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Le sorprese del derby
01 ott 2018
La squadra di Di Francesco ha avuto la meglio grazie a un'elasticità e a una capacità di adattamento che invece è mancata alla Lazio.
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Il derby di Roma ha una lunga tradizione di pronostici ribaltati da eroi inaspettati, di giocatori considerati inadeguati che hanno deciso le sorti della stracittadina da una parte o dall’altra. Sabato a questa tradizione si è aggiunto Lorenzo Pellegrini. Dopo un inizio di stagione disastroso, incorniciato da un gol sbagliato a porta vuota nella trasferta di Bologna, il centrocampista giallorosso ha deciso il derby, segnando il gol d’apertura, procurandosi il calcio di punizione del 2-1 e fornendo l’assist per il gol che ha definitivamente chiuso la partita. Nonostante abbia giocato quasi un tempo in meno rispetto ai suoi compagni, Pellegrini è stato il migliore della propria squadra anche in diverse statistiche individuali meno appariscenti - tiri nello specchio, contrasti vinti, dribbling riusciti – dimostrando che il suo contributo alla vittoria finale della Roma è stato tutt’altro che casuale.

Il contesto tattico

Entrato al 37esimo del primo tempo per sostituire l’infortunato Pastore, Pellegrini si è calato subito non solo in un ruolo che aveva ricoperto solo poche volte in carriera (un paio, all’inizio del 2017, con la maglia del Sassuolo) ma anche in un contesto tattico inusuale per la squadra di Di Francesco.

La Roma, infatti, ha assecondato una tendenza già visibile nei primi big match giocati quest’anno contro Atalanta e Milan, adottando fin da subito un 4-2-3-1 molto basso (a fine partita il baricentro medio sarà ad appena 44,5 metri dalla linea di porta) e che non aveva nessuna intenzione di ostacolare la prima costruzione della Lazio (la Roma ha recuperato palla in media a 34,8 metri dalla propria porta).

L’atteggiamento ipercompatto della Roma in fase difensiva. Caceres può arrivare fino alla trequarti senza pressione e servire Parolo, su cui però chiude alle spalle El Shaarawy. Da notare la libertà lasciata a Lulic e Marusic sugli esterni.

La squadra di Di Francesco faceva salire il pressing solo quando il possesso della Lazio era particolarmente difficile, per esempio su un retropassaggio al portiere, comprimendo lo spazio in verticale con la salita della difesa fino alla linea del centrocampo per mettere in fuorigioco le fughe in profondità di Immobile (suoi 4 dei 5 fuorigioco chiamati ai biancocelesti).

L’atteggiamento sorprendente della Roma, che nella stagione passata aveva deciso di puntare forte sulla propria identità aggressiva anche nelle partite più difficili, ha in qualche modo spiazzato la squadra di Inzaghi, che si è ritrovata a fare una partita che non è abituata a fare e che non le piace fare contro le grandi squadre, una partita di possesso nella metà campo avversaria, cioè, contro una squadra che difendeva con un blocco basso e stretto a proteggere il centro.

Nonostante i suoi centrali potessero avanzare quasi fino alla trequarti praticamente senza pressione, la Lazio ha comunque applicato il piano che aveva pensato contro la Roma che si aspettava, cioè contro una squadra alta, aggressiva, con tanti metri da attaccare tra la linea di difesa e Olsen. Gli uomini di Inzaghi, insomma, hanno provato ad attaccare in campo lungo anche se il campo lungo non c’era, cercando di arrivare il prima possibile e in verticale alle corse di Immobile, alla testa di Milinkovic o agli inserimenti di Parolo (a fine partita saranno ben 54 lanci e 154 verticalizzazioni), ma senza riuscirci, contro una squadra molto forte nel gioco aereo e che non lasciava spazio alle spalle della difesa. Il fatto che la Roma sia riuscita a mettere in fuorigioco molte volte Immobile nonostante adottasse un baricentro piuttosto basso, conferma quanto la Lazio abbia provato comunque a lanciare lungo direttamente dalla difesa nonostante l’assenza di pressing alto da parte dei giocatori della Roma.

L’altro paradosso della partita della Lazio è stato quella di ostinarsi a cercare di passare per vie centrali, nonostante la Roma fosse molto corta orizzontalmente stringendo le due ali (Florenzi ed El Shaarawy) accanto ai due mediani per schermare le ricezioni verso Luis Alberto e Milinkovic-Savic, che galleggiavano sulla trequarti. La squadra di Inzaghi non ha quasi mai cercato l’ampiezza per allargare la resistenza difensiva della Roma, nonostante Marusic e soprattutto Lulic fossero sempre liberi di ricevere, e spesso in situazioni piuttosto pericolose (anche perché i terzini della Roma tendevano ad uscire in maniera aggressiva tra le linee sui trequartisti biancocelesti).

