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Viaggio nella stagione dei cinque allenatori
24 ott 2024
L'annus horribilis per eccellenza nella storia della Roma.
(articolo)
24 min
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IMAGO / Buzzi
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Tra le paure più profonde c'è quella dell’abbandono. Separazioni inspiegabili, vissute come ingiustizie, tradimenti, in cui ci si sente parte lesa, fragili, non meritevoli di amore o di attenzioni. Ferite che segnano in modo decisivo la percezione di noi stessi come mancanti, destinati al peggio.

Di queste separazioni, la Roma del 2004/2005 ne sperimenta in quantità eccessiva; uno dopo l’altro, si interrompono legami fondamentali, e la reazione è sempre a metà fra l’incredulità, la rabbia e l’impotenza. La prima separazione è quella da Franco Sensi, padre simbolico che aveva riportato il tricolore a Roma sponda giallorossa. Un Sensi che lascia il timone, cedendo de facto il controllo della Roma a sua figlia Rosella, formalmente amministratore delegato ma in sostanza alla guida di una società che, seppure andata a un passo dallo Scudetto la stagione precedente, è sommersa di debiti e deve necessariamente puntare al ridimensionamento. Già nel 2003/2004 la Roma è in vendita: forse la comprano i russi della Nafta Moskva, invece no. Forse una cordata di imprenditori romani, ma neanche. Nessuno vuole impelagarsi con una società dal bilancio disastroso. Nell’estate 2004 viene varata una ricapitalizzazione di 145,6 milioni di euro: 44,6 milioni sono forniti direttamente dai Sensi, per ottenere il resto vengono messe in vendita le azioni della squadra, con una campagna di sottoscrizione, testimonial Totti e il cui slogan, dimesso e quasi giustificatorio, è curiosamente simile a quello di una recente campagna abbonamenti dell’Inter: “Non vogliamo la luna, ma continuare a vedere le stelle”. Sebbene tutti predichino calma, che la Roma non verrà ridimensionata, l’appello ai tifosi ricorda sinistramente la famosa colletta del Sistina, drammatico tentativo di sfuggire al baratro in cui i tifosi, la sera del 31 dicembre 1964, raccolsero 800 mila lire per pagare la trasferta (poi persa, ça va sans dire) di Vicenza. Quei soldi vennero poi rifiutati dall’allora presidente, Francesco Marini Dettina, all’oscuro di tutto, e destinati agli alluvionati del Vajont.

La neo-plenipotenziaria della Roma, Rosella Sensi, compie subito un tradimento simbolico: un caffè in Campidoglio con il sindaco Veltroni e l’arci-nemico Antonio Giraudo, amministratore delegato della Juventus, che l’anno prima aveva parlato di “doping amministrativo” in riferimento – neanche troppo velato – alla Roma. Onta suprema. Finisce la lotta al vento del nord, quel Giano bifronte dalle facce di Moggi e Galliani che, secondo il padre Franco, era responsabile delle mancate vittorie della squadra giallorossa, inizia una nuova fase, di imperdonabile connivenza per i tifosi, forse di inevitabile necessità per la dirigenza.

A un primo abbandono, doloroso ma comunque non lacerante, se ne aggiunge un altro, questo sì inconcepibile. All’insaputa di tutti, il 27 maggio 2004 Fabio Capello non esercita l’opzione di rinnovo del suo contratto e si accasa alla Juventus, sempre alla Juventus. Il tradimento per antonomasia, per giunta con la storica rivale, la propria nemesi. È un colpo devastante per una Roma già fragile, ancora più doloroso perché improvviso e inatteso. Solo qualche mese prima, a febbraio, alla vigilia del dolcissimo Roma-Juve 4-0, Capello si era esposto in maniera apparentemente inequivocabile: «Rispetto la società [la Juventus, ndr], ma a me non interessa andare lì, sono scelte di vita».

