Poteva finire diversamente. Del ritiro di Roger Federer si parla dal 2016, da quando cioè si è infortunato al ginocchio mentre faceva il bagnetto alle figlie. Una circostanza banale e comica che stona vicino alla sua grandezza, come quella secondo cui Eschilo morì ucciso da una tartaruga fattagli cadere sulla testa da un’aquila. D’altro canto aveva senso: Federer giocava senza sforzo, con lo stile più naturale possibile, e il suo tennis divino lo proteggeva dagli infortuni dei comuni mortali: solo fuori dal campo poteva farsi male. Da quel momento sono successe molte cose, e ognuno ha confezionato nella sua testa il suo finale preferito.
In uno di questi finali immaginari Roger Federer si ritira a Melbourne 2017, dopo aver alzato il trofeo degli Australian Open accanto al suo nemico-amico di sempre, Rafael Nadal. A 36 anni, con un ginocchio operato, al primo torneo dal rientro, battendo il suo avversario più duro, aveva dimostrato in via definitiva lo statuto divino del suo tennis. A quel punto perché continuare a competere con gli umani?
Federer invece non si ritira, e quello che avrebbe dovuto essere un Farewell Tour diventa una seconda vita, tarda ma dorata. Vince un altro Wimbledon, e un altro Australian Open. Non solo non si ritira, ma gioca persino meglio, per qualcuno nella versione migliore di sé stesso, con un rovescio mai visto. Un Federer capace di venire finalmente a capo dell’enigma Nadal, disinnescandolo sulla diagonale più sanguinosa.
Un altro finale immaginato va in scena nel tardo pomeriggio del 14 luglio del 2019. Roger Federer ha il secondo matchpoint della finale di Wimbledon contro Novak Djokovic, e ha la fortuna di averlo su un comodo dritto d’attacco, il dritto migliore della storia: Federer chiude quel dritto incrociato, si sdraia per terra in lacrime, e con la coppa dorata tra le mani annuncia il suo ritiro dal tennis. Le cose non sono andate così perché la vita non è un romanzo e quel dritto d’attacco è finito troppo corto per battere un predatore come Djokovic. E allora in molti si sarebbero accontentati di un altro finale, supremamente amaro e romantico. Federer che annuncia il ritiro sul centrale appena dopo la sconfitta più dura della sua carriera. Un ritiro annunciato dalla cima di una montagna di dolore, mentre la fiamma del suo tennis brucia ancora immacolata, e il mondo attorno piange nello sconforto collettivo. Un tennis perdente e quindi ancor più magnifico: troppo puro per la brutalità della nostra epoca. Sarebbe stato il finale ideale, per un tennista romanticizzato per i suoi successi ma soprattutto per le sue sconfitte - numerosissime e spesso crudeli e spettacolari. Il dio che cade e che sporcandosi di terra si mostra più vicino ai destini umani. Meritevole di empatia e di comprensione, mentre piange con la faccia rivolta verso terra.
Federer dopo quel giorno invece ritorna in campo ed è forse lui il primo a immaginare un nuovo finale per la propria storia. Il tabellone del centrale di Wimbledon è congelato su quel punteggio inspiegabile: 7-6 (5), 1-6, 7-6 (4), 4-6, 13-12 (3), e l’unico modo per cancellarlo, e cancellare il ricordo di quei due matchpoint (che per Marco Imarisio «Si sono fatti carne»), era vincere e concedersi un finale felice perfetto, magari proprio sul prato di Wimbledon. Il finale immaginato da Federer e dai suoi tifosi innamorati patologici coincidono.
Invece, in questi tre anni il tabellone è rimasto fermo su quel punteggio e il tempo è trascorso lento. L’epidemia di Covid-19 ha sospeso il tennis, Wimbledon è stato annullato per la prima volta dalla Seconda guerra Mondiale e Federer ha scritto sui social di essere distrutto. Lo abbiamo visto poi ricomparire sotto la neve, nella sua casa in mezzo alle Alpi Svizzere, sorridente mentre palleggia contro il muro del garage. Non aveva perso il suo entusiasmo infantile per il tennis. Abbiamo dovuto accontentarci di questi fegatini di Federer sparsi per internet. La sua comparsa sulla cima di un palazzo in Liguria, per palleggiare insieme a due bambine da un palazzo all’altro. E nel frattempo Roger Federer ha avuto a che fare con la consunzione del proprio corpo, e quindi col tempo che passa.
