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È stata, inevitabilmente, la finale di José Mourinho
01 giu 2023
Una partita lunghissima, ma infine si parla sempre delle sue scelte e della sua figura.
(articolo)
9 min
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IMAGO / PA Images
(copertina) IMAGO / PA Images
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La partita più lunga di sempre (forse) si è conclusa piuttosto bruscamente. Cominciata lo scorso maggio con un scontro tra la testa di Ibanez e quella di Gudelj dopo un minuto di gioco, è finita a giugno dopo che un altro tra quegli stessi giocatori ha spinto il secondo tempo supplementare oltre gli 11 minuti di recupero. Si sono appena toccati e a quel punto della partita sembrava una reciproca, contemporanea perdita di tempo, invece Gudelj è uscito dal campo zoppicando mentre Ibanez, con un labbro aperto da una gomitata presa in precedenza e lo sguardo traumatizzato di chi forse non si aspettava una giornata così pesante a lavoro, ha sbagliato il terzo e ultimo rigore della serie della Roma. È finita in un glitch della Rai: neanche il tempo di capire cosa fosse successo che l’argentino Montiel aveva calciato due volte il suo rigore, segnando la seconda volta e decidendo così, sempre lui, entrato in campo al posto di Jesus Navas in un momento talmente convulso della partita che non se n’era accorto nessuno, un’altra finale a pochi mesi da quella del Mondiale contro la Francia. La Roma ha calciato solo un rigore in più di Montiel e sembrava uno scherzo che a presentarsi sul dischetto fossero stati un centrocampista difensivo e due difensori che non ne avevano mai tirato uno in carriera. Davvero è già finita?

Più di 140 minuti (a quanto pare nel 1946 Stockport County e Doncaster Rovers hanno giocato mezz’ora in più di Siviglia e Roma) e proprio nel momento in cui la partita sembrava potersi trasformare definitivamente in un racconto sudamericano, nella metafora di qualcosa di più grande, diventa un meme, il solito cliché del Siviglia che vince l’Europa League come se fosse sua (7 volte dal 2006, una volta ogni due anni e mezzo: francamente ridicolo) o delle squadre spagnole che hanno vinto tutte le 18 finali giocate contro squadre non spagnole dal 2001 ad oggi. Tutta quella sofferenza, quella fatica, quell’energia negativa riversata in ogni rimessa laterale, in ogni fallo a centrocampo, per una conclusione così banale? Con la valanga bianca dei tifosi del Siviglia che ha coperto i giocatori in festa e Matic che da uomo di mondo consola Dybala dicendogli: “That’s football”?

Magari questa sarebbe stata una fine accettabile, se non ci fosse stato José Mourinho. Con José Mourinho le partite non finiscono mai. Non c’è soluzione di continuità tra una stagione e quella dopo, tra un trofeo e un altro. Il Siviglia aveva praticamente smesso di festeggiare, la stanchezza stava avendo la meglio anche su di loro che i giocatori della Roma erano ancora in campo, in cerchio intorno a Mourinho che parlava, gesticolava, non si dava pace, come se ci fosse stato ancora qualcosa da fare per vincere quella maledetta Europa League. O magari, dato che in effetti che non c’era più niente da fare e Mourinho questo lo sapeva, come se il punto non fosse stato quello. Come se il punto non fosse mai stato solo vincere l’Europa League.

Poi Mourinho è andato avanti, riempiendo di significato ogni gesto possibile, continuando a dividere, a polarizzare persino oltre le intenzioni di un allenatore che sulle divisioni e le polarizzazioni ha costruito la propria intera carriera. Mourinho divide anche quando regala la medaglia a un bambino - a cui, potete starne certi, quel gesto ha cambiato la serata rendendola indimenticabile nonostante la sconfitta - figuriamoci quando insulta l’arbitro nel parcheggio dello stadio. Certo deve essere faticoso essere Mourinho, più di quanto lo sia osservarlo, ma il suo messaggio sta proprio in quella resistenza da guardiano del faro, più forte della solitudine, delle onde e del sale del mare che tutto corrode - tranne Mourinho. Ha senso che finisca così, in un discorso privato tenuto in pubblico, in una finale che di calcistico ha avuto il meno possibile ma che, a volerla raccontare nei dettagli, ci si potrebbe scrivere un poema epico (certo, alla fine vincono gli altri). Chissà cosa avrà detto ai suoi giocatori, cosa gli avrà raccontato: quella di Mourinho è un’idea di calcio per cui il racconto vale almeno quanto il campo, perfetta per una città come Roma la cui auto-narrazione è, per forza di cose, più importante dei suoi successi.