Fabio Capello, l’uomo forte, lo starman che era arrivato da un altro mondo, quello dorato del Milan degli Invincibili, una dimensione aliena rispetto alla Roma; l’alleato nella lotta di Sensi contro il vento del nord (che allora significava soprattutto appoggiare la candidatura di Sensi a presidente della Lega Calcio, come rappresentante degli interessi delle cosiddette piccole, contro Adriano Galliani, nel 2002; anche queste elezioni: perse), arcigno ma vincente, mai del tutto integrato, che forse, per la squadra che aveva, ha vinto poco. Cinque anni, dal 1999 al 2004, irripetibili. Tutto finito, di colpo, senza neanche una spiegazione.

Raggiunto da Repubblica qualche giorno dopo lo strappo, Capello fa il vago, promette spiegazioni ma, di fatto, non ne dà: «Qualcosa evidentemente è successo. Al momento opportuno dirò la verità, darò le mie spiegazioni. E vedrete che non rimarrete delusi». Solo una settimana prima del fattaccio, la Gazzetta dello Sport titolava: “Capello-Sensi: il futuro comincia”. Si parla di una fuga notturna da Roma a bordo di una Mazda (sponsor della squadra), un’immagine da cospiratore, Diomede che uccide Reso approfittando del sonno, Bakunin al Pontelungo. La città, sponda romanista, è sotto choc: deve ancora iniziare la stagione e già si prefigura una costellazione di lutto. Un articolo di Repubblica riporta le reazioni delle radio romane, una seduta di autocoscienza collettiva. I toni sono violenti: “mi fai schifo”, “infame”, “verme”. La rabbia, si sa, è una fase del lutto. Una fase che durerà una stagione intera.

Finora gli addii dei padri, ma quelli, veri o presunti, dei figli non sono da meno. Il calciomercato estivo porta in dote una serie di separazioni a più livelli di intensità. Se le cessioni di Samuel (al Real Madrid), Lima (Lokomotiv Mosca) e Zebina (Juve) vengono accettate per esigenze di bilancio, il caso Emerson rappresenta un altro, ennesimo lutto che porta in dote una quota di rabbia, umiliazione, sfiducia. Il brasiliano, il cui contratto scade nel 2006, vuole ricongiungersi con Capello alla Juve, ma i bianconeri offrono troppo poco. Franco Baldini fissa il prezzo: 18 milioni o 14/15 più Blasi.

Nel mezzo del braccio di ferro fra le due società, inizia il ritiro della Roma, il 13 luglio a Irdning. Ma Emerson non c’è. Ha presentato un certificato medico, gli è stata diagnosticata la depressione. Viene organizzata una visita fiscale a Trigoria con un neuropsichiatra ma il brasiliano non si presenta. La società, che deve a Emerson quattro mensilità, valuta di denunciare e di chiedere un risarcimento, ma alla fine cede: il 28 luglio Emerson è bianconero, parla da reduce di «fine di un incubo» e del desiderio di «vincere tutto». Alla Roma 14 milioni più Brighi, subito girato al Chievo nell’affare che porta Perrotta in giallorosso.

Il caos arriva anche al figlio prediletto di questa famiglia allo sbando. Dal ritiro di Lisbona per l’Europeo, dove era arrivato sfoggiando undici treccine e con le aspettative mai così alte, Francesco Totti sgancia la bomba: «Se la Roma non compra i 5-6 giocatori promessi, mi sento libero dal giuramento. In quel caso non sarei io a tradire, ma mi sentirei tradito. Devono mantenere quello che hanno promesso». Sono i mesi in cui Totti comincia a ricordare che può andare in altre squadre, come il Real Madrid, oppure il Milan di Berlusconi, una suggestione rintuzzata anche da un Ancelotti stranamente audace: «Galliani preferirebbe Ronaldinho, io Totti». Tradimento, giuramento, un lessico amoroso e doloroso, la tensione già alle stelle. Il capitano rettifica subito dopo, nicchia, si trincera dietro una velata ambiguità. Si scrive di un vecchio e stanco patriarca, Franco Sensi (77 anni), deluso dal comportamento del suo “quarto figlio”, i tifosi reagiscono con i primi, timidi attacchi al loro capitano. Una storia che, come vedremo, avrà risvolti rabbiosi lungo tutta la stagione.

