Quanto si corre in una partita di calcio? Mediamente tra i 7 e i 10 chilometri. Dipende dal ruolo, dal contesto tattico, dalle caratteristiche, dalla generosità. Quello che è più difficile misurare è quando si corre, con quale intensità e soprattutto con quanta intelligenza. Quanto sono utili alla squadra le corse di un giocatore. Gli allenatori usano spesso l’espressione “la corsa in più” per definire quei momenti in cui i giocatori si spendono in un impegno fuori dall’ordinario per aiutare i compagni.
Queste “corse in più” a volte possono assumere toni epici, dare un brivido d’eccitazione più potente di un gesto tecnico. Corse che sono l’espressione ultima, suprema, del superamento della fatica, della generosità. Corse che, lo sa spesso anche chi le fa, possono non portare a niente, che sono un messaggio esterno, come a dire: “sono qui per dare fondo a me stesso”. Sono corse dello sperpero, e quindi di una vitalità estrema e folle. Trasmettono l’eccitazione primordiale di un giocatore che corre sul prato, l’immagine di un corpo che brucia di fatica e furore.
Bisogna per forza partire da quell’azione, perché chi ha guardato la partita non la dimenticherà facilmente. Il Milan è all’ennesimo assedio offensivo ma ormai mancano due minuti alla fine. Si mescolano due sentimenti l’uno dentro l’altro, perché a ogni assalto fallito il Milan perde un po’ di forza, un po’ di convinzione; mentre la Roma si si esalta come solo una squadra italiana quando deve difendere un risultato acquisito, specie se indossando gli abiti della sfavorita, specie in uno stadio che urla e canta dopo ogni rinvio, dopo ogni spazzata.
Il Milan ha segnato due minuti prima e sul piede di Chukwueze, che si accentra, c’è forse l’ultimo pallone utile per stiracchiare il tempo della partita. Il calcio è uno sport a basso punteggio, ma può ribaltare la sua natura in certe condizioni. Chukwueze fa questo tiro scolastico sul secondo palo che Svilar respinge alla sua destra. In quella zona, come sempre in quella partita, non c’è Rafael Leao ma Stephan El Shaarawy. Non si capisce più che ruolo sta ricoprendo, sinceramente, e come mai si ritrovi ultimo uomo. "Il Faraone" rinvia verso l’alto con tutta la forza che ha, come se la palla potesse davvero incastrarsi in una nuvola, e non scendere mai più, e l’arbitro a quel punto sarebbe costretto a fischiare la fine della partita. El Shaarawy la guarda mentre prende il volo e qualcosa gli scatta nella testa. Davanti a lui ci sono tre giocatori del Milan, che però stanno fermi, allora lui si mette a correre, li supera. Alberto Rimedio dice che El Shaarawy «non ne ha più», ma quello corre, scatta. Tomori, che ha corso chilometri meno di lui nella partita, lo raggiunge ma in ritardo, e deve dargli una spallata per abbatterlo. Una di quelle azioni di pura volontà, messa insieme coi dettagli, con cui la squadra in difficoltà spezza per un attimo l’assedio, e può respirare.
C’è qualcosa in più, però, in quest’azione. Perché non l’ha fatta un giocatore entrato da poco, ma uno che quella fascia l’ha percorsa decine di volte in quella partita, su e giù, sempre al massimo dell’intensità. Un giocatore di 32 anni, che ieri si è dovuto sdoppiare, giocare per due giocatori diversi, e a forza di scatti ricucire l’inferiorità di corpi in campo. Un giocatore che a venti minuti dalla fine ha dovuto abbassare i calzettoni e pregare per il flusso sanguigno alle gambe. Sono stati questi momenti, e queste prestazioni, a colmare la distanza tecnica e fisica che c'era tra Roma e Milan, e che era diventata ancora più grande quando i giallorossi sono rimasti con l'uomo in meno.
Quando hanno chiesto a Daniele De Rossi di menzionare una grande prestazione individuale, pure in una serata di gloria collettiva, non ha potuto fare a meno di citare Stephan El Shaarawy. «Quello che ha fatto stasera è incredibile, in fase difensiva, ha difeso, ha preso palle di testa, è ripartito. Davvero bello da vedere e da rendere orgoglioso qualsiasi allenatore». All’inizio era stato meno concreto, aveva usato categorie intangibili: «Quando era ragazzino non era questo giocatore. Era più talento e meno giocatore, meno uomo». Abbiamo capito cosa intendesse: alle altre vite di Stephan El Shaarawy, che a 32 anni ha attraversato tutte le fasi di ascesa e declino di un giovane talento, per poi arrivare a questo stadio di superamento di ogni ambizione. Una specie di Nirvana di sofferenza e trascendenza. El Shaarawy sembra aver capito qualcosa di profondo: la felicità non esiste, la gloria è effimera, bisogna rinunciare al proprio ego. Esiste solo il sollievo dopo uno scatto, l’abbraccio di un compagno per ringraziarti, la disciplina tattica una lettura alla volta. Sciogliere la propria individualità nell’organismo della squadra, e sentirsi finalmente protetti, risolti.
