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I social network hanno stravolto la realtà su Ronaldinho al Milan
22 ott 2024
22 ott 2024
I reel che trovate su Instagram non dicono tutta la verità sulla sua esperienza in Italia.
(articolo)
18 min
(copertina)
IMAGO / Buzzi
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Si sa: poche cose, sui social network, funzionano meglio del binomio calcio e nostalgia. È un meccanismo perverso, che nel migliore dei casi serve a catturare la nostra attenzione mentre scrolliamo su Instagram, nel peggiore a mistificare la storia.

Sarà capitato a molti di voi di imbattersi in questa foto: Pirlo, Beckham e Ronaldinho con la maglia del Milan mentre decidono chi dovrà battere una punizione, accompagnati da una didascalia del tipo “quando al portiere non resta che pregare” o peggio ancora “quando il Milan faceva paura”.

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Un paio di precisazioni per chi è troppo giovane per ricordarsi quel periodo o per chi ha perso la memoria. Pirlo, Ronaldinho e Beckham hanno giocato insieme per una stagione e mezza: metà della 2008/09 (Beckham arrivò a gennaio) e tutta la 2009/10. I gol su punizione diretta del Milan in Serie A, in quei due anni, furono a malapena tre: due di Ronaldinho contro Torino e Napoli (quest’ultimo, in realtà, autogol di Denis) e uno di Beckham contro il Genoa.

Seconda precisazione, la più importante: il fatto che sia Beckham che Ronaldinho vestissero la maglia del Milan non significava per niente che il Milan fosse una grande squadra. Semmai è vero il contrario: quel Milan poteva schierare Beckham e Ronaldinho perché ormai era una squadra di seconda fascia. Per ribaltare i toni con cui quella squadra viene spesso presentata sul web, il Milan di Ronaldinho e Beckham non faceva paura proprio a nessuno.

È qualcosa che vi potrà confermare qualsiasi tifoso milanista, o chiunque si ricordi come andava la Serie A di quell’epoca. Il mondo dei social network, però, è diverso della realtà. Così basta poco a trasformare quel Milan in una formazione di culto. Del resto, come non provare reverenza per i fuoriclasse di quella squadra.

Chi più di tutti ha goduto di questa riabilitazione è senza dubbio Ronaldinho. Internet brulica di video di Ronaldinho con la maglia del Milan, credo ci siano molte più clip del brasiliano in rossonero rispetto a campioni che a San Siro hanno davvero scritto la storia. Non dovrebbe sorprendere: Ronaldinho è stato il campione televisivo per definizione, l’uomo delle quattro traverse nel famoso spot di Joga Bonito, con quell’aspetto buffo e un gioco che rispecchiava la sua voglia di fare festa. Un modo di giocare perfetto per i reel di Instagram, che nel migliore dei casi tagliuzzano le partite per mostrare solo i grandi numeri di un giocatore, manipolando così la percezione della sua influenza in campo. E nel peggiore fanno proprio revisionismo storico: ce n'è uno di particolare successo, per esempio, che con il montaggio racconta di un fantomatico poker di Miccoli contro l'Inter da una situazione di svantaggio di tre gol, in una partita finita 3-4 mai avvenuta in realtà (gran parte delle immagini si riferiscono a Inter-Palermo 4-4 della stagione 2011/12 in cui Miccoli segnò una tripletta, e lo svantaggio del Palermo non fu mai più di un gol).

Non voglio fare semplice opera di debunking, sia chiaro. Il più delle volte questo tipo di video è un atto di amore sincero verso giocatori irripetibili. Questo per dire che era impossibile non innamorarsi di Ronaldinho, ed evidentemente l’assunto è valido anche oggi che sono passati quasi quindici anni dalla sua ultima apparizione col Milan. Il problema, però, è quando si distorce il passato per mettere sotto accusa il presente in maniera pretestuosa. Nel caso del Milan, per esempio, ogni volta che i rossoneri perdono una partita o che Leão offre una prestazione grigia, ecco che spunta il tifoso nostalgico con un video di Ronaldinho montato ad arte per denunciare la presunta corruzione dei costumi del Milan odierno.

