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È stato anche il Mondiale di Roman Torres
12 lug 2018
La storia del capitano di Panama è inestricabilmente legata a quella del suo paese: dagli inizi difficili in Colombia alla storica qualificazione al Mondiale russo.
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La partita d’esordio di Panama a un Mondiale, contro il Belgio, è anche la prima presenza in assoluto dei “Canaleros” a una Coppa del Mondo. Román “El Mazinger” Torres, il capitano dei centramericani, il più conosciuto tra gli sconosciuti, sembra essere lì per incarnare alla perfezione una natura doppia, in bilico tra il professionista che ha raggiunto un obbiettivo e l’essere umano che potrebbe non avere le spalle sufficientemente larghe per reggerne il peso: dapprima si commuove teneramente, durante l’esecuzione dell’inno, in una istantanea ad altissimo contenuto emotivo.

Poi ingaggia un duello sulla carta impari con Romelu Lukaku: lo contiene finché può, negandogli anche, nei primi venti minuti, un gol praticamente già fatto, immolandosi in una commovente - per eroicità - scivolata salvifica. L’intera partita di Román Torres contro il Belgio è, in fin dei conti, un tentativo di legittimazione del suo ruolo di salvatore della patria.

La prima volta di Panama

La prima menzione ufficiale dell’isola di Panama in un testo scritto risale quasi a 500 anni fa, al 1526, all’anno in cui - più o meno un trentennio dopo la scoperta dei territori che oggi identifichiamo come America Centrale - Gonzalo Fernández de Oviedo, botanico, etnografo e storiografo dell'imperatore Carlo V, pubblica il suo “Sumario de la natural historia de las Indias”. “Panama” viene identificata come il luogo di origine di Andrea de la Roca, una sorta di proto-supereroe americano, archetipo di una forza brutale, ammantata di realismo magico: nel racconto di Fernández de Oviedo, de la Roca è in grado di nuotare meglio dei pesci, di rimanere sott’acqua più di un’ora e di resistere agli attacchi letali di una manta gigante senza soccombere, anzi uscendo dall’oceano più forte di prima.

Dotato di una forza fisica ai limiti dell’indistruttibilità, quasi superumana, ma anche di una fallibilità decisamente terrena, Román Torres, il capitano della Nazionale di Panama, ha molti tratti di Andrea de la Roca: per certi versi ne è la rielaborazione mitica moderna. Più di 100 presenze con “los Canaleros”, Torres è il calciatore più conosciuto di Panama al di fuori di Panama, complice anche una presenza scenica imponente, caratterizzata da un cipiglio incattivito à la Ice Cube e la capigliatura un po’ pazza per noi occidentali.

Negli ultimi mesi la sua notorietà si è decuplicata, esondando dal Paese centroamericano (e dagli States, dove milita con i Seattle Sounders ed è uno dei profili più spendibili della MLS): Román Torres è l’autore del gol che ha trascinato Panama, per la prima volta nella sua storia, a una fase finale del Mondiale, diventando il doriforo della favola realizzata. Le vie principali di Panama City, dall’11 ottobre scorso, sono tappezzate di cartelloni con il suo volto: ora pubblicizza una carta di credito, ora sponsorizza il suo marchio di abbligliamento sportivo.

Ma la presenza di Román è meno glitterata e si confonde al downtown cittadino centramericano, dove i grattacieli degradano per lasciare spazio a conglomerati di case basse e variopinte, dai muri grattati e le porte decrepite, come i barrios di San Miguelito o Santa Ana, il quartiere disagiato in cui Román è nato e cresciuto. Lo scorso Dicembre ci è tornato da Eroe Nazionale, o Babbo Natale in infradito, per distribuire regali ai ragazzini: «Il fatto che andremo alla Coppa del Mondo, per molta gente, significa un cambiamento nelle loro vite. E noi siamo diventati un esempio per la gioventù della Nazione».