A 16 anni Stephan El Shaarawy ha esordito in Serie A. Si vociferava fosse il più grande talento italiano dai tempi di Cassano. È uno dei dieci più giovani esordienti della storia del campionato italiano.
A 18 anni va in prestito al Padova dal Milan, ed è la cosa più vicina a uno sbarco alieno in Serie B. Esordisce in Coppa Italia contro il Ravenna e gli danno una maglia col suo nome scritto male. Lui si limita a dribblare tutti gli esseri umani che si frappongono tra lui e la porta. Al centro d’allenamento del Padova già si formano gruppetti d’appassionati, i giornalisti dicono «È già "tutti pazzi per El Shaarawy"», lui dice che pensa solo a far bene, già impaurito dalle possibili conseguenze del suo talento. «È tanto che a Padova non si vedeva un giocatore con questa velocità», gli dicono ancora. Vincenzo Italiano lo definisce «Smaliziato ma senza “puzzetta sotto al naso”».
Quell’anno segna 9 gol in 30 partite. Alcuni da molto lontano, altri saltando tutti, altri ancora con uno stile tecnico tutto suo. Contro il Novara tira al volo dopo una lieve sforbiciata sul posto, per darsi spinta. Diventerà uno dei suoi tiri. Vince il premio come miglior giocatore di B.
A 19 anni torna al Milan e gioca una stagione lontana dai riflettori. Però ha già la maglia numero 92, quando esulta fa un saltello e agita il pugno in aria. Segna il suo primo gol in A con un tiro lento e preciso sul secondo palo dopo un assist di Cassano.
A 20 El Shaarawy è al massimo del suo splendore. Il look gallinaceo tirato a lucido. Ha uno stile di gioco tecnico ma aggressivo, futuristico. Se Cassano era ancora un talento di strada, scaltro e sensuale, El Shaarawy ha qualcosa di freddo nel suo stile. La meccanicità violenta con cui sfreccia a sinistra e converge verso il centro: la testa alta, l’andatura un po’ sbilenca, il campo risucchiato in una vertigine verticale. È asciutto, pragmatico, ma ha anche qualcosa di strano, nella varietà di modi con cui calcia la palla, o cambia passo. Quel tiro a giro sul secondo palo, che è il marchio dei giocatori dolci e tecnici, lo esegue con frustate improvvise che hanno qualcosa d’artificiale. Nel girone d’andata della stagione 2012/13 segna 14 gol in 16 partite. Sembra il nostro Cristiano Ronaldo: l’attaccante che farà entrare il calcio italiano nel futuro.
Nel girone di ritorno qualcosa si rompe, come se il suo talento avveniristico avesse come destino quello di bruciare, folgorante, in quei pochi mesi. Come se quello stile di gioco tendesse troppo in là i limiti delle possibilità umane, e per il suo corpo fosse insostenibile. Al Padova è dovuto restare fermo due mesi per una tendinopatia al ginocchio sinistro: quello su cui caricava il peso per sfrecciare da sinistra a destra.
A 21 anni la sua importanza nel Milan è oscurata da Balotelli. Lui è spesso infortunato, ha problemi fisici misteriosi, e si moltiplicano le leggende metropolitane. Si dice che il Milan Lab - quella fucina dell’orrore - lo abbia ingrossato troppo muscolarmente, e allora il suo corpo avrebbe iniziato a cedere. Un’operazione al piede dopo una diagnosi sbagliata. Gioca pochissimo. Circola la voce che abbia problemi con l’alcol, o che tiri la cocaina. Si dice che si sia lasciato con la sua fidanzata storica per mettersi con una poco di buono, con una dei quartieri, con una che l’ha incastrato in brutti giri. Si dice lo abbiano visto al Casinò tutto sballato, o in giro per San Siro con gli occhi viola. Lo hanno visto alle feste in Sardegna con Vieri, a Forte dei Marmi con Inzaghi. Impelagato in una vita proto-trap, o da tardo impero Mediaset. Si dice che sia un bravo ragazzo, ma troppo fragile; un grande talento, ma non pensa al calcio. Uno con la testa a posto, ma che dovrebbe cambiare amici.
Voci assurde su cui magari ha pesato anche il fatto che El Sha è un ragazzo di seconda generazione, figlio di una famiglia egiziana. Voci che cercano di coprire con una fantasia cinica quel vuoto che si è spalancato e su cui nessuno sembra darci pace, tra il primo El Shaarawy e quello che verrà dopo.
