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La stagione dell'amore
26 mag 2022
La Conference League è il primo trofeo della Roma dopo 14 anni.
(articolo)
20 min
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Per la finale di Conference League la Roma ha riempito due stadi: quello di Tirana e l’Olimpico. I tifosi si sono seduti uno accanto all’altro a guardare un prato vuoto, gli occhi sui maxischermi, assecondando il semplice desiderio di stare insieme, di sedersi uno vicino all’altro. Prima della partita va in scena il solito musical scenografico: gli inni d’amore, le sciarpe spiegate, gli occhi già lucidi. Le parole più emotive di “Roma, Roma, Roma” gridate a squarciagola per sputare il magone. La regia televisiva si deve sdoppiare su due inquadrature diverse per provare a racchiudere la folla di tifosi nei due stadi, senza comunque riuscire a restituirla tutta.

Per tutto l’anno è stato soprattutto questo: la quantità di gente, la massa di corpi che si addensa nei bar, nelle piazze dei quartieri, sugli spalti soprattutto, riempiendo gli stadi fino al colmo della loro capienza. L’importanza della partita è indifferente. Contro l’Inter e contro la Salernitana, contro il Bodo/Glimt e contro il Leicester, in casa e in trasferta, le persone si sono sciolte in un enorme abbraccio intorno alla Roma. Lo Stadio Olimpico trasformato in uno di quei dipinti post-impressionisti che si sforzano di restituire il fracasso della guerra: la flotta di bandiere, la fanteria di sciarpe fluttuanti, i fumogeni che spargono nubi giallorosse, le coreografie che precipitano sulle gradinate colme di lupe, soldati delle legioni romane, scritte in latino. Uno stadio di un’epoca diversa da quella contemporanea, di un’epoca in cui non esisteva distacco o disillusione, e il tifo per la propria squadra di calcio diventava spesso l’unico orizzonte di felicità possibile. Accettato come una benedizione, un rifugio di amore e consolazione. Le gradinate sempre traboccanti, colme ben oltre la capienza massima, le persone accese da un tifo al limite tra felicità e disperazione.

In un vecchio documentario sui CUCS (Commando Ultrà Curva Sud) un ragazzo seduto sui gradini dello stadio Flaminio parla sconsolato della sua vita da derelitto - il padre morto mentre era ragazzino, le frequentazioni di strada, una società maligna da cui si sente emarginato. «Ci stanno anche le cose belle, ma so’ pochissime», «Che cosa si salva?» gli chiede il giornalista, lui con lo sguardo basso, mentre si tormenta le labbra, dice «Lo stadio». «Chiudi gli occhi, e ti immagini lo stadio come piacerebbe a te, che tipo di immagine ti appare?» «che facciamo tifo, che tutta la curva canta per sostene' la Roma. Bandiere, fumoni. Questo non lo dico perché chiudo gli occhi, ma perché è sempre stato il sogno mio».

Nel 2022 i tifosi della Roma sembrano tornati a quell’età dell’innocenza, stretti attorno alla loro squadra con un’intimità antica, presi da una febbre amorosa accesa il 4 maggio del 2021, quando la società ha annunciato Josè Mourinho come nuovo allenatore. Un Mourinho dal volto imbolsito e dalla retorica logora, reduce da due esoneri, appartenente a un’epoca calcistica trascorsa. Presentato sulla terrazza Caffarelli, con ampia vista sull’orizzonte di marmo e cupole di Roma. Scenario nostalgico e decadente, di una città che prova disperatamente a raccontarsi ancora grande attraverso il proprio passato. Lo stesso Mourinho si aggrappa a quello quando deve provare a spiegare l’inspiegabile, e cioè il motivo per cui è lì: «Perché come diceva Marco Aurelio “Nulla viene dal nulla e nulla ritorna nel nulla”». La mossa dei Friedkin è a metà tra la trovata di marketing e l’incantesimo. Eppure funziona. I tifosi della Roma, disillusi e cinici come solo i romani sanno essere, stavolta ci credono. Mourinho in passato era stato uno dei loro rivali più aspri, ma in lui vedono una dichiarazione d’ambizione, una figura all’altezza dei propri sogni. La tifoseria della Roma è in perenne conflitto tra una retorica vittimista e consolatoria (quella del “mai na gioia” o delle manie di persecuzione arbitrale) e una desiderosa di riscatto e trofei. Imprigionata nell’idea della sconfitta romantica, ma che sogna il giorno in cui la Roma tornerà grande (“perché sei nata grande e grande hai da restà” canta Venditti).