L’idea di un tennis sublimato da tutti i suoi aspetti più fisici e aspri, che Federer è riuscito a incarnare fino alla fine, in fondo era solo un’illusione creata dal suo talento. 1400 partite nel circuito di uno degli sport più logoranti sono una verità inaggirabile: troppe per qualsiasi essere umano, figuriamoci per uno con un ginocchio malandato. La storia di Federer a quel punto prende la piega cupa della medicalizzazione; diventa una storia di bollettini medici, operazioni, riabilitazioni e aneddoti inquietanti, come quando racconta che non poteva nemmeno andare in bici con le figlie senza che il ginocchio gli si gonfiasse.
In quel momento molti altri amanti feriti hanno pensato a quest’altro finale, in cui Federer evita il ritorno in campo. Quella sconfitta con Djokovic che rimane sospesa a proiettare la sua ombra per sempre, dolorosissima, sì, ma con una punta di sentimentalismo consolatorio. Ci si sarebbe per lo meno risparmiati uno spettacolo penoso, questo era il pensiero in quel periodo.
Quando torna Wimbledon 2021 Federer ha ormai quasi 40 anni e in pochi credono nella possibilità di un finale perfetto. È un torneo surreale oggi scolorito nei ricordi. Forse non è nemmeno successo davvero. Federer va molto vicino a perdere contro il modesto mancino di Adrien Mannarino e assistere alla partita è l’esperienza più vicina a un funerale sportivo. Sarebbe troppo, o comunque di cattivo gusto, pensare a un intervento divino, eppure Mannarino si fa male e Federer vince. I toni mesti diventano una celebrazione religiosa quando danza sul malinconico Gasquet, o sul parvenu Norrie. Il suo corpo pare incredibilmente fragile, eppure la purezza del suo tennis è intatta. Federer fa ancora cose che può fare solo Federer, il suo talento è fatto di una materia eterna e impassibile al tempo.
Come pochissimi altri sportivi della storia (Maradona? Jordan? Zidane?) Federer riesce a suggerire dietro al gesto una metafisica che apre uno squarcio su un piano diverso. A fine carriera, mentre la sua presenza si fa disincarnata, la spiritualità del suo tennis ha una luce speciale. Prima dei suoi quarti di finale contro Hubert Hurkacz abitavamo questa nuvola in cui Roger Federer era ancora il miglior tennista al mondo. La sua fantasia, e la nostra, pareva coincidere con la realtà: nel 2017 era tornato splendente e rigenerato dopo l’operazione al ginocchio, e allora perché la magia non avrebbe potuto ripetersi?
Poi è arrivata quella partita come uno scoglio di realtà. Hurckacz, uno dei migliori giovani tennisti al mondo, si rivela un avversario troppo duro. Il sogno di un giocatore intoccabile dalle leggi del tempo e della biologia umana svanisce. Perde 6-0 l’ultimo set giocato a Wimbledon, il primo 6-0 subito della sua carriera sui prati dell’All England Club. Viene pregato di non ritirarsi, per non trasformare il sogno di un finale perfetto in un finale da incubo. In un videomessaggio da casa Federer annuncia un’altra operazione al ginocchio, ma anche che non si ritirerà.
I suoi tifosi, noti per un amore ai confini col patologico, rimangono imprigionati in questo limbo d’attesa di un ritorno, dove proliferano altri finali immaginati. La domanda è sempre la stessa: qual è un addio all’altezza di Roger Federer? Nel torneo casalingo di Basilea, a ottobre, nel torneo in cui faceva il raccattapalle ai giocatori professionisti? Il torneo in cui lavorava sua madre e in cui poteva vedere da vicino Stefan Edberg, Jimmy Connors? Ancora meglio sarebbe stato un ultimo Wimbledon: a quel punto tutti avrebbero accettato senza isterie qualsiasi sconfitta. Almeno avremmo avuto un addio con i piedi sul prato, nella cornice più nobile. Nessuno ha incarnato lo spirito aristocratico del tennis come Roger Federer, e nessun torneo lo ha emanato come Wimbledon, l’unica cornice possibile per i saluti finali.
