Parlare di soldi è più o meno sempre deprimente. Mi piace il lavoro che faccio perché non si parla mai di soldi, ci sono persone che si occupano delle finanze ma sono al di fuori del magazzino, neanche le conosciamo, si fanno i loro conti e poi ce li traducono in obiettivi, più o meno materiali. Tutto quello di cui parliamo all’interno sono le persone e le performance, di come stiamo andando, di quanto siamo felici, di dove vogliamo arrivare.
Il risultato è che non sono per nulla in grado di gestire le mie finanze personali, che se dobbiamo anche solo organizzarci le vacanze e sento parlare di budget metto mano alla pistola, però me la vivo bene, sono più sereno, specie quando devo prendere una decisione o accettare le decisioni altrui.
Parlare di soldi è deprimente ma è necessario perché non c’è nessun’altra considerazione, o visione strategica, che giustifichi le scelte sul mercato dell’Inter negli ultimi mesi. Perdere Lukaku non ci farà giocare meglio, non ci aiuterà a raggiungere obiettivi maggiori e non ci porterà da nessuna parte, nemmeno ci renderà più felici, forse neanche renderà più felice Lukaku, e quindi semplicemente non andrebbe permesso. Ecco perché dicevo che è facilissimo prendere decisioni così, ma quale altra scelta avrebbero potuto prendere i dirigenti dell’Inter?
La pigrizia e la fretta
Cerchiamo di dare per assunto, ma semplicemente per non uscire matti, che fosse impossibile rinunciare alla cessione di Lukaku, oltre a quella di Hakimi ovviamente. Partiamo dal presupposto che questi soldi servivano e servivano tutti, e che gli 80, forse 90 milioni di plusvalenza che arriveranno solo dalla cessione del belga non era possibile ricavarli altrove.
L’Inter non aveva in effetti molte possibilità, poteva accordarsi per mandare altrove qualche giovane della Primavera, poteva liquidare i contratti di Vidal e Nainggolan come del resto aveva fatto con Conte, poteva risparmiarsi i rinnovi contrattuali di Kolarov, Handanovic, D’Ambrosio e Ranocchia (con l’idea tutto sommato, prima di rinunciare a due giocatori generazionali come Hakimi e Lukaku, fosse più sensato rinunciare a tutti gli altri e provare a ricostruire in qualche modo), e comunque per arrivare a quella cifra avrebbe dovuto mettere in conto una o più cessioni dolorose.
Quindi l’Inter doveva vendere Lukaku, ma era giusto venderlo proprio adesso? Se la società sapeva che non avrebbe più giocato nell’Inter, come hanno potuto permettere che vedessimo, convinti che fosse sempre il nostro attaccante, le sue foto in vacanza con Jay-Z, entrambi vestiti di bianco sopra un divano bianco, con le emoji del GOAT e la corona del King a corredo? Quale altro giocatore riuscirà mai a impugnare con la stessa naturalezza al cospetto di una star del rap mondiale una targa nerazzurra con su scritto “CHAMPS BABY”?
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Mi chiedo anche come possano essersi sentiti i dirigenti nelle ultime settimane. Lo hanno visto anche loro allenarsi alle 7 di mattina, sempre durante le vacanze, in una meta non specificata (ma probabilmente dalle parti di Miami) che Lukaku ha nascosto dietro il geotag “Paradise”, con i muscoli tutti riconoscibili, che riflettevano il sole, perfettamente tirati a lucido. E quando Lukaku ha scritto «Time to go home now», sorridendo dentro una piscina, non potevano avvisarci, o anche solo avvisarlo, che quella casa non c’era più e che doveva traslocare?
Se la risposta a tutte queste domande è la stessa, ovvero lo hanno fatto per non compromettere la valutazione del suo cartellino, per non attaccargli addosso il cartello “Vendesi” che ne avrebbe abbassato il prezzo, allora basterebbe togliere subito l’unico incentivo che hanno le società per comportarsi in questo modo orrendo, cioè la valutazione dei cartellini stessa.
Le leghe americane, come l’NBA, lo hanno fatto e a vederle da qui se la passano molto meglio: i giocatori sono ovviamente asset, che occupano un certo peso all’interno delle possibilità di spesa di una squadra, ma trattati così appaiono più che altro currencies, con un valore che può fluttuare dall’alba al tramonto a seconda del tipo di comunicazione che gli sta dietro.