Totti poi ci ripensa, giura eterno amore alla Roma, all’Europeo combina il disastro dello sputo a Poulsen, per il quale chiederà perdono, in stile squisitamente nazionalpopolare e Costanzesco, con una lettera alla Madonna del Divino Amore, meta di pellegrinaggio per i fedeli romani. Il Totti che torna a Roma dall’Europeo è una promessa infranta, un pupone troppo cresciuto, viziato e coccolato ma inaffidabile. Un Europeo che doveva essere la sua definitiva consacrazione, a 28 anni, si è rivelato un boomerang micidiale. A lui la responsabilità di scacciare quella macchia. Un Totti nervoso, crepuscolare, nichilista, che infatti quell’anno siglerà il suo record personale di cartellini in campionato e sfogherà spesso in campo e ai microfoni la sua frustrazione.

Come reagire di fronte a questi abbandoni? La Roma, due giorni dopo l’addio di Capello, spariglia le carte e annuncia Prandelli. Dal padre assente a un figura giovane, fresca, reduce da un ottimo campionato col Parma portato al quinto posto, abituato a navigare le acque turbolente di società sull’orlo del baratro. Il mercato è all’insegna dei giovani, compare la parola d’ordine progetto. Arrivano Ferrari dal Parma, Perrotta dal Chievo, il ventiduenne Mexes dall’Auxerre (con una serie di strascichi giudiziari, squalifiche, multe, blocchi del mercato, confermati e poi ridimensionati). Il sogno per l’attacco è un Gilardino in rampa di lancio, 23 gol l’anno precedente col Parma. Il giocatore desidera la Roma, l’affare sembra fatto, tranne poi infrangersi sulle contropartite tecniche. La Roma, in ossequio alla legge di Murphy, saltato Gilardino (che andrà al Milan l’anno dopo) punta Luis Fabiano o Ibrahimovic, salvo poi optare per Mido. Come si dice in questi casi: il resto è storia.

Dopo il ritiro la squadra vola negli Stati Uniti e le amichevoli la mostrano giovane e in crescita, sebbene pesino gli infortuni di Chivu e Tommasi. A inizio agosto si infortuna Totti ma niente di grave, fino all’ennesimo abbandono. Il 25 agosto, dopo un Perugia-Roma di precampionato, Cesare Prandelli presenta le sue dimissioni. La motivazione è la malattia della moglie. Il tecnico di Orzinuovi aveva già rinunciato a seguire la squadra nella tournée americana, raggiungendola solo ad inizio agosto. In una lettera pubblica parla di «difficoltà legate ad alcuni problemi familiari» e di «non riuscire a trovare la serenità necessaria per svolgere il mio lavoro».

Bisogna quindi trovare un nuovo tecnico. Si fanno i nomi di Cosmi e Del Neri, ma alla fine la scelta è quella di cuore. Una scelta rassicurante, una vecchia bandiera che non tradirebbe mai. Rudi Voeller, unico allenatore straniero del campionato, reduce dalla pessima esperienza dell’Europeo alla guida della Germania (uscita ai gironi). Il tecnico dice di voler «aiutare gli amici», e fissa l’asticella dell’ambizione ai primi posti del campionato. Non andrà esattamente così.

La stagione 2004/2005, la prima a 20 squadre dopo 52 anni, prevede il preliminare di Champions per la quarta classificata. L’aria che tira sulla Serie A è caotica, da fine impero, fra le indagini sul calcioscommesse, quelle sul doping (farmacologico e amministrativo), la confusione sui diritti tv. Oltre alla Roma, navigano in cattive acque la Lazio, acquistata da Claudio Lotito, e il Parma, scampato per un pelo al fallimento. La Roma inizia battendo la Fiorentina 1-0, ma subito si trova a gestire il suo figlio più problematico: Cassano viene espulso per una manata in faccia a Chiellini, la squalifica sarà di due giornate, poi ridotte a una.