A 23 anni El Shaarawy nuovo grande talento del calcio italiano non esiste più. Quel gioco futuristico è un fuoco spento che manda cattivo odore. Non si capisce cosa manchi, a El Shaarawy. Sembra aver smarrito qualche decimo di velocità, un lampo impercettibile andato perduto per sempre. Il suo gioco è già ridotto a una stanca forma di manierismo. Continua ad accentrarsi per andare al tiro, ma sempre più raramente. È più lento, più prevedibile. È la replica di un sé stesso del passato che non esiste più e che continua ad agitarsi sulla fascia sinistra come un fantasma. Viene mandato in esilio a Montecarlo, come un ricco pensionato inglese. La cresta sembra quella di un punk logoro e kitsch, che non si è ancora arreso al passare del tempo. Un personaggio sorrentiniano, incastrato in un tempo non suo, che dimostra più dell’età che ha. Sembra uno che sta per essere invitato in qualche salotto televisivo della domenica pomeriggio per raccontare la propria storia di dolore e resilienza. Un paio di lacrime versate.
A 24 anni Walter Sabatini, in un mercato di gennaio come sempre ispirato, lo riporta in Italia e lo veste con la maglia della Roma. Spalletti gli restituisce una nuova vita, un nuovo senso tattico. In una squadra dal talento oltraggioso parte da sinistra ed entra in area, ma stavolta senza il pallone. È diventato un attaccante ombra, un segugio della profondità. Un samurai dei tagli in area di rigore. Inizia la sua trasformazione in un giocatore essenziale, di servizio, che accetta di giocare per gli altri. Segna 8 gol in pochi mesi.
A 25 anni El Shaarawy ha trovato una nuova stabilità. È ancora percepito, in una certa misura, come un irrealizzato. Quello che è diventato non coincide con quello che prometteva di essere. Non ha mai trasformato il calcio italiano, non ha mai, da solo, trascinato fuori il Milan dalla sua Banter Era. Non si è arreso, però, a diventare un cliché del talento sprecato. Ha sempre l’aria da coatto fuori tempo massimo, da personaggio de I soliti Idioti, l’intellettuale con la Gazza. Non è la stella della squadra, ma è un giocatore d’alto livello, utile in una formazione che gioca la Champions League.
A 26 anni El Shaarawy segna una doppietta al Chelsea in Champions League. Segna dopo pochi secondi, e lo definirà uno dei due o tre gol più belli della sua carriera. La palla gli arriva dopo una sponda involontaria di Dzeko, e lui la calcia con quel senso sbieco per il tiro che ha sin da ragazzo: la prende di collo pieno, ma frustandolo come per un tiro d’esterno. La prende di controbalzo, un tiro difficile, da grande talento.
Poco dopo fa un gol forse persino più difficile, e di certo meno nelle sue corde, sfiorando appena una palla buttata un po’ a caso verso l’area di rigore, prolungandolo sul palo lontano. È la partita che mette in discesa un girone di Champions difficile, e che apre la cavalcata europea della Roma che si spingerà fino alla devastante rimonta col Barcellona e alla semifinale persa col Liverpool.
A 27 anni El Shaarawy viene da 11 gol in Serie A, ha ricominciato a bazzicare la Nazionale, sembra nel mezzo del suo processo di ricostruzione. Decide di andare in Cina. Gli offrono un contratto da 16 milioni di euro l’anno e lui accetta perché forse sente di aver dato tutto. Con quello che ha vissuto, sui 27 anni ne pesano dieci in più.
Dopo diciotto mesi, però, non si sente arrivato. Rinuncia ai soldi e torna alla Roma, lì dove è sempre stato felice. Da quando era partito si diceva potesse tornare, e alla fine ci è voluto un anno e mezzo. Trova una squadra tecnicamente impoverita e senza punti di riferimento. Lui non è più una stella, non è più quel tipo di giocatore che trascina le proprie squadre con strappi, sgasate e gol da highlights. Si mette a disposizione per quello che è diventato ora, una sorta di gregario di lusso, che pian piano finisce per assorbire l’identità di una squadra diventata nel frattempo gregaria. La Roma di José Mourinho, che si esalta nel dolore, che alimenta la gloria con la sofferenza. Questa cifra emotiva ha finito per plasmare El Shaarawy, che ha iniziato a respirare sempre più all’unisono con la tifoseria giallorossa, ad assumere su sé stesso lo spirito eroico con cui la squadre affronta le notti europee. I tifosi cominciano ad affezionarsi a lui e a vederlo come uno di famiglia. Si è preso il loro cuore senza grandi gesti, ma con la costanza e l’esserci sempre, come uno di famiglia, appunto.