La cristallizzazione del mito

Il calcio a Panama è cresciuto esponenzialmente solo nell’ultimo decennio. È per questo che non ha ancora sperimentato quella cristallizzazione del mito in virtù del quale i nomi del pugile Roberto Durán, o del closer degli Yankees Mariano Rivera, sono già inscritti nel gotha dei personaggi più importanti di Panama. Probabilmente, tra un decennio, Román Torres figurerà nella galleria dei mezzibusti che hanno scritto la Storia, non solo sportiva, del Paese.

Ciò non significa che la sua generazione abbia inventato il calcio panamense: al contrario, ne ha solo portato a fioritura i semi gettati nell’ultimo ventennio. In un’epoca ancora forse pionieristica, negli anni Novanta, c’erano già stati Julio César Dely Valdes, passato per il PSG e ancora prima per Cagliari, che si era comprato i denti d’oro, con le sue iniziali incise, per dimenticare gli stenti di un’infanzia passata a ormeggiare barche; e poi Rommel Fernández, al quale è intitolato l’Estadio Nacional, il palcoscenico di ogni partita de “Los Canaleros”. Un calciatore, Rommel, molto simile a Román, nell’impeto e nel potere rappresentativo: «Non bisogna mai dare una palla per persa, bisogna essere lottatori». «Io credo che nel calcio bisogna sempre entrare duro, perché se non lo fai puoi farti male. Duro, ma senza cattiveria. Se in una giocata ho l’opportunità di entrare duro sul pallone, lo faccio. Sull’avversario, no», raccontava a Don Balón pochi mesi prima di morire in un incidente stradale.

In Avenida Ancón, conosciuta anche col nome di Calle 18, la legge di Rommel, e quella di Román, sono dettami che si apprendono da piccolissimi, quando si gioca sui campetti diroccati di cemento dipinto di colori vivaci, sotto al cielo sempre livido del Caribe.

Román racconta la sua gioventù in Avenida Ancón, in un video un po’ triste, in cui con gli occhi lucidi tributa anche Amilcar Henríquez, compagno di Nazionale, assassinato a colpi di pistola nell’aprile 2017: aveva 34 anni, era l’ultima opportunità di giocarsi un Mondiale.

Per tutti, nel barrio, Román era già “la muralla”, “Mazinga”, “La Mole”. A casa, invece, lo chiamavano “chombolón”, o “ciccione”, in italiano, perché sbatteva sempre, intrappolato in un corpo goffo.

Come molti coetanei il suo sport preferito era il beisbol, come lo chiamano nei paesi ispanofoni: solo dopo aver ricevuto un colpo con la mazza, si è convinto a scegliere il calcio. Giocava in una squadra di quartiere, si facevano chiamare “Los Fabulositos”: per non fargli perdere il contatto con la realtà, il padre se lo portava spesso con sé al mercato, dove gestiva un banco di mariscos, frutti di mare.

L’uomo della strada

Molte delle squadre di quartiere di Panama, come lo era più di vent’anni fa quella de Los Fabulositos, ogni estate si sfidano nel “Mundial de los barrios”, che si gioca al Rommel Fernández, lo stadio più importante della città, stella polare di una costellazione di impianti sportivi che circondano, nascosti nella nebbia perenne dell’umidità caraibica, lo skyline di Panama City. In uno di questi, l’Estadio Javier Cruz, sede di una società che si è disciolta due anni fa, il Chepo FC, Román ha mosso i primi passi.

Nato come accademia di formazione col nome di Proyecto 2000, satellite del San Francisco sotto l’egida diretta del commissario tecnico Gary Stempel, che ha portato a Panama il calcio come Prometeo il fuoco agli umani, il Chepo FC è stato il bacino di raccolta delle nazionali minori di Panama.

La parabola in Nazionale di Román è però del tutto particolare, perché di fatto precede la sua esperienza nel club. Come racconta lo stesso Stempel: «Stavo organizzando una selezione Under 17 e chiesi ai miei giocatori se conoscessero qualche bravo ragazzo del loro quartiere, che me lo portassero. Era diverso a quei tempi: ora i club sono organizzati, prima dovevi cercarti i giocatori ovunque. Un giorno comparve Román: gli facemmo un provino, ma fu una decisione facile. Se lo guardi oggi, 14 anni più tardi, è rimasto lo stesso biotipo: allora aveva i capelli corti, non aveva tatuaggi. Però, letteralmente, è venuto dalla strada».