Mourinho, da grande prestigiatore, ha tenuto insieme queste due anime. Si è lagnato degli arbitri con grande ostinazione, ma al contempo ha permesso ai suoi tifosi di sognare, e di sentirsi parte di qualcosa di più grande del solito. La scelta di portarlo alla Roma è stata la prima mossa significativa della famiglia Friedkin. Arrivati a Roma nell’agosto nel 2020, hanno trovato un rapporto tra tifosi e società ai minimi storici, e si sono mossi con grande furbizia comunicativa per risanarlo. Una furbizia che non è mai appartenuta alla vecchia gestione. Per prima cosa si sono stabiliti a Roma, imponendo la loro presenza muta quasi in ogni partita casalinga, e in molte fuori da casa, muovendosi sempre attraverso aerei privati pilotati da loro stessi. Hanno dato un'idea di interventismo e concretezza silenziosa. Hanno gradualmente reintrodotto il vecchio stemma nell’immaginario visivo della Roma, accontentando la frangia più rumorosa del tifo. Ci sono stati altri gesti, meno simbolici e più concreti. Hanno adottato politiche di prezzi semi-popolari sui biglietti e concesso diversi vantaggi agli abbonati; hanno direttamente regalato il biglietto agli abbonati per la finale di Tirana e assicurato il posto a chi, il 21 ottobre del 2021, ha percorso più di tremila chilometri per vedere la Roma prendere 6 gol sopra al circolo polare artico, là dove forse tutto è partito.

La sconfitta contro il Bodo/Glimt è stata l’umiliazione più surreale, nella pur corposa storia di disfatte europee della Roma. Quella più crudele e inspiegabile. Poteva essere la tomba della stagione della squadra, il classico momento - puntuale ogni anno - in cui l’ambiente attraversa la disillusione nel modo più traumatico. I tifosi invece non perdono la speranza e quella sconfitta diventa una prova d’amore superata, la dimostrazione che nessuno potrà mettere in discussione Mourinho, che non c’è niente che possa rompere l’incantesimo e quel patto stretto mesi prima. Tifosi, giocatori, allenatore e società respirano all’unisono come non era mai successo nella storia recente della Roma. I Friedkin e Mourinho sono riusciti nell’impresa impossibile di unire una tifoseria storicamente balcanizzata in mille fazioni e interessi particolari.

Il 14 aprile la Roma affronta di nuovo il Bodo/Glimt. All’andata ha perso 1-2 in trasferta, ma con un finale mourinhesco: una rissa tra il collaboratore dei portieri Nuno Santos e l’allenatore norvegese Kjetil Knutsen. Ai microfoni il capitano Lorenzo Pellegrini mette la partita di ritorno in una cornice di odio storico e vendetta, definendo l’atteggiamento del Bodo offensivo per la città di Roma: «Soprattutto è un grande insulto alla Roma e ai romani, quindi credo che giovedì prossimo giocheremo una partita che ci può far andare in semifinale, e penso che non la giocheremo in undici ma veramente in tanti». Dal nulla, contro una simpatica e trascurabile squadra del circolo polare artico, la Roma di Mourinho riesce a creare una rivalità epica. Una coppa inesistente fino a un anno prima viene ricoperta di sogni di gloria e significati storici.

La mattina della partita di ritorno Mourinho passeggia a Villa Borghese e viene fermato da una tifosa che lo incoraggia. Andando verso lo stadio il pullman della squadra si ferma a Viale Angelico per caricarsi insieme a un gruppo di tifosi. Piazza Mancini è colma di romanisti irrequieti già dal primo pomeriggio. Lo stadio è da brividi, la Roma gioca in modo determinato e aggressivo, vince 4-0, va in semifinale, cancella i propri traumi e forse intravede davvero la possibilità di vincere qualcosa. Comincia a diffondersi una strana energia intorno alla squadra, un entusiasmo che a tratti confina con la festa perpetua. Quando la Roma elimina il Leicester in semifinale, dentro un Olimpico impazzito, i giocatori sembrano davvero giocare fianco a fianco dei tifosi. L’ostinazione con cui difendono il precoce vantaggio di Tammy Abraham pare animata da un’energia e da una concentrazione supplementari. La Roma gioca la partita a ridosso della propria area, ma Rui Patricio deve fare giusto un paio di parate. Non una Roma spettacolare, ma una Roma “testaccina”, si direbbe, con la definizione con cui agli albori si descriveva la squadra poco talentuosa ma arcigna che giocava a Campo Testaccio. Dopo la partita Mourinho, in lacrime, parla di “vittoria di famiglia”: «Non solo della famiglia che era in campo e in panchina, ma anche di quella allo Stadio. Questo è il nostro merito più grande. Questa empatia, questo senso di famiglia…».