A fine ottobre Fabrizio Corona fa il suo nome in quel momento di psicosi sulle scommesse. Lui si dichiara estraneo. In quei giorni la Roma gioca contro il Monza e a lui arriva una palla in area, al novantesimo, sullo zero. El Shaarawy stoppa, fa gol, e per prima cosa corre verso la Curva Sud. Al fischio finale piange e dichiara: «È stato un pianto liberatorio, uno sfogo per questa settimana che è stata pesante. In quella corsa c’era tutto. La voglia di fare bene e aiutare la squadra. C’era la rabbia di aver sentito voci non vere. C’era tutta quell’emozione e quella voglia che mi ha accompagnato in tutte le squadre. Sono sempre stato un professionista e non ho mai pensato di mancare di rispetto al mio lavoro e allo sport che amo».
Alcuni mesi dopo, contro il Milan, la squadra con cui avrebbe dovuto consacrarsi, El Shaarawy gioca due partite manifesto della sua nuova identità. All’andata De Rossi gli ha chiesto di giocare sulla fascia destra, fuori dalla sua zona di comfort. E glielo ha chiesto per sfruttare le sue qualità difensive, non offensive. Anni fa forse nemmeno avrebbe accettato. «Dal suo linguaggio del corpo ho capito che avrebbe fatto una grande partita», ha detto poi De Rossi. Quella dell’allenatore è stata una grande intuizione tattica, ma che parte dalla disponibilità e dalla completezza tecnica e fisica di El Shaarawy. Dalla disciplina tattica con cui ha chiuso Theo, rincorso Leao, raddoppiato e chiuso gli spazi; dalla tecnica con cui è poi ripartito, dai suoi tempi di inserimento, dalla rapidità sui primi passi.
Ieri gli era stato assegnato lo stesso lavoro di fatica, ma dopo mezz’ora la Roma è rimasta in inferiorità numerica per l’espulsione di Celik proprio sul suo lato. È in quel momento che El Shaarawy è dovuto diventare due giocatori. Nell’ultimo quarto d’ora ha giocato da terzino, per permettere all’allenatore di risparmiare uno slot da usare solo alla fine del primo tempo. Nel secondo tempo è entrato Llorente e allora lui nominalmente avrebbe dovuto giocare da esterno di un centrocampo a quattro. La realtà è che il Milan aveva inserito talmente tanti giocatori offensivi che Llorente veniva spesso trascinato in area, e allora lui si ritrovava, di nuovo, terzino.
In questa partita di dedizione cieca ai limiti del religioso, ha continuato a mettere qualità, associandosi in modo spesso delizioso con Paredes e Pellegrini, gli altri due giocatori tecnici rimasti in campo. Lo ha fatto con tocchi e movimenti inconsueti per lui, col corpo orientato dal verso opposto, e con una qualità che forse si fa fatica a riconoscergli. Da quando non ha mantenuto più le sue promesse, tornando a questa specie di dorata normalità, El Shaarawy ha subito anche una certa sottovalutazione - specie in un Paese che non abbonda certo di qualità negli esterni offensivi. «Ho fatto quello che Daniele mi ha chiesto, con abnegazione, sacrificio e qualità», ha detto ieri dopo la partita El Sha, soldato d’élite.
Oggi El Shaarawy gioca con una strana aria da reduce. La cresta un po’ più bassa, le sopracciglia a gabbiano un tantino meno definite. L’aria un po’ imbolsita, ma l’atteggiamento sempre calmo. Dicono giri per Trigoria chiamando tutti “Zio”, ultimo residuo di un giovanilismo fuori tempo massimo. Gioca a biliardo, a snooker, pare sia un fenomeno a ping pong. Ama Roma e la Roma.
Alla fine il suo talento ha trovato un suo compimento passando per una strada che non pensavamo potesse essere sua: non con la tecnica e la creatività, ma con la generosità e l’abnegazione. Non splendendo al centro del palcoscenico, ma rimanendo in disparte. Non con le cose grandi ma con quelle piccole, con i dettagli di cui riempie le partite e che sembrano sempre contenere qualcosa in più. L’idea di un giocatore che gioca per qualcosa e per qualcuno, con un messaggio in ogni sua giocata, una dedica in ogni sua corsa. Bandiera e ormai icona di una squadra di “figli di Roma, capitani e bandiere”, lui che viene da Savona. El Shaarawy non si è arreso al proprio declino, e vi si è opposto con la forza del lavoro quotidiano e di una normalità che non può essere banale, e che è anzi piena di significato e bellezza.
Non c’è forse un grande insegnamento in tutta questa storia?