Questo è uno di quegli articoli in cui bisognerebbe scrivere cosa non ha funzionato e perché. Mettersi a descrivere cause ed effetti, a elencare i problemi. Stavolta, però, non si sa davvero da dove iniziare.
Quando Ivan Juric è stato scelto come nuovo allenatore della Roma in molti potevano pensare che sarebbe andata male, ma in pochi potevano immaginare così male. In 12 partite sono arrivate 4 vittorie, 5 sconfitte e 2 pareggi. La Roma ha perso più partite di quante ne abbia vinte, ma questo non basterebbe a descrivere l’agonia che è stata la Roma in questo mese e mezzo - in cui in città splendeva un sole primaverile mentre la Roma giocava un calcio plumbeo.
Le vittorie sono state tutte ambigue e risicate, e le sconfitte invece nette e roboanti. In poco tempo si è consumata molta infelicità: l’umiliante sconfitta in casa dell’Elfsborg, il mesto pareggio in casa dell’Union Saint Gilloise, la comica sconfitta di Verona e l’imbarazzante tracollo con la Fiorentina. Nessuna di queste partite ha avuto una fisionomia normale, che potesse in qualche modo sembrare parte di un percorso.
In questo mese e mezzo la Roma aveva l'aria di una squadra esaurita: tatticamente confusa, tecnicamente imprecisa, mentalmente instabile. Ogni sconfitta sembrava l’ultima sconfitta. I giocatori della Roma ridotti a sperare che l’arbitro, per qualche ragione, fischiasse prima la fine, e li liberasse dalla tortura che era diventata per loro il gioco del calcio. Tutto intorno il caos: la contestazione a Trigoria e allo stadio, la curva che toglie le pezze, il silenzio dei Friedkin, le radio che girano il dito nella piaga, il cuore dei tifosi semplicemente straziato.
Mentre tutta la Roma andava a fuoco, Juric sembrava quel cane col cappello che bevendo il suo tè dice: “this is fine”. Andava ai microfoni indossando i suoi completi mezzi eleganti, di chi si è dovuto rifare il guardaroba di fretta, e si sforzava di essere positivo. Forse qualcuno gli aveva detto che, nonostante tutto, bisognava essere positivi. Ha abbandonato il suo stile schietto gelido e ha adottato uno strano linguaggio corporate: «La squadra è in crescita»; «La prestazione è positiva». Le interviste finivano per suonare surreali, involontariamente comiche. Faceva quasi tenerezza, sentirlo dire: «Mi sento in paradiso», mentre i tifosi erano ancora arrabbiati per l’esonero di De Rossi e a sentirlo pensavano “te credo”.
«Sono stati fatti passi in avanti nonostante la sconfitta» diceva dopo il disastro di Elfsborg; «La mia Roma ha fatto una grande partita, in controllo, creando tante occasioni» ha strombazzato dopo il mesto pareggio col Monza. Sembrava parlasse da una realtà parallela ma probabilmente non poteva fare altro, per provare a risollevare un gruppo emotivamente ai minimi termini. Di certo questa comunicazione lo faceva sembrare ancora più fuori posto: uno che è lì per miracolo, come è sembrato sin dall’inizio.
E così questo esonero è sembrato è sembrato una liberazione per tutti, al termine di una permanenza protratta qualche settimana di troppo. Solamente perché non c’era nessuno che potesse decidere di licenziarlo. Perché c’è il problema che se licenzi un allenatore poi ti tocca prenderne un altro. E nella Roma ormai sono stati tutti licenziati e non è rimasto più nessuno che possa prendere questo tipo di decisioni. Ai microfoni dopo la partita si è presentato, confuso e spaesato, Florent Ghisolfi, teorico direttore sportivo il cui ruolo nella Roma è ancora tutto da decifrare. In francese, si è più o meno limitato a chiedere scusa. Non era stato lui a scegliere Juric come allenatore, ma Lina Souloukou, che nel frattempo si è dimessa.
A Firenze la Roma era sembrata una squadra vuota. Non c’è altro modo per descrivere quella totale assenza di tutto. Il tipo di prestazione dopo la quale cambiare allenatore diventa inevitabile. Juric è rimasto invece altre 4 partite perdendone due praticamente identiche; mandando in campo una squadra zombie, che sembrava giocare dall’oltretomba. Due sconfitte per 3-2 che rivelano tutti i problemi, le fragilità, le contraddizioni, su cui si reggeva la squadra. Due sconfitte nelle quali, effettivamente, è difficile dire con precisione cosa è successo, se non che la Roma pare dentro una gravità diversa rispetto agli avversari: fare gol costa una fatica immonda, mentre per gli avversari sembra tutto facile. Ai giocatori della Roma, che sembrano giocare coi pesi ai piedi, non riesce nulla; mentre gli avversari, che volano, riesce tutto.