Román racconta di essersi presentato alle selezioni con un piano: Stempel chiedeva ai calciatori di alzare la mano in base al ruolo preferito. Anche se amava giocare da attaccante, Román aspettò il turno dei difensori perché, dice, le mani alzate erano di meno, e c’era più opportunità di entrare a far parte della squadra.

Stempel guidò Román anche al San Francisco, nell’ultima esperienza panamense di Torres.

Tre anni più tardi, neppure maggiorenne, Torres avrebbe deciso di abbandonare Panama per tentare l’avventura in Colombia. «Volevo andarmene dal Paese», dice. La Colombia e Panama sono unite da molti legami storici (Panama ha fatto parte della Colombia fino al 1903): calcisticamente, la Colombia è l’upgrade più a portata di mano per i calciatori dell’istmo. «Spendevo più soldi al telefono con mia madre che al supermercato. Non sapevo neppure cucinare». L’esperienza al Cortuluá, la prima squadra colombiana, è traumatica come solo le esperienze più formative sanno essere.

Non lo pagavano, e la situazione era talmente critica che i due connazionali che vivevano e giocavano con lui cercano di convincerlo a tornare a casa: un giorno, quando si sveglia, si accorge che lo avevano lasciato solo.

Eppure Román, forte della sua perseveranza, riesce a scalare le gerarchie della Liga Águila: Atlético Junior, Nacional, Millonarios, gioca in tutte le squadre più rappresentative e vincenti di Colombia, dove si fa un nome e si guadagna un provino in Inghilterra, con il Nottingham Forrest. «Mi sarebbe piaciuto giocare in Inghilterra: sapevo cosa avrei potuto dare». Ma le squadre non trovano l’accordo economico, e Torres si vede incatenato a un destino che somiglia a un cul-de-sac.

I tifosi del Millonarios (con cui giocò anche un amichevole al Bernabeu, sconfitto per 8-0 dal Real) chiamavano il suo presentarsi in area avversaria negli ultimi minuti della partita “La Gran Román Torres”: una sfumatura caratteriale, prima che uno stile di gioco. La stessa scena si è ripetuta la sera del 10 Ottobre dell’anno scorso, quando intorno all’85esimo minuto, sul risultato di 1-1 che condanna Panama fuori dal Mondiale, decide di alzare il baricentro del suo gioco: «Ho guardato la panchina, aspettavo istruzioni. Attendevo mi dicessero “Román, sali un po’”. Nessuno me l’ha detto, ma sono andato lo stesso».

L’ingenuità delle piccole cose

La seconda partita di Panama a un Mondiale è già lo scenario di una disfatta. L’Inghilterra, e Harry Kane, sono davvero più forti delle favole minuscole, delle velleità, della volontà. Dopo il secondo gol su rigore del centravanti del Tottenham, mentre gli inglesi festeggiano il capocannoniere in pectore della competizione, un giocatore di Panama raccoglie il pallone e si avvia a passo rapido verso il centro del campo.

In un mondo in cui il confine tra reale e virtuale fatica ad appalesarsi con nitidezza si è fatta largo la convinzione che esista una regola bislacca, la cui interpretazione durante il Mondiale sembra vivere una nuova vita, per la quale la squadra appena crollata sotto il peso di un gol abbia la possibilità, se ha la rapidità e la lucidità di reagire, di battere velocemente il calcio d’inizio approfittando dell’assenza degli avversari dal campo. Si tratta ovviamente di una fake news, ribadita anche dall’IFAB, ma gli uomini di Panama sono sognatori, forse ingenui, forse fin troppo consapevoli del ruolo che sono chiamati a giocare una volta sommersi, nel risultato, dalla valanga inglese.