La verità - forse per alcuni deludente - è che spesso il passato era molto peggio del presente, e questo è vero anche per l'esperienza di Ronaldinho al Milan. Ho pensato quindi che fosse utile raccontare le sue stagioni in rossonero, così che anche chi non lo ha visto giocare possa godersi i reel su Instagram senza farsi prendere in giro.

La prima stagione di Ronaldinho in rossonero

Dell’approdo di Ronaldinho a Milanello si parlava già un paio d’anni prima dell’acquisto ufficiale, dalla stagione 2006/07 per la precisione. Con il Mondiale in Germania era iniziata la decadenza del brasiliano, appena ventiseienne. Ronaldinho, chiamato a guidare la Seleçao, aveva floppato e anche a Barcellona si iniziava a dubitare di lui. Si parlava di litigi con Eto’o e in molti iniziavano a discuterne lo stato di forma.

Nelle televisioni italiane, la voce di un interesse in via Turati diventava un tormentone. Galliani, sempre diplomatico e attento a non infastidire club amici, diceva che un approccio ci sarebbe stato solo qualora fosse andato via da Barcellona. Roberto de Assis, procuratore dell’allora milanista Ricardo Oliveira nonché fratello di Ronaldinho, non faceva che confermare: «Non credo che un club come il Barcellona decida di privarsi di Ronaldinho, ma posso dire questo: se andrà via da lì, verrà sicuramente al Milan».

Così, in un paio d’anni l’acquisto di Ronaldinho si concretizza, accelerato da una serie di fattori. Messi era diventato sempre più decisivo, già dai tempi di Rijkaard, e inoltre il suo posto sulla sinistra lo aveva preso il nuovo acquisto del Barcellona, Thierry Henry. Nell’estate 2008, poi, l’arrivo di Guardiola aveva chiuso definitivamente le porte al brasiliano.

Quando Ronaldinho sbarca a Malpensa, il Milan di Ancelotti ha appena vissuto la sua peggior stagione. Da campioni d’Europa in carica, i rossoneri sono stati sbattuti fuori dalla Champions League agli ottavi di finale e hanno chiuso il campionato addirittura al quinto posto. L’Inter è padrona assoluta della Serie A e Moratti si è anche assicurato l’ingaggio del miglior allenatore al mondo, José Mourinho. Con queste premesse, le prospettive per i tifosi del Milan non sono certo delle più rosee, anche perché Berlusconi ha già chiuso i rubinetti e da anni i rossoneri giocano un ruolo minore in sede di mercato.

Nonostante questo, però, basta il solo nome di Ronaldinho a riaccendere l’entusiasmo. Già da un paio di stagioni non è più il calciatore migliore al mondo, ma è anche vero che, se in giornata, nessuno riesce a giocare come lui. Così, nonostante siano lontani i fasti di un tempo e nonostante le recenti delusioni, il Milan nell’estate 2008 si afferma di gran lunga come la squadra col maggior numero di abbonati in Serie A: quasi 43.000, contro i 38.717 della seconda in classifica, l’Inter, che pure di motivi per suscitare più entusiasmo rispetto ai cugini ne avrebbe eccome.

È l’estate della speranza per la San Siro rossonera, perché oltre a Ronaldinho la società puntella la squadra con altri acquisti interessanti: un titolare dell’Arsenal come Flamini, accompagnato dallo svizzero Senderos; un campione del mondo come Zambrotta e, infine, il ritorno di Shevchenko. Galliani, compiaciuto per la campagna acquisti, scarica tutta la pressione sulle spalle di Ancelotti: «Credo che Ancelotti debba essere molto contento del mercato e ora sono problemi suoi perché deve vincere lo scudetto. Questo è un messaggio per i naviganti».

Non sarebbe stata l’ultima volta che l’amministratore delegato rossonero avrebbe rimesso nelle mani dell’allenatore le ambizioni di vincere lo scudetto nonostante una rosa poco più che mediocre (lo avrebbe fatto anche con Allegri quattro anni dopo, nella prima vera stagione di banter era, all’indomani del roboante acquisto di Nigel de Jong). Che quel Milan potesse competere con l’Inter di Mourinho per lo scudetto, però, era pura utopia. Soprattutto con Ronaldinho in campo.