Nel secondo gol del Bologna la Roma è tutta lunga in avanti sull’onda del pareggio appena ottenuto; Castro riceve dietro il centrocampo e si inventa un cambio di gioco complesso per lanciare in porta Orsolini. Angelino non fa il fuorigioco, e anzi si permette un paio di passetti all’indietro che tirano la linea buona per l’avversaria; d’altra parte non c’è nessuno che possa recuperare perché i difensori della Roma sono tutti usciti uomo su uomo oltre il centrocampo. La deviazione di Angelino diventa un pallonetto sopra la testa di Svilar.
Nel terzo gol del Bologna Odgaard porta fuori Mancini e nello spazio liberato si va a inserire Karlsson, che segna il suo primo gol in Serie A. Nell’occasione Mancini, preso sotto scacco, fa una brutta figura a guarda l’attaccante segnare, ma è il sistema difensivo a essere collassato. In questo caso si chiede a Stephan El Shaarawy di assorbire l’inserimento in area.
Le colpe, però, non sono individuali ma di sistema. O meglio: i problemi collettivi sono intrecciati a quelli individuali e stabilirne i confini non è semplice. La squadra sembra aver rigettato le idee tattiche di Juric, o comunque ha dimostrato di non avere le caratteristiche per metterle in pratica. Essendo quello di Juric un calcio molto esigente dal punto di vista psico-fisico, la squadra è finita in bilico su una lastra sottile, tra una solidità illusoria e la tragedia. È venuto fuori uno strano mostro medievale: una squadra che ha assorbito i difetti di Juric (la sterilità offensiva), ma non i suoi pregi (l'affidabilità difensiva).
La cosa peggiore che si può dire, di questo mese e mezzo, è che la Roma non sembrava una squadra di Juric. Se l’allenatore croato ci ha abituato a squadra intense, verticali, caotiche, solide, questa Roma è sembrata sempre sotto ritmo, lenta e riflessiva. Una squadra moscia e spaventata. «Dobbiamo diventare più bestie»; «Dobbiamo diventare più bastardi» diceva Juric, e più lo diceva e più la Roma si intristiva.
Non è semplice descrivere la Roma di Juric. Una squadra che sembra in perfetto controllo delle partite, che si mette tutta nella metà campo avversaria a gestire il pallone. È la squadra di Serie A con la percentuale di possesso palla più alta, 61%, come Bologna e Juventus. Eppure il possesso palla della Roma ha qualcosa di auto-ipnotico. Più si passa la palla, meno pare in grado di segnare; più si passa la palla, e più gli avversari sembrano pronti a colpire. Per un paradosso, la Roma più tiene palla e più aumenta la possibilità di subire gol. Stiamo parlando di percezioni, è chiaro, ma gli avversari, conoscendo queste fragilità, ci hanno giocato sopra. Tutte le squadre che affrontano la Roma di Juric adottano la stessa strategia: si mettono basse e pazienti a difendere e spingevano la Roma sugli esterni a crossare, là dove la Roma ha meno qualità. Celik e Zalewski spesso finiscono anche per rinunciare al cross, per consolidare un dominio asfittico ma senza sbocchi.
Gli avversari si mettono pazienti nella propria metà campo, attenti a controllare le sponde di Dovbyk, e poi approfittano delle difficoltà nella Roma nelle marcature e nelle distanze in generale. Persino l’Inter ha preferito giocare una partita reattiva e alla fine, pur lasciandosi inghiottire dal ritmo lento degli avversari, pur giocando quasi sempre a ridosso della propria area, ha rischiato poco e niente. Indipendentemente dall’avversario, o se gioca in casa o in trasferta, le partite della Roma hanno finito per somigliarsi tutte.
Tutti questi difetti erano già in nuce nella Roma di De Rossi, e si sono sclerotizzati con Juric in panchina. In questi giorni si è ripetuto, un po’ per stanchezza, che Juric sarebbe “l’ultimo dei colpevoli”, ma come si a fa a dirlo di fronte a una squadra che ha peggiorato ogni aspetto del proprio gioco, che è diventata l’incubo di sé stessa?