«José Mourinho, forse, è un piacere migliore da ricordare che da vivere», ha scritto lo storico del calcio Jonathan Wilson sul Guardian. La finale è stata straziante, per uno spettatore neutrale è stata il contrario dell’intrattenimento, uno spettacolo beckettiano in cui ventidue vagabondi si sono azzuffati per quasi tre ore litigandosi un torsolo di mela chiedendosi che senso abbia vivere se dio non esiste, eppure Wilson non potrebbe essere più lontano dalla realtà della Roma e di Mourinho quando scrive: «È un nichilista. Niente conta più della vittoria per Mourinho, non il gioco, non il pubblico, nessuna ingenua idea di decenza».

Per carità, è anche giusto farne una questione personale con Mourinho. La sua influenza sulla gara, come su tutto il percorso che ha portato la Roma così lontana, è totalizzante. Alla fine è stata la sua scommessa, quella di far partire titolare Paulo Dybala dopo aver bluffato parlando di “venti o trenta minutini”, neanche minuti veri e propri, che non ha pagato (anche se per poco). La Roma ha trovato l’1-0 e con Dybala fresco aveva gli strumenti per rispondere al Siviglia. Sempre una guerra di trincea è stata, ma con un giocatore in grado di tenere palla, almeno uno, la solita strategia della Roma da spugna che assorbe gli attacchi avversari aveva più senso. Prima del gol c’era stata l’occasione di Spinazzola, scaturita sempre da una grande giocata di Dybala, e prima dell’autogol del pareggio il Siviglia aveva praticamente solo calciato da fuori (il palo di Rakitic).

Quando Dybala ha iniziato a sbiadirsi come le foto dei genitori di Marty McFly in Ritorno al Futuro e al suo posto è entrato Gini Wijnaldum con l’aria di un prigioniero di guerra ai lavori forzati, prigioniero di una guerra interplanetaria che, dopo aver viaggiato anni luce nello spazio, aveva messo piede in quel momento per la prima volta sul pianeta Terra e doveva ancora familiarizzare con cose come la forza di gravità e la sfericità di un pallone da calcio, a quel punto, dicevamo, la Roma è uscita definitivamente dal campo. Magari Mourinho non si aspettava un simile downgrade ma la scelta di giocarsi Dybala all’inizio e non in corsa (come nel quarti di finale di ritorno con il Feyenoord in cui aveva elettrificato la partita entrando dalla panchina) portava con sé implicitamente l’obbligo di maturare il vantaggio e conservarlo.

Anche la scelta di non far calciare nessuno dei primi tre rigori ai giocatori con un minimo di esperienza (Belotti, Wijnaldum), o comunque più tecnici di Mancini e Ibanez (El Shaarawy, Zalewski persino Llorente sulla carta sembra un candidato migliore di loro), includeva la scommessa, persa, che si sarebbe andati oltre i primi tre rigori. E, ancora piùa fondo, che il carattere, il carisma, viene prima della tecnica.

Non c’è azione di Roma-Siviglia in cui non si possa vedere in calce la firma di José Mourinho. La squadra di José Luis Mendilibar ha contribuito a sporcare la partita, a spezzettarla e incattivirla, ma se fosse finita in modo diverso da come è finita (se Taylor o il VAR avessero dato quel rigore sul tocco col braccio di Fernando, se Mancini avesse deviato quella palla fuori, se Belotti avesse colpito meglio con il sinistro la palla morbida che Pellegrini gli aveva messo da punizione, se il colpo di testa di Smalling al 146esimo sulla traversa fosse stato leggermente più teso) il nome dell’autore sulla copertina sarebbe stato solo quello di Mourinho.

Anche così è difficile dire che non sia stata quasi esattamente la partita che voleva lui.