Torres, da capitano, dovrebbe essere il primo a strappare il pallone dalle mani del compagno e chiedergli «ma dov’è che stai andando». Invece è proprio il primo a crederci, a seguire il compagno, e durante il tragitto verso il centrocampo si ferma anche a confabulare con l’arbitro.

Sembra chiedergli se casomai sia vero, che esista questa regola. E se davvero non esistesse, non è un momento meraviglioso per scrivere la Storia del calcio? Panama riprende il gioco, ma l’arbitro fischia. Torres ha un gesto di stizza. La storia, almeno quella di Panama, la scriverà qualche minuto più tardi Felipe Baloy, il terzo giocatore più vecchio a essere sceso in una Coppa del Mondo, a 37 anni, che segnerà il gol dell’1-6.

È il primo gol di Panama a un Mondiale. Torres, com’è normale che sia, è a due passi da dove la leggenda sta prendendo forma.

Oltrepassare i confini

La storia di Panama, anche nel calcio, è la storia dei suoi confini. Dei limiti che la costringono, e che sono destinati a essere superati. O ad abbattersi come una condanna.

Nel 2013, all’ultima giornata dell’Hexagonál, il minitorneo a sei squadre che determina le partecipanti della CONCACAF al Mondiale, “Los Canaleros” sono a un passo dalla storia. In un’umida notte caraibica, al Rommel Fernández arrivano gli Stati Uniti già qualificati. Panama è obbligata a vincere per continuare a sperare nei playoff contro la Nuova Zelanda e contemporaneamente deve sperare che Costa Rica batta il Messico.

A dieci minuti dal termine, la congiuntura astrale sembra realizzarsi. Panama è in vantaggio per 2-1 e Costa Rica sta battendo il Messico. Al primo minuto di recupero, Graham Zusi segna un gol che ha sul Rommel Fernández l’effetto annichilente di un temporale improvviso.

L’impressionante ammutolirsi della folla: come se esistesse un telecomando e qualcuno avesse premuto il tasto “muto”.

David Samudio Garay, storico telecronista delle partite della Nazionale, racconta che la Federazione panamense aveva assoldato un invasore di campo che si sarebbe dovuto intrufolare sul terreno per spezzare il ritmo, con Panama in vantaggio, per distrarre gli statunitensi. «Ma [l’allenatore Julio Dely Valdés] dice “aspettiamo il recupero”. E aspettano. Novantesimo. Novantunesimo. Novantaduesimo. Subito dopo aver preso il gol, dalle riprese si può vedere il ragazzo correre. Ma era troppo tardi! Volevano farlo per sospendere la partita, non sono riusciti a farlo nella maniera giusta».

Román Torres dice di non aver dormito quella notte. «È stato un giorno triste per il Paese, per noi giocatori, ma ci ha insegnato una cosa: come si amministra l’ansia, e il tempo». I genitori di Román, appena l’arbitro fischia la fine, si mettono in macchina e corrono in hotel per consolarlo. Quella sera Román compie una promessa: non si sarebbe più tagliato i capelli fin quando Panama non si fosse qualificata per un Mondiale.

Due anni più tardi il processo di maturazione di Panama sembra arrivato a compimento. Nella Gold Cup del 2015 “Los Canaleros” arrivano terzi, dopo aver ceduto il passo alla finale al Messico soltanto ai tempi supplementari. La crescita della Nazionale è tutta nell’affinamento del suo capitano: dopo aver segnato un gol pesantissimo, di testa, Torres incappa in una mezza specie di incubo.

Prima, con un fallo di mano, propizia il rigore del pareggio messicano. È un fallo anche buffo: scivola, accartocciandosi goffamente, crollando sul pallone, toccandolo con la mano. Un rigore assegnato con molta leggerezza, di fronte al quale Román, nonostante il temperamento burrascoso, reagisce ridendo. In quel sorriso, che non svanisce neppure dopo l’assegnazione del secondo rigore, quando tutti i compagni si stringono minacciosamente intorno all’arbitro, c’è tutta l’evoluzione del processo di nuova costruzione identitaria di Román. Che infatti, subito dopo l’epilogo della Gold Cup, decide di imprimere alla sua carriera una svolta decisiva: più tranquilla e solida, ma anche ambiziosa. Abbandona la Colombia per firmare con i Seattle Sounders, alla ricerca del primo titolo della loro storia.