Quando Juric è stato scelto c’erano dubbi che questa rosa, costruita per il gioco associativo e di possesso di De Rossi, fosse adatta per il suo stile. Cosa ci avrebbe fatto Ivan Juric, l’allenatore del calcio satanista, con questa rosa carina, tecnica e drammaticamente poco dinamica? Le cose sono andato peggio del previsto: se il compito di un allenatore dovrebbe essere di mascherare o migliorare i limiti della rosa, Juric li ha esposti tutti: la scarsa qualità degli esterni, il poco atletismo, la lentezza dei centrali difensivi.
Per funzionare Juric avrebbe dovuto convincere a fondo i suoi giocatori, ma questo è stato il suo fallimento più grande. La squadra è sembrata mentalmente esausta, e anche in vaga polemica col tecnico. Dopo il disastroso primo tempo con la Fiorentina, Juric ha sostituito Mancini e Cristante, che sono rimasti nello spogliatoio senza rientrare a seguire la partita. Un gesto che non poteva passare inosservato. «Sono stati giorni di litigi pesanti» aveva ammesso il tecnico pochi giorni dopo. Juric non ha saputo scegliere una strada decisa, non ha trovato dei giocatori di riferimento: a volte ha fatto a meno dei senatori, così come i romanisti gli chiedevano, altre volte ha lasciato in panchina i giovani più in forma. L’unico punto fermo è sembrato che Hummels non potesse giocare. Hummels che ai microfoni Mancini ha definito “un professore”.
Per praticare il tipo di gioco voluto da Juric serve una fiducia cieca, ai limiti del religioso, perché ci si assumono grossi rischi e bisogna andare forte. Senza questa fiducia, e senza una buona condizione, si rischiano brutte figure. Quando è arrivato ha trovato un gruppo “triste” per l’esonero di De Rossi. “Triste”: così lo ha definito lui. Juric questo gruppo non è riuscito a risollevarlo. Così i problemi mentali si sono intrecciati a quelli tattici, e anche a quelli tecnici.
I problemi della Roma erano esasperati dalle interpretazioni sempre scadenti dei propri giocatori, spaventati fino alla confusione assoluta; incapaci di giocare passaggi rischiosi, di assumersi delle responsabilità e di esprimere anche vagamente il proprio potenziale. Alcuni giocatori sembrano ridotti ai minimi termini. Dopo aver segnato il suo primo gol in campionato, contro il Verona, Matias Soulé per poco non si mette a piangere. Uno stato di prostrazione che sembra appartenere un po’ a tutti nella squadra, a cominciare dal contestato Pellegrini, che pare aver disimparato quasi tutto. Juric ha chiuso con la media punti più bassa degli ultimi vent’anni della Roma.
Se qualcuno dice che lui è l’ultimo dei colpevoli, è soprattutto per sottolineare che i problemi della Roma vanno oltre la guida tecnica, e anche ben oltre una rosa limitata ma dalle potenzialità interessanti. Le dimissioni del CEO Lina Souloukou si sono consumate pochi giorni dopo l’arrivo di Juric e non è ancora arrivato un sostituto; il direttore tecnico mancava ancora prima e il direttore sportivo, Ghisolfi, va ai microfoni più che altro perché è l’ultimo rimasto, ma non ha l’aria di chi dovrà scegliere il prossimo allenatore.
La confusione è così profonda che oggi si fatica anche solo a immaginare chi potrebbe prendere il posto di Juric in panchina, mentre tra i tifosi aleggia lo spettro della stagione “dei cinque allenatori” - quella in cui la Roma non andò lontana dal retrocedere.
Sul punteggio di 5-1 per la Fiorentina, a 10 minuti dalla fine, in una di quelle serate in cui il calcio sembra una punizione per i tifosi della Roma, Ivan Juric aveva le lacrime agli occhi. È stato triste vederlo ridotto così e oggi viene facile dire che avrebbe fatto meglio a non accettare la panchina : ma come avrebbe potuto? Era una delle classiche situazioni trappola, dove non puoi rifiutare ma è quasi impossibile che le cose non finiscano in modo tragicomico. Questa Roma, per come era ridotta dopo l'esonero di De Rossi, era come il Macchiavelli di Boris. Un'esperienza ha fatto sembrare Juric più sprovveduto di quanto non sia in realtà: un allenatore che viene da una lunga gavetta, e che ha saputo sempre dare alle proprie squadre un'impronta riconoscibile. Le cose erano semplicemente troppo più grandi di lui.
Per i tifosi della Roma la stagione sembra ancora molto lunga.