. Come hanno detto anche oggi in una conferenza a cui ho assistito [all’ECA Club Connect, ndr] la capacità di scegliere, di decidere, di capire cosa fare ancora prima di ricevere il pallone è la qualità più grande che va ricercata in un giocatore e dovrebbe far parte di un percorso che questo gioco richiede.

Come si vede il margine di crescita di un giovane calciatore? Immagino che sia molto diverso, e più complesso, rispetto a vederlo in professionisti che magari hanno venticinque, trent’anni, e che ci sia un lavoro anche di immaginazione rispetto a un futuro che per forza di cose non possiamo conoscere.

Il bello e il difficile di lavorare a livello giovanile è che non ci sarà nessuno strumento, nessun dato, nessuna intelligenza artificiale che ti permetterà di misurare e capire quella che viene chiamata prospettiva. Tanto più perché un soggetto giovane continua a cambiare, sia dal punto di vista fisico che da quello mentale.

I dati ci possono aiutare a capire quanto potrà diventare alto un soggetto ma non potremo mai misurare quello che lo contraddistingue, e che solo alcune persone con un po' di esperienza hanno l'occhio per intravedere. Se negli adulti i dati sono più o meno la fotografia di quello che è un giocatore - anche lì ovviamente con un minimo margine di errore - nei giovani invece poche cose sono misurabili, e questo è ciò che secondo me rende bellissimo questo mondo.

Noi adulti dovremmo essere capaci di assecondare la crescita dei giovani, invece di determinarla in maniera restrittiva. E allo stesso tempo provare a capire il futuro di un soggetto, che magari ha determinate qualità quando lo valutiamo e tre anni dopo ne ha di completamente diverse.

Quindi quello di capire levoluzione rimane un lavoro quasi totalmente istintivo ancora oggi?

Sì ma questo non significa sia legato semplicemente al caso. Non è che tiriamo il numero e speriamo che sia quello giusto. I dati, la tecnologia ovviamente possono esserci di aiuto. Dall'altro lato, aiuta anche l’esperienza. Più vedi giovani in determinate fasce di età e più hai la capacità, continuando a paragonare quello che hai visto, di poter capire se un ragazzo o una ragazza possono avere dei margini di crescita, di miglioramento. La combinazione tra queste due cose è fondamentale, perché i dati possono informarti su alcuni aspetti, ma non su quello che poi sarà complessivamente un giocatore.

Questo è particolarmente importante nel calcio, che è uno sport che possono praticare soggetti di tipologie completamente diverse. Non c'è un parametro determinante. Per dire, il 90% dei giocatori o delle giocatrici di pallavolo devono avere una struttura fisica di un certo tipo. A calcio, invece, giocano atleti veri ma anche soggetti che non hanno niente dell'atleta ma magari hanno capacità mentali di anticipazione. Eccelle quello che ha grande tecnica, ma anche quello che non ha grande tecnica, perché ha altre doti. Questa variabilità rende veramente difficile razionalizzare una decisione, far sì che sia misurabile.

Le famose “schede", o le valutazioni che fanno gli osservatori, hanno una serie di parametri abbastanza oggettivi: valutazioni sull'aspetto tecnico, sull'aspetto fisico, e così via. Poi come entri sull'aspetto mentale, sulla prospettiva, diventa tutto molto complicato. E lì sta il bello, perché altrimenti sarebbe tutto molto oggettivo e poco legato alle capacità che solo gli essere umani hanno.

C'è un giocatore che l'ha sorpresa? Che pensava che la sua parabola fosse di un certo tipo e invece è andata in maniera completamente diversa?

In tanti anni ce ne sono stati tanti su cui io e tante altre persone non avrebbero scommesso e sono diventati giocatori, e altrettanti su cui avremmo scommesso tutti e che poi non sono diventati giocatori. Credo che faccia parte del nostro mestiere, il margine di errore è elevatissimo. Una cosa che ho imparato è dare meno giudizi immediati, proprio perché i soggetti sono in continua evoluzione. Battezzare un giocatore e dire questo no o questo sì è l'ultima cosa che deve essere fatta nel settore giovanile.

Sarebbe anche sbagliato rispondere perché il compito di un responsabile è credere in tutti i giocatori, anche in quello in cui credi meno. E allo stesso tempo non bisogna nemmeno credere troppo in qualcuno di cui sei sicuro. Perché in questo modo tu escluderai qualcuno e, come sempre capita, ti accorgerai che invece arriva quello su cui nessuno scommetteva e diventa un giocatore di alto livello. Il bello dei giovani è che sono capaci di sorprenderti, di arrivare anche oltre i limiti che noi spesso gli diamo come adulti.

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