L’avventura del brasiliano non inizia neanche male. Dopo un naturale periodo di ambientamento, Ronaldinho si sblocca a fine settembre nel derby, grazie a un colpo di testa arrivato al culmine di una triangolazione lunga con Kakà, partita con un suo lancio lungo e conclusasi con il cross del numero ventidue per il suo inserimento sul secondo palo. Tempo un paio di giornate e Ronaldinho replica lo show a San Siro, con una doppietta nella vittoria per 3-0 sulla Samp.

Finalmente sembra essere risorto uno dei migliori calciatori al mondo, perché a novembre Ronaldinho prende per mano la squadra con quattro gol in cinque gare di campionato.

In realtà è solo un fuoco di paglia. Da lì in avanti il suo idillio con Ancelotti si spezza. È poco continuo il Milan, che continua a perdere punti sull’Inter e si fa scavalcare anche dalla Juventus di Ranieri. Da dicembre in poi Ronaldinho smette di segnare e da gennaio, dal pareggio per 2-2 in casa della Roma, diventa una riserva di lusso.

Perché l’illusione di godere di un Ronaldinho competitivo è durata così poco? C’entrano lo stato di forma e di fiducia del brasiliano, certo, ma anche la gestione del Milan di quel periodo: i rossoneri conservavano ancora parte del patrimonio che li aveva resi il «clœb più titolato al mondo», come amava sbandierare Galliani, ma avevano iniziato ad accelerare il processo che avrebbe condotto dritti dritti al decennio nero del club (il periodo 2012-2020 per intenderci).

Non c’era visione, non c’era strategia, si procedeva per occasioni, convinti che bastasse chiamarsi AC Milan per sopravvivere ai livelli più alti.

Così, quando a metà dicembre Gennaro Gattuso si rompe il crociato, la società pensa: perché non sostituirlo con David Beckham? Il motore aveva smesso di funzionare, ma invece di ripararlo il Milan aveva pensato di aggiungere un altro strato di vernice alla carrozzeria, per usare una metafora con cui Zidane aveva descritto il Real Madrid dei “Galácticos”.

Con i soli Pirlo e Ambrosini davvero affidabili a centrocampo e con un reparto offensivo composto da Kakà, Ronaldinho, Beckham, Pato, Inzaghi e Borriello, senza considerare il derelitto Shevchenko, Ancelotti deve ingegnarsi per trovare la formula giusta. E quella formula la trova lasciando in panchina Ronaldinho.

Dopo pochi giorni dal suo arrivo a Milano, Beckham viene reinventato centrocampista: grazie all’intelligenza e al piede dell’inglese, l’esperimento funziona. Ancelotti è sempre stato un allenatore attento a bilanciare le caratteristiche dei suoi campioni. Ha sempre favorito il talento, ma senza mai rinunciare ad un certo equilibrio. Beckham al posto di Gattuso, in questo senso, rendeva meno sostenibile la presenza di Ronaldinho. A determinare in maniera definitiva la sua esclusione, però, non è stato tanto l’inserimento dell’inglese quanto le caratteristiche di Kakà, che nel 2009 era ancora il miglior giocatore al mondo dopo Cristiano Ronaldo e Messi.

Il Ronaldinho del Milan era già un giocatore lento e poco mobile, che voleva solo ricevere sui piedi per dribblare rientrando sul destro: per questo aveva bisogno di gravitare sul centro sinistra. Al contempo, quello era lo spazio vitale di Kakà, in cui poteva sprigionare la sua tecnica in movimento. Non è un caso che le migliori partite del numero ventidue, quell’anno, siano arrivate quando Ronaldinho si è accomodato in panchina.

L’intuizione di Ancelotti ha permesso ai tifosi rossoneri di godersi un ultimo grande Kakà e, in generale, ha dato un senso a quel Milan in cui la fama dei giocatori sembrava dover essere più importante del responso del campo. Dietro la scrivania, infatti, la presidenza era a dir poco infastidita della scelta di privarsi di Ronaldinho. Berlusconi ha sempre avuto lo spirito del collezionista d’arte nel portare i giocatori a San Siro, e Ronaldinho, per lui, rappresentava il pezzo pregiato di quel Milan, anche più di Kakà.