Il vero problema del calcio di José Mourinho non è filosofico, né tanto meno estetico. I tifosi della Roma non sono mai stati così vicini alla squadra, almeno negli ultimi vent’anni, e questo anche quando i risultati sono stati deludenti. Lo sono anche adesso che la Roma ha perso l’unica possibilità che aveva di giocare in Champions League, anche adesso che hanno perso un’altra finale europea ai rigori, trentanove anni (e un giorno) dopo quella di Champions con il Liverpool. Come ha scritto Emanuele Atturo qualche giorno fa: «È però proprio il fatto che questo amore non sia direttamente connesso con i risultati, o almeno lo è solo in parte, che rende interessante la Roma da fuori, perché relativizza i concetti di successo o insuccesso nel calcio. (...) Mentre le migliori squadre al mondo cercano di costruire un gioco offensivo attraente in termini di marketing, Mourinho alla Roma ha dimostrato che si può fare un gioco esaltante per i tifosi anche con uno stile reattivo».

Semmai il problema di questo stile è che volendo ridurre al minimo gli eventi significativi delle partite finisce per aumentare a dismisura il valore dei rari eventi inevitabili. Se fai provare 40 cross alla squadra avversaria, come alla fine è successo ieri, ci sta che uno sbatta su un tuo difensore ed entri in porta. Se porti la palla solo un paio di volte per tempo all’interno dell’area ci sta che il tuo attaccante non la prenda benissimo (anche Abraham, nell’azione in mischia conclusa dal tiraccio di Ibanez, ha avuto l’occasione per cambiare di senso la partita) o che il portiere avversario faccia un mezzo miracolo. Purtroppo la perfezione, anche quando si vuol vivere in difesa, non esiste.

Si poteva fare qualcosa di meglio? José Mourinho ci lascerà sempre con questa domanda e il fatto che non esista una risposta va comunque a suo favore. Non vorrete mica diventare astratti, fare teoria? Sono quasi vent’anni ormai che Mourinho ci riporta coi piedi per terra. Che non significa pensare solo alla vittoria, al risultato. Col sesto posto in campionato si diceva che la finale con il Siviglia sarebbe stata all or nothing. Dopo che Bono ha parato il rigore di Mancini e quello di Ibanez (e per poco non arriva anche su quello di Cristante), quindi, la Roma sarebbe dovuta rimanere con nothing. Ma se fosse stato davvero così che senso aveva quel discorso di Mourinho a partita conclusa? Perché continuava a parlare ai suoi giocatori, perché farlo in mezzo al campo in modo che tutti lo vedessimo?

Uno dei cori più amati dalla tifoseria romanista ricalca una vecchia canzone di Doris Day: Che sarà sarà. È nato nel 1985 (l'anno dopo la sconfitta con il Liverpool) durante il quarto di finale di ritorno di Coppa delle Coppe con il Bayern Monaco, che la Roma stava perdendo 0-1 dopo aver perso 0-2 all’andata fuori casa. La qualificazione per la semifinale ormai era andata e quello era un modo per i tifosi di innalzare il proprio amore sopra la contingenza del risultato. Per carità, la tifoseria romanista non è poi così speciale, sono sentimenti che provano ed esprimono anche quasi tutte le altre tifoserie, sono davvero poche quelle a poter pretendere vittorie con una certa frequenza. Ma non vuol dire neanche che il risultato non conti niente, che non si voglia vincere qualcosa (almeno di tanto in tanto). Significa solo che non finisce qui.

José Mourinho questo lo sa bene. Stare con i piedi per terra significa non dimenticarsi di questo presupposto. La sua stessa presenza contiene questo che è un messaggio di speranza e al tempo stesso una minaccia. Non finisce qui. Mourinho che si aggira nel parcheggio dello stadio come uno spettro aspettando l’arbitro, Mourinho che a sessant'anni si fa ammonire per proteste in una notte di inizio giugno, Mourinho che ben oltre la mezzanotte arringa i calciatori con le lacrime ormai secche sulle guance, Mourinho che potrebbe cambiare squadra domani ma che i tifosi della Roma e i suoi giocatori non dimenticheranno mai in ogni caso. Con Mourinho, anche quando ormai non c’è più niente da fare, non è mai finita.

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