I problemi del talento di Bari vecchia però non finiscono qui: il 15 settembre va in scena l’esordio in Champions League con la Dinamo Kiev. Voeller decide di non schierare Cassano dal primo minuto come punizione per l’episodio con la Fiorentina: il barese non la prende bene, volano parole grosse, e viene messo fuori rosa per la partita, con il benestare di Totti.

Roma-Dinamo Kiev del 2004 è una di quelle partite da libro nero della storia della Roma. Una storia europea costellata da serate dolorose, dal 7-1 con lo United alla rissa con il Galatasaray nella stagione 2002-2003. Una rissa che ha visto come protagonista Lima, apparentemente provocato da alcuni calciatori turchi, deflagrata in un tutti contro tutti a cui hanno partecipato calciatori, dirigenti, forze dell’ordine. Un bollettino da guerriglia: 13 agenti e 3 calciatori turchi medicati. Per quella partita, costata a una Roma mai così forte il passaggio ai quarti di finale, volarono squalifiche e multe, oltre a un incidente diplomatico fra Turchia e Italia sulla base della condotta delle forze dell’ordine. Curiosamente, l’arbitro di quella partita era lo stesso di Roma-Dinamo Kiev, lo svedese Anders Frisk.

Roma-Dinamo Kiev parte male e finisce peggio, Totti non riesce a esprimersi, braccato a tutto campo da Yussuf, subisce falli, è nervoso, viene ammonito. La Dinamo passa in vantaggio e a fine primo tempo viene espulso Mexes per un calcio a gioco fermo a Verpakovskis. Il classico psicodramma. Ma si può sempre scavare più a fondo: all’ingresso del tunnel che porta negli spogliatoi, l’arbitro Frisk si accascia a terra, la faccia è una maschera di sangue. Una moneta (all’inizio si dice un accendino) scagliata dalla Tribuna Autorità Laterale lo ha colpito alla fronte, causandogli un taglio che richiederà dei punti di sutura. La partita viene sospesa dopo cinquanta minuti di attesa, per l’infortunio dell’arbitro e l’impossibilità di garantire l’incolumità della terna arbitrale. La notizia viene accolta con un applauso del pubblico: si è fatta giustizia.

Scatta la caccia al lanciatore: Baldini si augura di «poterlo vedere in faccia», si scopre con sorpresa che quel settore è occupato da «presidenti e dirigenti federali, nonché atleti plurimedagliati», non da ultras inferociti. La reazione dell’opinione pubblica è, prevedibilmente, di sdegno: Franco Sensi si dice «traumatizzato», il prefetto Achille Serra ipotizza «un gruppo che vuole danneggiare la Roma e va neutralizzato». Il sindaco di Milano Gabriele Albertini ribadisce lo status di capitale morale di Milano, rintuzzando un dualismo antico, calcato anche da La Padania: gli rispondono piccati il sindaco Veltroni e il presidente del Lazio Storace.

L’episodio, ancora fresco, è quello del derby del bambino morto dell’anno prima: partita sospesa per l’intervento diretto degli ultras. La UEFA, per la quale la Roma è recidiva dopo il caso Galatasaray, si pronuncia: partita persa a tavolino e obbligo di giocare a porte chiuse le due successive partite di Champions, che la Roma chiuderà malinconicamente con un punto in sei contese, in un girone con Dinamo, Bayer Leverkusen e Real Madrid (mentre Frisk concluderà la carriera l’anno seguente, dopo le accuse di un rampante Mourinho di aver favorito in modo illegale il Barcellona di Rijkaard in un ottavo di finale di Champions).