Nell’ultima gara casalinga di campionato la Roma pareggia contro il Venezia una partita maledetta. Chiude un campionato mediocre, con la quasi certezza di finire dietro la Lazio. Per tutto l’anno la Roma ha proposto un calcio modesto, ha continuato a soffrire le partite contro squadre di alta classifica e non ha mostrato significativi miglioramenti rispetto alla stagione scorsa. Chiuderà il campionato con appena un punto in più della seconda stagione di Fonseca e con sette in meno rispetto alla prima, pur con una rosa indubbiamente più attrezzata. Eppure Mourinho a fine partita si concede un giro di campo insieme alla squadra in uno stadio ovviamente pieno. I tifosi sventolano le bandiere, applaudono soddisfatti, srotolano lo striscione: «Coronate i nostri sogni di gloria. Forza ragazzi scrivete la storia!», cantano: «Se i tuoi colori sventolo / I brividi mi vengono / Non mi stanco mai di te / Forza grande Roma alè». Lo cantano come un mantra inesauribile, un incantesimo d’amore. Angelo Carotenuto su Repubblica non si spiega quello che sta succedendo, scrive di un Mourinho illusionista, di un giro di campo fuori dalla logica: «Questo è il posto che nella disfatta dolorosa canta. Con José Mourinho il tifo di Roma ne ha costruito uno del genere. Un rapporto trascendente, oltre la realtà, indiscutibile, più simile alla devozione che all’amore. Non sarà una finale di Conference League a spiegare cosa tiene in piedi questo incantesimo, nonostante un campionato fuori dalle prime cinque, con 10 punti in meno rispetto al primo anno del crocefisso Fonseca».

Foto di Silvia Lore/Getty Images.

Fuori dalla bolla emotiva dei tifosi della Roma, non è una stagione semplice da decifrare. La classica ambiguità tra ragione e sentimento: bisogna guardare all’affidabile cartina di tornasole del campionato, al gioco della squadra, oppure alla gloria di un trofeo vinto, anche non così grande? Per anni la vecchia società ha puntato a una crescita sostenibile e alla gradualità con cui si sarebbe arrivati al successo, enfatizzando l’importanza dei piazzamenti. I tifosi erano esasperati da quell’apparente disinteresse verso i titoli. L’ultimo trofeo vinto dalla Roma è una Coppa Italia del 2008, l’ultimo scudetto risale al 2001, l’ultima coppa europea al 1961. Con spietato senso dell’ironia, l’unico trofeo della gestione Pallotta era stato un bonsai vinto in un torneo amichevole estivo, alzato dal capitano Florenzi mentre quasi gli veniva da ridere. Un trofeo poi distrutto dal padre di Scamacca nel suo raid a Trigoria di circa un anno fa. Nella Conference League l’ambiente ha visto un’occasione irripetibile di vincere finalmente qualcosa. Fuori dalla Roma qualcuno ha provato a sminuire l’importanza del trofeo, misurando col bilancino il livello competitivo della competizione. I romanisti hanno mostrato la stupidità di quei discorsi attraverso l’entusiasmo con cui hanno vissuto ogni partita, ripetendo una verità semplice: un trofeo europeo è un trofeo europeo. Nelle semifinali quattro squadre iconiche - Feyenoord, Roma, Olympique Marsiglia, Leicester - hanno dato vita a stadi incandescenti, con atmosfere che hanno superato per estetica quelle della Champions League. Come sempre sono stati i tifosi, il patrimonio storico dei club, a nobilitare e a dare senso a una competizione nata negli uffici svizzeri della UEFA poco più di un anno fa.