Invece l’addio di Federer prende la forma di due fogli su carta intestata con sopra scritto un lungo discorso. E poi la sua faccia congelata nei video sui social, mentre lui stesso recita una versione sintetica di questo discorso. Ritornerà alla Laver Cup, ma sarà già un ex giocatore in un torneo non competitivo. Sarà la prima versione della nuova vita da senior di Roger Federer. Anche lui probabilmente avrebbe preferito di arrivare almeno fino a Basilea, ma le condizioni del suo ginocchio erano peggiori di quanto si aspettasse. La notizia è piombata sugli appassionati all’ora di pranzo di un qualsiasi giovedì lavorativo, in un pomeriggio consacrato ai pianti, ai messaggi scambiati col cuore pesante, alla visione dei suoi highlights, ai ricordi con amici con cui abbiamo condiviso momenti: noi e Roger Federer.
Per anni le persone hanno immaginato l’addio ideale di Roger Federer, ma erano tutti desideri egoistici. La verità è banale: un campione del suo calibro può permettersi di dire addio quando meglio preferisce, e nel modo che preferisce. I suoi ultimi anni sono spesso stati interpretati come l’incapacità cronica di un vecchio campione di abbandonare la vita agonistica, l’attenzione mediatica, una carriera di successi. Andrebbero visti come anni in cui Federer ci ha concesso altri pezzetti di sé, senza paura di apparire decaduto, il suo tennis sbiadito. È stato un atto di generosità.
I tre anni che abbiamo trascorso da quella sconfitta con Djokovic ci hanno permesso di elaborare il lutto nel modo più graduale possibile. Abbiamo imparato a fare a meno di lui, noi e il tennis, che ha cominciato una nuova vita senza Roger Federer. Il ritiro arriva a pochi giorni dall’incoronazione di Carlos Alcaraz, per molti l’unico erede al trono legittimo dei Big-3. Un paio di giorni fa lo spagnolo aveva espresso il suo desiderio di giocare contro Federer, un giorno o l’altro. Rimarranno due epoche tennistiche che non si toccheranno mai.
Per anni le persone hanno immaginato il ritiro di Roger Federer, pregandolo di ritirarsi prima che la magia svanisse. Ma l’idea di un ritiro all’apice è un'astrazione che facciamo nel tentativo di massimizzare l’eccellenza delle performance sportive, nell’epoca della ricerca dell’eccellenza perpetuata fino all’ultima goccia di sudore disponibile. Oppure solo perché Federer era una parte di noi, della nostra storia, e avremmo preferito lasciar andare quel pezzo prima di vederlo invecchiare. Anche solo per non vedere sporcata la sua immagine divina e incorruttibile. L’amore per Federer, però, non nasce solo dai suoi successi e dal suo tennis impossibile, ma anche da come ha conciliato questa perfezione con una fallibilità che non ha nulla di divino, ed è completamente umana. Le sue prestazioni belle e perdenti, le sue sconfitte maturate dopo una pila fumante di occasioni sprecate. Le sue lacrime, sempre generose dopo vittorie ma dopo soprattutto le sconfitte. Federer tennista è stato l’esperienza religiosa descritta da Foster Wallace, ma soprattutto negli ultimi anni anche l’imperfezione che appartiene agli esseri umani. È stato l’una e l’altra cosa.
Mentre tutto attorno si elabora il lutto, il discorso di Federer è stato perfettamente nel suo stile. Non contiene nessuna traccia di tristezza e di rimpianti. Piuttosto la gratitudine per essersi sentito vivo, «nella gioia e nel dolore», e l’amore infinito per i suoi avversari, per i suoi tifosi, per il tennis. La tristezza con cui si sta ricordando in queste ore è comprensibile, ma è legata più che altro alla nostra consapevolezza del tempo che passa, o all'idea che Federer si sia ritirato insieme a un grosso pezzo del tennis, per il difetto percettivo per cui molti di noi non hanno mai visto e conosciuto un tennis senza di lui. È stato anche il nostro privilegio.
Federer è, ed è sempre stato, più reale di quanto siamo disposti ad accettare. Non esiste nessun finale perfetto, ma rimane ancora l’eco di questo amore che non finirà mai. Come ha scritto lui stesso, c'è molto da celebrare.