Milinkovic-Savic riesce a ricevere nel mezzo spazio e potrebbe servire sull’esterno Lulic, ma in questo caso l’intervento tempestivo di Santon riesce a chiudere il passaggio.

Per quanto la Roma non abbia fatto una partita difensiva perfetta, concedendo molte ricezioni tra le linee agli avversari, il semplice fatto di avere grande densità centrale le permetteva di recuperare il pallone facilmente, anche grazie all’imprecisione tecnica degli uomini di Inzaghi, che spesso e volentieri hanno sbagliato scelte e esecuzioni nell’ultima trequarti (Luis Alberto e Milinkovic-Savic hanno perso rispettivamente 15 e 16 palloni, meno solo di Lulic, arrivato addirittura a quota 20).

Il problema, per Inzaghi, è che la strategia pensata non era solo inefficace contro il nuovo modo di difendersi della Roma – i biancocelesti a fine partita produrranno appena un Expected Goals, di cui 0,22 solo dal gol di Immobile nato dall’ingenuo errore di Fazio - ma era soprattutto dannosa quando la Lazio perdeva palla.

Allungandosi con i lanci lunghi e imbottigliandosi nel corridoio centrale in cui la Roma faceva maggiore densità, la squadra di Inzaghi per paradosso facilitava il gioco di transizioni pensato da Di Francesco, che poteva giocare in campo lungo soprattutto con le corse di El Shaarawy e le seconde palle riciclate da Dzeko, cercato con insistenza dai lanci lunghi direttamente dalla difesa.

Prima dell’ingresso di Pellegrini, però, anche la fase offensiva della Roma era stata poco convincente e dipendente dalle iniziative personali di Dzeko e Pastore, un po’ per la partita molto negativa di El Shaarawy (recordman nella Roma per tiri respinti, passaggi sbagliati, palle perse e dribbling negativi) un po’ perché Florenzi, dall’altra parte, rimaneva bloccato per aiutare Santon a tamponare le transizioni di Lulic.

La chiave di volta, come detto, è stato l’ingresso di Lorenzo Pellegrini.

Come Pellegrini ha cambiato la partita

Che il ruolo del trequartista nella Roma sarebbe potuto essere decisivo per le sorti dei giallorossi nel derby era prevedibile. Il 4-2-3-1 garantisce vantaggi strutturali nei confronti della difesa a tre in caso di ricezione del trequartista tra le linee, perché costringe uno dei tre centrali ad uscire dalla linea facendo collassare il sistema di marcature a uomo contro i tre uomini offensivi avversari (nel caso della Roma: Dzeko, El Shaarawy e Florenzi). A cambiare, da Pastore a Pellegrini, è ovviamente l’interpretazione tecnica del ruolo, e quella del centrocampista italiano si è incastrata alla perfezione nella strategia pensata da Di Francesco (che dopo l’infortunio dell’argentino non ci ha pensato due volte all’uomo da scegliere per sostituirlo).

Pastore è un trequartista accentratore, che ama toccare molto il pallone per attirare uomini su di sé e trovare il compagno alle spalle delle linee avversarie con un filtrante. Con lui in campo insieme a Dzeko, un attaccante a sua volta molto a suo agio nel venire sulla trequarti per giocare da numero 10, la profondità doveva essere quindi garantita dalle ali che però, come abbiamo visto, erano già gravate da un lavoro difensivo che era necessario per garantire la solidità senza palla della Roma.

Il vantaggio strutturale del 4-2-3-1 contro la difesa a tre: Pellegrini riceve tra le linee, Luiz Felipe esce per prenderlo in consegna, ma alle sue spalle si inserisce El Shaarawy, che verrà servito da un colpo di tacco magistrale proprio dal centrocampista italiano.

Pellegrini, assecondando le sue caratteristiche tecniche, ama invece toccare poco il pallone, giocare di prima spalle alla porta e associarsi con i compagni in verticale per arrivare in porta il prima possibile. Il suo ingresso, quindi, ha innanzitutto velocizzato le transizioni in verticale della Roma, che riusciva così ad attaccare la Lazio nei momenti di sua maggiore disorganizzazione, con giocate tecnicamente complesse, spesso di prima, che inclinavano il campo verso la porta di Strakosha.