Voeller è furente, parla di mancanza di disciplina nella squadra, di condizione da trovare, chiede il sostegno alla società. In campionato la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Sconfitta a Messina (4-3: tripletta di un ritrovato Montella), pareggio in casa con il Lecce (con cucchiaio di Totti comicamente parato da Sicignano, uno dei tanti buchi neri della stagione del capitano romanista) e sconfitta col secondo Bologna di Mazzone che chiude la partita in nove. Una Roma “imbarazzante”, “presa a pallate” secondo i servizi televisivi dell’epoca. Uno striscione del Dall’Ara recita “State Frisk”. Al termine della partita Voeller presenta le dimissioni: «Mi sono vergognato davanti ai tifosi». Si vocifera di una lite con Delvecchio all’intervallo; Voeller dice che le dimissioni dovranno servire ad «aiutare i giocatori a essere più responsabili». Un altro addio, un altro strappo, peraltro consumato da una delle bandiere di una squadra dalla mitologia intima, privata, e siamo solo a fine settembre.

In compenso l’addio di Voeller regala uno dei momenti più random della storia della Roma: in vantaggio 0-2 al Bernabeu con in panchina il vice Ezio Sella (partita poi ovviamente persa per 4-2).

Per il dopo-Voeller viene scelto Gigi Del Neri, reduce dall’assurda esperienza al Porto, uomo GEA (l’agenzia di Alessandro Moggi, figlio di Luciano) e quindi accolto con sospetto, quasi fosse una spia, un infiltrato.

Subito c’è l’Inter: 3-3 pirotecnico, De Rossi che segna e si strappa la maglia a forza di tirarla, Cassano che, sostituito, viene coperto di fischi e invitato ad andare a lavorare, e se la prende con l’allenatore appena arrivato. Il caso Cassano tiene banco nei mesi di ottobre e novembre: in un’amichevole col Latina lascia il campo perché non gli arrivano palle giocabili, viene ordinato il silenzio stampa. Franco Sensi dichiara di non sapere se rinnovargli il contratto, Del Neri lo mette fuori rosa (insieme a Panucci) per la partita con il Palermo (pareggio), poi torna con la Juve (sconfitta). Nella partita successiva, una vittoria per 5-1 con il Cagliari, viene sostituito a fine primo tempo: nuovo litigio, nuova esclusione dalla rosa per le partite successive.

Striscia la Notizia gli consegna il tapiro d’oro, l’inviato Valerio Staffelli viene spinto via in malo modo da alcuni presenti, fra cui un capo ultrà della Roma, Paolo Zappavigna del gruppo Boys. Sono i giorni in cui Franco Baldini presenta le dimissioni, respinte. Molto tempo dopo il sior Cassano racconterà alla Bobo Tv che il motivo del suo nervosismo erano state le lungaggini per il rinnovo di contratto, e la rabbia dovuta al fatto di percepire uno stipendio minore rispetto a Totti e Montella. È un momento delicatissimo: nella trasferta contro il Milan, Delvecchio viene sostituito al ventesimo dopo un avvio tremebondo della squadra, si avvicina a Del Neri, volano paroloni.

La squadra ritrova una parvenza di serenità solo a fine novembre, vincendo 4-0 a Siena, quattro assist di Cassano, da poco reintegrato dopo le scuse a Del Neri. La Roma prosegue a un ritmo abbastanza spedito: pareggia con la rivelazione Sampdoria, vince a Brescia e pialla il Parma 5-1, due vittorie consecutive per la prima volta in stagione. Partita in cui Totti, che il giorno prima aveva rinfocolato la telenovela sulla sua permanenza in un’intervista al Messaggero, supera Pruzzo quale primo bomber della storia della Roma e sfoggia una delle sue magliette da esultanza: “107 volte solo con te”. Continua la dicotomia appartenenza-tradimento, questo mostrarsi e ritrarsi, una relazione che forse oggi definiremmo tossica. Tant’è, alla fine del girone di andata la Roma è in zona Champions, il giorno dopo la partita il capitano parla alla trasmissione radiofonica Te la do io Tokio rassicurando, di nuovo, per l’ennesima volta, sulla sua permanenza a Roma, ma non solo.