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A ingrandire queste paranoie forse contribuisce il nuovo partner commerciale, Socios.com, che stando al sito dell’Inter è «una piattaforma che sfrutta la tecnologia blockchain per fornire alle principali organizzazioni sportive in tutto il mondo gli strumenti per coinvolgere le loro fanbase globali», che dopo 26 anni ha sostituito sulle magliette uno sponsor rassicurante e novecentesco come un marchio di pneumatici. Ironicamente, l’azienda prometteva ai possessori di $INTER Fan Token, una criptovaluta, «la possibilità di influenzare il club in una serie di importanti sondaggi, interattivi e divertenti che si terranno ogni stagione»: nel frattempo se n’è andato Lukaku.
Non è soltanto questione di mettere i tifosi al centro delle decisioni di una società, che può essere opinabile a seconda dell’idea che abbiamo del gioco, ma di metterci i tecnici e gli atleti, senza i quali il gioco semplicemente non ci sarebbe. Perché, per esempio, hanno lasciato che Simone Inzaghi lo aspettasse, lo accogliesse, ci discutesse durante gli allenamenti, per poi scoprire che non sarebbe stato il suo attaccante?
È triste e malinconico risentire adesso la prima intervista a Lukaku fatta da Inter TV dopo il suo rientro dalle vacanze, e parliamo di dieci giorni fa anche se sembrano cinquanta, in cui l’attaccante belga viene interrogato sul suo rapporto con Inzaghi e risponde: «Abbiamo parlato tanto il giorno che la società ha annunciato che lui era l’allenatore, e abbiamo parlato tanto quando io ero agli Europei, ho parlato anche tanto con mio fratello di lui». Quante di queste conversazioni si sarebbero potuti risparmiare entrambi, per godersi di più le vacanze e prepararsi al meglio per la prossima stagione?
A me sembra che l’Inter abbia semplicemente avuto fretta di fare soldi, che poi è il modo migliore per perderli subito. Mi sembra se avesse fatto i conti bene dal primo momento avrebbe affrontato la cessione di Lukaku come ha affrontato le partenze di Hakimi e Conte, cioè preparandoci tutto sommato per tempo, avviando le trattative subito dopo la fine del campionato, pur aspettando il primo luglio per scriverle sul bilancio della stagione appena iniziata.
Certo, se le finestre di mercato fossero più brevi, per rubare un’altra idea agli Stati Uniti nell’ottica di vincolare i dirigenti a fare le cose per bene, sarebbe stato necessario prendere tutte queste decisioni insieme e scoprire le carte subito, ma non è contemplabile in ogni caso, da un punto di vista strategico, cominciare una stagione senza avere chiari quali siano i tuoi punti fermi.
Il modo in cui è stata gestita la cessione di Lukaku è uno scenario che avrebbe senso immaginarsi al più per il terzo, quarto attaccante della rosa: riunione tecnica con staff tecnico e dirigenti come se ne vedevano in Sunderland ‘till I die, la lavagnetta appesa al muro col campo inciso sopra, le targhette coi nomi dei giocatori a fianco, e questo che dite, lo teniamo? Mah, sì, vediamo se arriva l’offerta giusta, mal che vada rimarrà, non dobbiamo pensarci adesso. Solo che Lukaku non era una targhetta, Lukaku era la lavagna con tutta la parete.
Era il Re di Milano, come lui stesso si definiva una settimana fa, fotografandosi a casa sua, appena tornato in città. Era la garanzia poggiata come un fermacarte di piombo sulle ambizioni tecniche dell’Inter. Dalla sua presenza dipendeva in modo vincolante la capacità di attrarre nuovi talenti e di convincere gli attuali talenti a legarsi a lungo termine a questa società, come ha fatto per fortuna di recente Bastoni (e chissà se adesso lo farà Barella, che secondo quello che si leggeva della proposta messa in campo dall’Inter avrebbe dovuto guadagnare meno di Calhanoglu).
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Adesso forse arriverà Zapata, anche lui forse sovrapprezzo, e la squadra rimarrà competitiva ancora per qualche mese, ma l’allenatore e i giocatori, che fino a ieri commentavano con i cuori neroazzurri i messaggi di Lukaku invocandone il rientro, avranno la forza di crederci? Sotto questo punto di vista la dirigenza dell’Inter mi è sembrata pigra, nel senso di allergica alla complessità: di fronte alla necessità di guadagnare ha scelto la scorciatoia più breve, senza inventarsi nulla, senza preoccuparsi di pianificare i tempi o di spiegarlo all’interno prima che all’esterno.
Di fronte alla necessità di sostituire Lukaku, ha scelto quello che sembrerebbe il primo sostituto scelto ad occhi chiusi, con un accostamento anche un po’ stereotipato, dando l’idea di volersi togliere un problema il prima possibile piuttosto che di voler cogliere dentro il problema un’opportunità. Al contrario, di fronte alla necessità di sostituire Hakimi, maturata da almeno tre mesi, ha… boh, torturato Nandez, che non sarebbe neanche un sostituto naturale, con centinaia di incontri?