Qui Pellegrini prima si allarga per dare una linea di passaggio verticale a Kolarov, tirando fuori Luiz Felipe dalla linea, poi, con un tacco di prima, serve in corsa El Shaarawy, che innesca il 4 contro 3 della Roma.

Pellegrini non ha fatto solo da punto di riferimento sulla trequarti per i compagni, spostandosi in orizzontale, ma ha anche completato i movimenti a venire fuori di Dzeko, che creavano spazio in profondità e tra le linee tirando fuori i centrali biancocelesti. La connessione tra Dzeko e Pellegrini è stata fondamentale soprattutto nell’azione che ha portato al 2-1 della Roma, con il centrocampista italiano che è andato a ricevere un bel diagonale alle spalle del centrocampo della Lazio, dopo l’ennesima palla alta riciclata dal bosniaco.

Dzeko tira fuori Luiz Felipe dopo aver messo giù una palla lunga complicatissima, mentre la linea difensiva della Lazio viene abbassata dagli inserimenti di Florenzi ed El Shaarawy. Nello spazio tra le linee si inserisce puntualissimo Pellegrini, su cui Leiva e Badelj sono in ritardo.

Quello che ha stupito della partita di Pellegrini non è stata solo la pulizia tecnica con cui ha eseguito le giocate ma anche la completezza dei suoi movimenti senza palla. Il centrocampista ex Sassuolo non si è mai accontentato solo della giocata a liberare l’uomo, ma ha anche sempre continuato la corsa in verticale, per attaccare lo spazio dietro la linea difensiva avversaria e riempire l’area.

L’ingresso di Pellegrini ha spinto Inzaghi a correre ai ripari da un punto di vista tattico. Al 53esimo del secondo tempo con l’ingresso di Badelj e Correa al posto di Parolo e Luis Alberto, la Lazio è passata a sua volta al 4-4-2 per dare alla linea difensiva riferimenti più facili in marcatura: adesso i due centrali potevano prendere in consegna Pellegrini e Dzeko, mentre Caceres e Marusic seguivano gli inserimenti delle due ali giallorosse. La Lazio ha anche provato ad abbozzare un pressing alto per ostacolare la prima costruzione della Roma, ma lo ha fatto in maniera frettolosa e disorganizzata, facilitando ulteriormente le ricezioni tra le linee dei giallorossi.

Di Francesco ha letto bene la partita cercando nel secondo tempo di togliere di nuovo punti di riferimento alla Lazio. Non solo abbassando ulteriormente il baricentro e giocando ancora meno con il pallone (il possesso nel secondo tempo non arriverà nemmeno al 37%), ma anche rispondendo tatticamente alle mosse di Inzaghi. L’allenatore abruzzese è passato prima al 4-3-3 con l’ingresso di Cristante, per avere superiorità a centrocampo e schermare ancora meglio il centro, e poi al 3-5-2 con l’ingresso di Juan Jesus, dopo il 3-1 di Fazio, per difendere in area gli ultimi disperati tentativi biancocelesti.

L’efficacia della strategia difensiva della Roma è sottolineata anche dal grafico sulle posizione medie e sui passaggi della Lazio, che ha fatto circolare il pallone intorno al blocco centrale giallorosso senza mai riuscire a penetrarlo.

L’allenatore della Roma, che nel post-partita si è tolto qualche sassolino dalla scarpa parlando con sarcasmo del suo presunto integralismo, deve però rallegrarsi soprattutto dell’essere riuscito a trovare a partita in corso l’uomo che gli ha permesso di mettere in pratica con maggiore efficacia il suo piano gara. Quello di mettere in campo uomini funzionali alla propria idea di gioco è una delle tante cose rimproverate nelle ultime settimane a Di Francesco, che ieri invece ha dimostrato di quanto abbia ancora margini di miglioramento in questo senso.

Chi si è dimostrato integralista, per paradosso, è Simone Inzaghi, che non è riuscito a cambiare il piano gara in corsa di fronte alle novità apportate dagli avversari. La Lazio, di fronte al cambiamento, si è aggrappata con ostinazione alle sue idee di gioco ma in questo modo è sembrata incapace di adottare un registro che potesse mettere in difficoltà l’avversario.

Insomma, il derby ha ribaltato le certezze che avevamo sui due allenatori. Come influirà tutto questo sul resto della stagione dipenderà soprattutto da quanto le due squadre riusciranno a fare tesoro degli insegnamenti che questa partita ci restituisce. Per adesso, ne esce almeno riabilitato il talento di Lorenzo Pellegrini, una buona notizia non solo per la Roma ma anche per il calcio italiano in generale.

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