I biglietti per Tirana spariscono in pochi minuti. L’Arena Kombetare è troppo piccola per contenere i tifosi della Roma e del Feyenoord. Si dice che la UEFA sia sorpresa dal successo della competizione, che non si aspettava che in finale sarebbero arrivate due squadre così grandi. Si comincia a parlare di numeri leggendari: 60mila tifosi della Roma pronti a partire per l’Albania, quasi tutti senza biglietto. Riempiono i traghetti o gli aerei, raggiungono i porti con le macchine o con i treni, continuano a cantare come una preghiera: «Se i tuoi colori sventolo / I brividi mi vengono / Non mi stanco mai di te / Forza grande Roma alè». Il romanismo è contagioso. Il primo ministro albanese Edi Rama definisce Tirana “Una piccola Roma” e si dice romanista. Sulla facciata dell’università di Tirana compare un enorme striscione col disegno di Mourinho in vespa e la scritta “Benvenuti nella piccola Roma”. I bar trasmettono le canzoni di Venditti a tutto volume, addobbati tutti di giallorosso. Un barista dichiara a Repubblica: «Dico solo una cosa: Roma capoccia». Durante la notte ci sono scontri e arresti, ovviamente. Quando si arriva a pochi minuti dalle 21 pare quasi assurdo che ci sia pure una partita di calcio da giocare.

È la prima finale europea della storia della Roma fuori dall’Olimpico, ma il clima di festa incondizionata sembra per certi versi evocare le tinte sinistre di Roma-Liverpool del 1984, quando i tifosi riempirono uno stadio già in festa, sventolando bandiere giallorosse con sopra disegnata la Coppa dei Campioni. Officianti inconsapevoli di un funerale laico. La Roma a Tirana cammina su una lastra sottile in cui la vittoria è un obbligo e la sconfitta una tragedia immane, che avrebbe lasciato una città dolorante chissà per quanto tempo ancora. Quasi nessuno dei giocatori presenti in rosa era ancora nato quando la Roma ha giocato la sua ultima finale europea: quasi nessuno ha vinto qualcosa nella sua carriera. Il pensiero rassicurante è che sulla panchina della Roma siede José Mourinho, l’unico allenatore della storia ad aver raggiunto almeno una volta le finali di tutte le competizioni europee per club: escluse quelle della Supercoppa Europea, ha vinto tutte e quattro quelle che ha giocato.

L’ultima finale europea Mourinho l’ha giocata sempre contro una squadra olandese, cinque anni fa. Nella vittoria 2-0 del suo Manchester United aveva trasformato la brillantezza dell’Ajax in fragilità, la loro esuberanza in ingenuità. La squadra di Peter Bosz pressava con coraggio, attaccava in modo diretto e senza compromessi: Mourinho aveva ridotto quel gioco spettacolare a un vezzo infantile. Lo aveva accartocciato come un fazzoletto sporco e buttato al secchio. Aveva vinto 2-0 imponendo un dominio atletico e fisico a tratti disturbante, usando i colpi di testa di Fellaini e gli strappi di Pogba per esporre e mettere in ridicolo tutte le debolezze dell’Ajax. Si era accontentato di un misero 30% di possesso palla, una percentuale che negli anni Mourinho ha trasformato in un manifesto nichilista, perfetto per far impazzire gli allenatori rivali con troppe velleità. Dopo quella partita Bosz aveva criticato i lanci lunghi la strategia remissiva del Manchester United, la sua carriera attraverserà un paio di fallimenti e ancora pochi giorni fa ha parlato di Mourinho col risentimento che si riserva a chi ha provato a rovinarti la vita: «È un narcisista, sempre impegnato a fare del teatro». Anni dopo, parlando di quella finale di Europa League, Mourinho è tornato sulla sua strategia: «Se giochi contro squadre come l’Ajax e provi a giocare col loro stesso stile ti metti nei guai, perché è proprio ciò che vogliono. Invece tu devi dargli quello che non vogliono».

Il Feyenoord di Arne Slot non è quell’Ajax, e questa Roma non è quel Manchester United, ma il conflitto è simile. Una squadra con un gioco ambizioso e contemporaneo, tipico della scuola olandese, e un’altra che si concentra soprattutto sul lato distruttivo del calcio. Una squadra che ha bisogno del pallone e l’altra che sta bene senza; una che ama difendere in alto, e un’altra che non disdegna di stringersi al suo portiere. Anche stavolta, Mourinho ha tutta l’intenzione di dare agli avversari esattamente quello che non vogliono.