Sono i giorni in cui va in scena un battibecco a distanza con la bandiera laziale Di Canio, tornato dopo quattordici anni per aiutare una squadra che in 16 giornate ha raccolto 17 punti: nella suddetta intervista al Messaggero un Totti carico afferma che non sarebbe mai andato a cena con il capitano laziale; francamente imperdibile la risposta di Di Canio: «Se gli parlo di Medio Oriente, pensa sia una zona del campo». Nuova risposta di Totti in radio (venti anni fa il capitano della Roma interveniva in radio, come suggerisce qualcuno su Twitter ci vorrebbe un Infinite Jest su questo fenomeno): «Di Canio chi? L’allenatore? ». Provocazioni che si allungano fino a poche ore dalla partita, tirando in causa la dedizione alle rispettive cause.

Insomma siamo come si dice in clima derby, un derby pesante, carico di scontri (fra tifosi e polizia, un petardo che quasi colpisce Totti), che passerà alla storia per il saluto romano di Di Canio sotto la Nord e per il suo splendido gol, il secondo nel derby dopo il primo nel 1989. Uno dei derby più dolorosi della storia recente della Roma, anche per il segno del tre fatto da Di Canio a fine partita (la partita finirà 3-1). Un Di Canio che si presenta a Controcampo con un berretto della Curva Nord, discretamente adrenalinico, discettando del fatto che ci sono due modi di tornare dal campo di battaglia: con la testa del nemico o senza la propria. Insomma, serenità.

(Il giorno successivo al derby il conduttore della trasmissione radiofonica Te la do io Tokio, Mario Corsi, si rivolgerà a Di Canio in termini eufemisticamente violenti: dei tifosi laziali si ritrovano sotto la sede della radio, chiedono spiegazioni, stando ai forum dell’epoca il conduttore si barrica nello stabile. Ogni derby ha i propri strascichi).

La Roma si ricompatta, vince a Bergamo e poi va a Siena per il ritorno degli ottavi di finale di Coppa Italia. All’Artemio Franchi, stadio costruito in una buca per cui non tira vento, i tifosi giallorossi in trasferta esplodono una quantità ridicola di fumogeni. Risultato: visibilità azzerata, partita sospesa per 70 minuti. Francesco Totti si dirige verso i tifosi, vola di tutto: bottigliette, accendini, qualcuno urla «mercenario», «non ci servi». È lo strappo supremo, un’immagine francamente distruttiva. Se può venire contestato Totti, allora è davvero tutto finito. Si ipotizza che una protesta così veemente sia una dimostrazione di equilibri in mutamento in Curva. Le telecamere inquadrano il capitano incredulo, sgomento: scuote la testa con quel fatalismo che quell’anno è di tutti (ma forse suo un po’ più che degli altri), sputa e si allontana. Il giorno dopo si dirà deluso, che non sa se rimarrà. Un’altra volta.

Pur sospesa fra i dubbi del suo capitano, la Roma infila una striscia positiva, sulle ali del tridente Totti-Cassano-Montella che, al primo febbraio, hanno segnato 35 dei 42 gol della squadra. Il merito è soprattutto dell’attaccante campano, eroe bizzoso e giocatore sopraffino forse nella migliore stagione della carriera a 30 anni (chiuderà con 21 gol in campionato). Ci si barcamena alle soglie del quarto posto, finché non arriva la Juventus, impegnata nella corsa-scudetto con il Milan, all’Olimpico. È qui che mesi, o decenni di tensioni, di mainagioismo ritrovano, finalmente, l’oggetto del lutto, della rabbia, forse del desiderio. Già nei giorni precedenti, un sempre impronosticabile Cassano confessa alla stampa che gli manca Capello. Nel giorno successivo alla morte di Nicola Calipari, agente del SISMI ucciso per errore a Baghdad in seguito alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, Capello, Emerson e Zebina tornano all’Olimpico.

Tornano i fantasmi del tradimento, dell’amore non corrisposto, della speranza buttata alle ortiche: come canta Mick Jagger in Turd On The Run dall’album Exile On Main Street, un manifesto della deboscia e del nichilismo che segue ai troppi schiaffi presi, make you wish you’d never been, but I lost a lot of love on you.