Román è perfetto per la MLS: ha la struttura fisica di un cestista della NBA, ed è sufficientemente un personaggio. La sua mole è un deterrente spettacolare per gli attaccanti, e il modo in cui troneggia in area avversaria un pretesto per cucirgli addosso il vestito dello stopper goleador.

Ma quando tutto sembra mettersi per il verso giusto, due mesi dopo l’esordio, in una partita a San José, Torres poggia il piede malamente, dopo uno scontro aereo, e si accascia a terra. La diagnosi conferma la rottura del legamento. La prognosi è impietosa: sei mesi di stop.

«Dio, perché a me proprio ora?», ricorda di essersi chiesto. Aveva giocato soltanto tre partite. «Poi, però», chiosa «ho realizzato che c’è un tempo per tutto».

In realtà rimarrà fuori dal campo per un anno intero. Un anno in cui - come dice René Mendieta, suo allenatore nelle giovanili di Panama e cresciuto anch’egli a Santa Ana - «ha sviluppato la forza mentale necessaria per continuare a credere in se stesso. Che è poi la sua unica maniera di essere».

Al rientro Román è un giocatore diverso, un giocatore che ha paura. Paura di saltare, di fare quello che ha sempre fatto, paura di farsi nuovamente male. Eppure risulta comunque decisivo: nei playoff gioca prestazioni mostruose, ricco della ritrovata fiducia. Seattle arriva fino alla finale, contro Toronto. Le squadre rimangono in parità fino al 120’. Si va ai rigori, e Román, come prendendo consapevolezza che i momenti negativi dovranno pur finire, prima o poi, si propone a Schmetzer, il CT di Seattle, come rigorista. Il tecnico nicchia, poi gli concede di tirare il rigore decisivo. Con il suo gol i Sounders vinceranno la prima MLS Cup della loro storia.

Foto di Cole Burston / Stringer

Il marchio della gloria

Román ha somatizzato tutto. I segni degli avvenimenti che gli hanno reso la carriera una commistione di gioie indescrivibili e delusioni cocenti, li porta tutti sulla pelle, anche letteralmente. Sul polpaccio sinistro si è tatuato l’immagine di se stesso che, nello sfogo di un urlo, solleva la MLS Cup. Sul braccio sinistro, come fuoriuscendo da un’esplosione sul bicipite, sventola la bandiera panamense. E sul polpaccio destro: la Coppa del Mondo.

Anche la sera del 10 ottobre gli eventi sembrava stessero prendendo la piega peggiore: la realizzazione dell’incubo ricorrente. In svantaggio contro Costa Rica, le speranze sono tenute a galla solo dal momentaneo svantaggio degli Stati Uniti contro Trinidad & Tobago. Al dodicesimo minuto della ripresa, Panama pareggia con un gol assai dubbio, pur convalidato dall’arbitro. Qualche giorno più tardi, ebbro d’euforia, interpellato sul gol fantasma, Jorge Dely Valdés (il tecnico che aveva fallito la qualificazione nel 2013) avrebbe risposto: «Sapete cosa significa VAR? Vamos A Rusia».

Anche a riguardarlo un milione di volte è complicato non pensare che sia un gol irregolare. Bellissimo il commento dei cronisti di fronte agli istanti in cui il pallone danza sulla linea di porta, e Blas Pérez non ha ancora spinto il pallone in rete con la mano: «Se avesse tirato fuori la lingua l’avrebbe buttata dentro così».