Per i primi dieci minuti la Roma sembra una squadra inadeguata a fronteggiare il calcio evoluto del Feyenoord. La sua riaggressione in alto, l’intensità e l’organizzazione con cui porta il pressing, o sovraccarica i lati. Il Feyenoord pare la squadra più capace di trasformare la tensione della finale in energia agonistica. Almeno in Europa, però, la Roma ha imparato a soffrire, a subire il gioco avversario senza finire davvero sott’acqua. Offre un controllo che a volte è solo illusorio agli avversari, consapevole che gli può bastare una sola transizione fatta bene, una palla recuperata in alto, per girare tutto dalla propria parte. Quel momento arriva intorno alla mezz’ora, alla coda di una fase di partita in cui la Roma ha guadagnato ritmo e territorio. Da sinistra con Zalewski la palla torna indietro, passa dai piedi di Pellegrini e quelli di Cristante, per finire su quelli di Gianluca Mancini, non certo i più dolci fra quelli in campo. Fino a quel momento aveva giocato una partita di sofferenza difensiva su Sinisterra, sbagliando più o meno tutti i palloni che aveva toccato. Aveva già provato quattro o cinque lanci lunghi, quasi tutti fuori misura. Al 25’ però aveva lanciato in area sulla testa di Abraham, che si era mosso dietro al difensore e aveva provato una sponda per Pellegrini. Era stata la prima reale occasione per la Roma. È tipico di Mancini, alternare errori grossolani a intuizioni geniali. Quando al 32’ Cristante gli scarica la palla, alza la testa e prova lo stesso lancio. Stavolta è Zaniolo a essere sfilato a lato di Trauner in area di rigore. Per stoppare la palla di petto deve fare qualche passo indietro, perde per un attimo l’equilibrio, ma ha gambe diverse dagli altri esseri umani, riesce a spingere e ad anticipare il portiere in uscita con un tocco morbido d’esterno sinistro per niente banale.

Zaniolo che si è rotto due volte il legamento crociato del ginocchio, fermo per un anno e mezzo salvo un breve intervallo di partite. Eppure, senza pazienza o semplice pietà, uno dei giocatori più criticati dai media (non certo dai tifosi): troppo arrogante, troppo inconsistente, troppo individualista. Senza la testa per fare il calciatore, e forse senza nemmeno più il talento. Zaniolo che segna però nella finale di una coppa europea - primo italiano da Filippo Inzaghi nel 2007 ad Atene - realizzando in qualche modo la profezia che lo accompagna da quando i tifosi della Roma si sono innamorati di lui, quella di ragazzo del destino, di tesoro della città. Gli infortuni al ginocchio come dolori necessari per quella profezia: nessun eroe diventa tale senza toccare prima il fondo.

Dopo il gol la Roma si rifugia nelle proprie certezze difensive, ma scavalca il sottile confine tra difesa bassa e semplice passività. Forse sottovaluta anche le armi del Feyenoord, che pur senza grande talento ruota bene i giocatori e attacca volitivo. Gli ultimi cinque minuti del primo tempo annunciano che se la Roma vuole vincere dovrà per forza attraversare fasi di sofferenza. Puntualmente arrivano all’inizio del secondo tempo. Nel momento di massima pressione Mancini, scomposto, devia verso la propria porta un cross teso. La palla colpisce il palo, sfiorando il secondo gol autogol del difensore tra semifinali e finale. Poi diventa anche la serata di Rui Patricio. La palla ritorna in area, tocca la mano di Cristante, arriva sul piede di Til, che tira schiacciando tra mille gambe, il portiere della Roma per qualche ragione riesce a vederla e a respingerla. Esulta in modo scomposto, abbracciato da Tammy Abraham. Tre minuti dopo c’è un lancio lungo su un taglio di Sinisterra; quello si libera bene di Mancini e scarica sulla corsa centrale di Aursnes. È una bella azione, coronata da un tiro violentissimo di Malacia. Il classico tiro fortunato del terzino, con la palla colpita così bene che sembra di sentire il suo schiocco. La traiettoria non è così angolata, ma il portiere fa soprattutto un miracolo a deviarla sull’incrocio dei pali e a non mandarsela in porta. Rui Patricio che era stato il primo acquisto della Roma, che era alla sua prima finale europea con un club, nonostante il titolo di campione d’Europa con il Portogallo. Di lui Mourinho a inizio anno ha detto, semplicemente: «Rui è Rui».