Non c’è nessun imbarazzo nella recessione o nella povertà, figurarsi per i tifosi di una squadra di calcio che neanche devono rimetterci nulla. Non si può migliorare all’infinito. Quello che imbarazza e ferisce i tifosi dell’Inter in questo momento è l’impressione che nessuno in società abbia più voglia di fare questo lavoro.
Super Champs
Mi è capitato di leggere sulla rete paragoni con la Lazio di inizio secolo, con il bilancio dissestato e una proprietà dalle idee confuse, che arrivò ad attendere il 31 agosto del 2002 prima che Crespo firmasse con l’Inter e Nesta con il Milan. Una nota sul sito della Lazio firmata da Massimo Cragnotti lo definiva «un grande sacrificio effettuato per agevolare il riequilibrio finanziario in corso della Società e per garantire alla squadra la necessaria tranquillità… per nuove stagioni di successi sempre nell’élite del calcio mondiale», poi non ci furono né tranquillità né nuove stagioni di successi e la Lazio si trovò a un passo dalla dichiarazione fallimentare.
Da quel momento la Lazio si sarebbe qualificata in Champions tre volte nelle successive venti stagioni senza tornare mai di fatto competitiva per lo Scudetto. Magari ricorderemo questa dirigenza come quella in grado di evitare uno scenario del genere pur partendo da simili presupposti, e le mosse di questa estate come le brillanti contro-intuizioni che hanno salvato il bilancio senza intaccare la reputazione del club. Magari il gruppo rimane unito nelle difficoltà, come ha fatto negli ultimi due anni, e magari riescono pure a vendere le magliette e le tazze della collezione “Super Champs” che sono ancora in vendita sullo store ufficiale.
“Super Champs” è una sorta di stampa per annunciare la prossima stagione a tema supereroi: a sinistra c’è Calhanoglu che fa le fiamme con gli stivali, e al centro c’è Lukaku enorme vestito praticamente da Capitan America con lo scudo nerazzurro. Due giocatori che hanno giocato insieme in tutto 14 minuti di un’amichevole ad Appiano Gentile contro il Crotone finita 6-0, per dire della frenesia con cui stanno cambiando le cose dentro l’Inter, riflessa pure nell’insondabile calendario delle amichevoli pre-campionato (con partite organizzate e poi cancellate senza neanche annunciarle). E adesso l’Inter si ritrova con un vuoto enorme al centro, con dei “champs” che senza Lukaku a fargli scudo e protezione sembrano un po’ meno “super”.
Non era Hakimi il simbolo di questa squadra, per quanto avesse caratteristiche forse più insostituibili di quelle di Lukaku, veramente da giocatore che passa una volta ogni vent’anni, e non lo era neanche Conte, per quanto artefice principale dell’ultimo scudetto. Nessuno più, perché nessuno ha la personalità di Lukaku, metterà la maglia sopra una bandierina e la sventolerà al cielo dopo il primo gol segnato nel Derby, o si rivolgerà a Eriksen in danese attraverso la telecamera dopo che il compagno era stato sospeso tra la vita e la morte: «Chris, Chris, sterkte jongen, I love you».
In un contesto come quello del calcio per club, che rimane fondamentalmente un gioco, parlare di soldi è ancora più deprimente di quanto non lo sia normalmente, un po’ perché i soldi non sono i tuoi, ma prima di tutto perché non ne vale la pena. Ogni strategia di mercato consegue una valutazione precisa del bilancio di una squadra e della sua aderenza con gli obblighi di legge, quindi l’analisi di dati che non sono in nostro possesso. O magari lo sono ma non abbiamo gli strumenti per interpretarli, o magari abbiamo anche quelli, ma alla fine cosa cambia?
Negli ultimi mesi abbiamo preso in giro la tendenza dei nostri amici, colleghi e vicini di casa a improvvisarsi virologi, epidemiologi, ad addentrarsi in territori della conoscenza dove non avevano cittadinanza, e adesso qualunque delirio di onniscienza io abbia mai letto mi appare un esercizio molto più nobile rispetto a scrivere della cessione di Lukaku come sto facendo io.
Perché magari non sai nulla di medicina, però hai un’illuminazione nel sonno, e se funziona nulla ti impedisce di essere preso in considerazione e cambiare il corso della storia. Io invece non so molto delle finanze dell’Inter, non so quanti soldi servissero a pagare gli stipendi di chi ci lavora e a chiudere il bilancio in attivo, ma se anche lo sapessi e sapessi dove trovarli non cambierebbe nulla, perché Lukaku sarà un giocatore del Chelsea la prossima stagione.