Il tono dello speaker dell’Olimpico alla lettura delle formazioni è funereo, fintamente distaccato, i fischi riempiono tutto lo spazio. Fuori scontri con la Polizia, auto incendiate. Capello viene inquadrato in panchina che se la ride. La partita segue i binari di una tragedia già scritta millenni prima: la quasi-rissa fra Cufré e Del Piero, segna Cannavaro, forse in fuorigioco. Pareggia Cassano, che in una sorta di rito propiziatorio sgonfiato dal postmoderno, dalla caduta di ogni simbolismo, esulta calciando la bandierina, come nel Roma-Juventus 4-0 dell’anno prima, solo in un contesto greve di disfacimento, di rimessa in scena posticcia, di reunion delle superiori a 40 anni (guardate com’eri). Il definitivo 1-2 arriva su un rigore dubbio: il fallo è fuori area, non si capisce (echi del gol di Turone, echi di una maledizione pre-storica). Totti e Cassano vengono portati via a forza, nel dopopartita il barese echeggia un possibile addio, mentre il capitano parla di partita giocata «in 14 contro 11» (tornano il Palazzo, il vento del Nord, il Grande Altro di Lacan e Zizek), senza mancare l’ennesima occasione di ribadire che non ci sia certezza sulla sua permanenza a Roma.

La sconfitta con la Juventus è la seconda di tre consecutive che costano alla Roma la zona Champions e le dimissioni di Del Neri. L’allenatore friulano, forse sempre corpo antropologicamente estraneo a un’entità così disperatamente alla ricerca di conferme, se ne va dopo una sconfitta a Cagliari (3-0) dove addirittura parte titolare Abel Xavier. Si parla di un professionista «umanamente a pezzi», di una tifoseria che «rigetta ad occhi chiusi un allenatore targato GEA». All’ennesimo addio di questa disgraziata stagione, la società risponde come aveva risposto all’inizio: di nuovo una bandiera, di nuovo il cuore, il passato, l’età dell’oro. Arriva Bruno Conti, ma la squadra, ormai, ha l’«encefalogramma piatto». Da questo momento, a metà marzo, ci si muove in un Dalì dove ogni incubo assume una concretezza delirante e spaventosa. Di nuovo, se una cosa può andare male, andrà peggio.

La squadra guidata da “Marazico”, come veniva chiamato da calciatore Bruno Conti, batte la Fiorentina e approda in semifinale di Coppa Italia (che vincerà contro l’Udinese di Spalletti, perdendo poi in finale con l’Inter, primo atto di una mini-saga che andrà avanti fino alla tragedia del 2010). In campionato invece un disastro: la Roma perde in casa con il Milan, poi pareggia a Udine e perde a Reggio Calabria e a Siena, e si ritrova d’incanto a sei punti dalla zona retrocessione. Se passare dalla lotta Champions a quella salvezza oggi ci sembra un cambiamento troppo repentino, irreale è perché allora la Serie A non era divisa in caste come oggi: tra il sesto posto e il quattordicesimo c’erano solo 10 punti di distanza e bastava poco per ritrovarsi in zone di classifiche inaspettate.

Le cose, poi, possono sempre andare peggio: contro il Siena Totti viene espulso per un pugno a Colonnese: cinque giornate di squalifica. Il capitano si giustifica dicendo di essere stato «colpito sotto l’aspetto umano: mi sono sentito offeso come padre e come marito». Una stagione in cui Totti ha rivestito i panni di Atlante, il peso di una competitività persa, di essere uno dei migliori giocatori al mondo eppure abbandonato da un vincente come Capello, l’Europeo disastroso, il cucchiaio parato con il Lecce, la contestazione a Siena, chissà quali pensieri di rivalsa, ingiustizia, vendetta.