Quelle due enormi occasioni potevano essere il preludio al gol del Feyenoord, ma restano gli unici due momenti in cui la Roma ha davvero rischiato qualcosa. Nel momento in cui Mourinho toglie Zaniolo per inserire Veretout la Roma guadagna un uomo a centrocampo e spegne le proprie sofferenze. Negli ultimi quaranta minuti la squadra esercita la strategia che anche contro il Leicester aveva elevato ad arte: quella di incenerire gli eventi di una partita. Ridurla, effettivamente, al contorno di quello che succede sugli spalti, dove i tifosi cantano inesauribili «Se i tuoi colori sventolo / I brividi mi vengono / Non mi stanco mai di te / Forza grande Roma alè». Magari è davvero un incantesimo di protezione per la squadra, perché in campo non succede quasi più niente, va solo in scena la frustrazione dei giocatori del Feyenoord che cercano in tutti i modi dello spazio fisico tra la palla e la porta della Roma, senza trovarlo. Fra tutte le grandi prestazioni difensive della Roma spicca, maestosa, quella di Chris Smalling, a tutti gli effetti uno dei migliori difensori di questa stagione di calcio europeo.

Vincerà il premio di migliore in campo, dal video si intuisce facilmente il perché.

Contro il Leicester la Roma aveva vinto con 4 tiri, in finale gliene bastano 3. Nella semifinale di ritorno aveva avuto il 36% di possesso palla, in finale gli basta il 33%. Di nuovo un tecnico olandese, Slot dopo Bosz, è uscito sconfitto e confuso, e ha ciancicato qualche spiegazione sul fatto che gli avversari, in fondo, non hanno fatto niente (a parte vincere). Al fischio finale i corpi ammassati sugli spalti dell’Olimpico si riversano sul prato, mettendo in atto una specie di invasione a distanza. A Tirana il capitano Pellegrini porta il trofeo accanto alla squadra, ed è una sensazione strana, anche solo a livello visivo, una coppa in mezzo alle maglie della Roma. Eppure non è una coppa nata dal nulla, e nemmeno soltanto dalla mistica di Mourinho: nelle ultime cinque stagioni nessuna squadra italiana ha avuto la continuità europea della Roma, con due semifinali centrate, una di Champions e una di Europa League. Forse davvero tutto è partito da quella notte contro il Barcellona, in cui la Roma è riuscita a invertire nel modo più magico possibile una narrazione europea fatta soprattutto di delusioni e figuracce.

Durante la premiazione Mourinho bacia la Conference con tenerezza e piange, piange quasi tutto il tempo, bacia i giocatori e li ringrazia, dandoci un assaggio forse del rapporto speciale che è riuscito a creare con loro. Mourinho poi intervistato da una telecamera così ravvicinata che pare volerlo divorare, che ha ancora la creatività per inventare il claim della partita - «Oggi è la storia: o scrivi o non scrivi, e noi abbiamo scritto» - ma che soprattutto con la voce che trema dice di sentirsi romanista. Com’è cambiato da cinque anni prima, quando dopo la vittoria col Manchester United aveva messo su il ghigno del cattivo e aveva sentenziato: «Ci sono molti poeti nel calcio, ma i poeti non vincono i trofei». Era nella sua fase più cupa e distruttiva. Oggi ha smesso i panni del villain, del supercattivo contro i puristi del calcio. Al fischio finale il suo primo gesto è stato un cinque, a indicare i suoi cinque titoli europei, ma poi quel Mourinho dimostrativo, icona eterna di successo buona per qualsiasi retorica motivazionale, ha lasciato il posto al Mourinho emotivo, lo stesso che durante il suo più lungo periodo di inattività, dopo lo United, era scoppiato in lacrime ai microfoni dicendo quanto gli mancasse il campo: «Adesso che tutto questo si è interrotto non mi diverto più, mi manca davvero il calcio». Mourinho che non allena più per dimostrare di non essere ancora finito, ma per godersi quello che il calcio ha ancora da riservagli.

Ce ne sarà tanto altro, durante la notte e la mattina dopo. Quando il pullman della Roma arriva a Trigoria i tifosi sono lì ad aspettarli, dopo una notte di festeggiamenti. Gli unici a credere fin dall'inizio che questa stagione aveva qualcosa di magico. La città tinta di giallo oro e rosso pompeiano come non succedeva da ventuno anni. Nel cielo ci sono i segni di una prima aurora, mentre Pellegrini e Mourinho mostrano la coppa ai tifosi, in quest’abbraccio che sembra poter non finire mai.

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