Ma è a cinque minuti dalla fine che Román decide di girare una scena memorabile da consegnare alla storia. Al compagno Anibal Godoy dice: «Io salgo». E infatti sale. Luis Tejada lo pesca con una sponda di testa, e in uno stile forse non proprio elegantissimo, ma eminentemente suo, Román in proiezione offensiva conclude con un sinistro sbilenco eppure precisissimo, che gonfia la rete alle spalle di Pemberton e si traduce in una qualificazione al Mondiale.

Dettagli stranianti del video: lo striscione in cirillico, di buon auspicio, e le gigantografie stilizzate dei faccioni dei calciatori della Nazionale che si vedono al minuto 4.00 di questo video.

Nel pandemonio che segue, una donna di una certa età scavalca le recinzioni e corre verso il campo, dove si sdraia a terra sventolando le mani verso il cielo, esultante. Due steward e una riserva della Nazionale panamense la trascinano fuori dal campo. Torres viene ammonito per l’esultanza esuberante. Ci vorranno tre minuti per riprendere il gioco, anche se la partita aveva già espresso tutto quel che c’era da esprimere: ogni secondo ulteriore di gioco era un secondo rubato alle celebrazioni, agli abbracci ecumenici, alla gioia.

L’11 ottobre, il giorno successivo alla qualificazione, è stato dichiarato giorno di Festa Nazionale da Juan Carlos Varela, Presidente di Panama, che ha chiuso le scuole e concesso un giorno di festa ai dipendenti di ogni settore, pubblico e privato. Da qualche parte si cominciava già a parlare di intitolare uno stadio a Román.

Triste y final

La partita contro la Tunisia è l’ultima che Panama gioca al Mondiale di Russia. Chissà quando ricapiterà di vedere i “Canaleros” a una Coppa del Mondo. L’atmosfera è quella di una compartecipazione a una grande celebrazione: alla fine non può esserci tristezza.

Torres vuole lasciare un segno indelebile. Intorno alla mezz’ora deve pensare, ancora una volta, «io salgo». E infatti sale, alla ricerca di un gol improbabile che porterebbe a compimento una narrazione surreale. È al limite dell’area, l’azione nata sugli sviluppi di un calcio d’angolo lo trova piantato nella sua imperiosità tra la linea difensiva maghrebina in ripiegamento. Tutto concorre affinché la Storia possa scorrere con la benedizione di una sua carezza. Vede sopraggiungere Rodríguez, gli appoggia un pallone pulito: Panama passa in vantaggio.

Verrà sconfitto in rimonta, ma Torres non sarà già più in campo. L’infortunio nel tentativo di arginare Khazri lo sottrae alle contingenze senza rimpianti, anzi ingigantendone il mito, con un tempismo perfetto. Poche ore più tardi, negli spogliatoi, annuncerà il suo ritiro dalla Nazionale.

Foto di Kevin C. Cox / Getty Images

Sopportare il peso

La prima, storica qualificazione di Panama è arrivata una ventina di giorni prima di una delle festività più importanti del Paese: il Giorno della Bandiera Nazionale. Si celebra il 4 novembre, esattamente il giorno dopo le celebrazioni per la separazione - e conseguente indipendenza - dalla Colombia: in quel giorno ogni cittadino giura fedeltà alla propria bandiera, e al Presidente della Repubblica, per dimostrare il proprio rispetto e orgoglio per la patria. Cittadini notabili - spesso membri delle forze di Polizia, o accademici - vengono scelti per far sfilare per le vie della capitale la bandiera nazionale.

Quest’anno il vessillo (insieme alle chiavi di Panama City, e al titolo di Figlio Meritevole della Nazione) è stato consegnato a Román: un rito, per quanto cerimonioso, tutt’altro che solenne, al quale Torres si è presentato in occhiali da sole e orologio d’oro, indossando una camicia tradizionale, con un sorriso grosso così.

Per un istante, però, quando i pugni stringono il manico della bandiera, l’espressione si fa seria. Come se lo avesse realizzato solo in quel momento, il señor Román Torres, cosa significhi, nascosto nei simboli, avere un Paese nelle proprie mani, e un inno da far risuonare, in Russia, facendosi scivolare una lacrima sul viso.

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