Nel mentre, nel momento più difficile della Roma, arriva l’ennesimo lutto, l’ultimo tassello di un domino avviato a una caduta totale: Franco Baldini presenta per la seconda volta le dimissioni, che stavolta vengono accettate. Il direttore sportivo della Roma, ospite alla trasmissione Parla con me di Serena Dandini qualche giorno prima, aveva rilasciato dichiarazioni da ultimo mohicano: «Le squadre più forti del campionato italiano [Juventus e Milan, ndr] hanno messo in atto in questi anni una politica talmente scientifica [corsivo nostro], usando tutto quello che avevano a disposizione, per restare il più a lungo possibile le più forti». L’ultimo, disperato appello di un dirigente forse paranoico, forse no, del tutto calatosi nella causa di una Roma che vuole uscite fuori dal suo guscio di mediocrità (l’ormai vecchio obiettivo di un ormai decrepito Franco Sensi e del transfugo Capello), prima delle dimissioni, forse dovute a un mutato atteggiamento della dirigenza nei confronti della Juventus. Franco Sensi si dice amareggiato per la perdita di un amico. Un addio che produrrà anche una splendida quanto velenosa doppia intervista a Le Iene fra Baldini e Alessandro Moggi, in cui Baldini parla con la sicurezza di un Aguirre di conflitto di interessi da parte di Galliani (presidente della Lega Calcio), della GEA, ventila favori arbitrali nei confronti della Juventus e, infine, consiglia a Moggi di recidere il cordone ombelicale col padre.

In mezzo a questa tempesta, la Roma raccoglie un punto nelle successive tre partite e si ritrova nel baratro, a un passo dalla Serie B. Destino condiviso dai dirimpettai della Lazio: il derby del 15 maggio viene ribattezzato “derby della paura”. A tre giornate dalla fine, Roma a quattro punti dalla zona retrocessione, Lazio a cinque, in una classifica che vede undici squadre in otto punti (dal Messina settimo, a 44, al Siena quartultimo, a 36). La partita finisce con uno 0-0 telefonato, al fischio finale l’Olimpico prorompe in una contestazione assordante: dalle curve si sente il coro “buffoni” e addirittura l’indicibile, memore delle sciagure dell’anno precedente, “sospendete la partita”. Si vocifera addirittura di un biscotto, di reciproco aiuto, dopo che l’anno prima si era paventato un accordo fra le curve per sospendere la partita. Risultato: nessuna delle due squadre salva aritmeticamente, entrambe sollevate dall’avere evitato una catastrofe fratricida.

La stagione 2004/2005 della Roma finisce sostanzialmente qui: nella partita successiva la squadra batte l’Atalanta a Bergamo con un gol di Cassano, condannandola alla retrocessione e salvandosi con una giornata di anticipo. Le immagini della panchina che si abbraccia ed esulta a fine partita, senza Totti ancora squalificato, sono perturbanti, sbagliate per una squadra che l’anno prima aveva sognato lo Scudetto fino a primavera.

L’anno successivo la Roma ripartirà da Spalletti e costruirà un mini-ciclo domestico, rassicurante, al sapore di lavatura di piatti di landolfiana memoria, basato sul primato morale del bel gioco e di qualche trofeo vinto, da sempre acqua nel deserto per una squadra storicamente soggetta a un destino nefasto, a qualche dio scontroso e sadico. Un’ancora di salvezza per una società che negli anni precedenti aveva sfiorato un’idea di successo e di internazionalizzazione uscendone con le ossa rotte. Francesco Totti concluderà la sua stagione da incubo sposandosi, in una cerimonia senza pari per iconicità e trash in un’Italia ancora lontana dalla crisi economica del 2010, e che oggi è meme. Capello rimarrà un altro anno alla Juventus salvo poi partire, lui sì, per Madrid, a vincere un altro campionato, seguito anche da Cassano qualche mese dopo.

Se il mai ‘na gioia è condizione permanente, mai come in quell’anno i suoi sintomi si sono manifestati con tanta frequenza e gravità. Un film dell’orrore che viene riesumato nei momenti di crisi per esorcizzare le paure più profonde e che anche quest’anno serve alla Roma per mettersi allo specchio e tirare un sospiro profondo.

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