La società, almeno davanti ai microfoni, era convinta che quella rosa fosse costruita per la vittoria e che l’aggiunta di Ronaldinho bastasse per competere con l’Inter. Così, mentre si trovava in Egitto nelle vesti di Presidente del Consiglio, Berlusconi si era lasciato scappare una battuta, ripresa prontamente da Repubblica: «È colpa di Ancelotti se il Milan ha perso lo scudetto. Con gli uomini che abbiamo, potevamo tranquillamente tenere testa all'Inter», avrebbe detto.

Il fatto che Berlusconi potesse giudicare in maniera sprezzante l’operato dei suoi allenatori non era certo una novità. Del resto, Ancelotti stesso era abituato ad assecondarlo a parole, aveva imparato a confrontarsi con un carattere simile. Dopo quella stagione, però, la misura era colma. Da lì a qualche mese Ancelotti avrebbe lasciato il Milan dopo sette anni e si sarebbe trasferito al Chelsea. Era chiaro che dirigenza e squadra, ormai, non erano all’altezza delle sue ambizioni. Ancorato al passato per incapacità di rinnovarsi, o forse per l’impossibilità di farlo a livello economico, il Milan era una squadra di grandi nomi, ma senza nessuna sostanza. L’acquisto di Ronaldinho, anche più di quello di Beckham, ha certificato in maniera definitiva la piega presa dalla storia del Milan in quel tornante, ed era normale, allora, che Ronaldinho fosse il fattore in grado di accelerare la separazione tra Ancelotti e Berlusconi.

A campionato in corso, in un’intervista concessa a Vikash Dhorasoo su SoFoot, il tecnico di Reggiolo aveva esposto senza mezzi termini i problemi del brasiliano, ormai inadeguato ai massimi livelli: «Giocatori come lui basano tutto sul talento. Ho allenato molti grandi giocatori e la maggioranza pensa di fare la differenza solo con il talento. Non è vero. Nel calcio moderno se non hai una buona condizione fisica e non lavori in allenamento è più difficile brillare in partita».

Non era il solo a pensarla così, e anche uomini da sempre vicini a Berlusconi esprimevano giudizi simili. Suo figlio Pier Silvio, ad esempio, si era da sempre dichiarato contrario all’acquisto del brasiliano: «Sin da quella trattativa sostenevo che bisognava rinforzare difesa e centrocampo e rimango di quell'idea».

Arrigo Sacchi, che di certo non si risparmia quando c’è da bastonare il talento, in un’accorata lettera a Berlusconi sulla Gazzetta dello Sport aveva pregato il Presidente di non addebitare gli insuccessi di quella stagione ad Ancelotti. Erano altri i colpevoli, scriveva con penna acuminata, pur senza fare nomi: “Lei ha sempre avuto un debole per le mezze punte: in generale dei solisti abili e con talento, ma con scarsa partecipazione, entusiasmo e continuità. Il solista si salva sempre ma la squadra difficilmente vince il campionato […]. Il Milan possiede qualità tecniche straordinarie, ma non sempre completate da qualità atletiche e morali”.

Che Berlusconi cambiasse idea, però, era impossibile, tanto più dopo l’addio di Ancelotti. Così, la metamorfosi di Leonardo da dirigente ad allenatore poteva essere l’occasione per rilanciare Ronaldinho. Kakà si trasferiva al Real Madrid, un anno in più aggiungeva un ulteriore strato di ruggine sui campioni del vecchio Milan, ma, nelle parole del Presidente, riportare Ronaldinho al centro del progetto doveva essere l’idea vincente per la stagione 2009/10.

«Ronaldinho è stato usato per pochi minuti quest'anno e questo ha provocato anche una caduta del morale del giocatore», lo giustificava Berlusconi. «Ma pensate che bello avere Ronaldinho per novanta minuti in campo: il biglietto si paga per giocatori così».

Non erano solo dichiarazioni di facciata.

Il 4-2-fantasia

Inizia il ritiro della stagione 2009/10 e il Presidente, di fronte alla squadra, investe il brasiliano del ruolo di guida tecnica. In una di quelle scene surreali a cui ci avrebbe abituato nel suo ultimo periodo alla guida dei rossoneri, a Milanello, nella sala del camino, Berlusconi fa sedere in circolo i giocatori e invita Ronaldinho a salire in piedi su un tavolino al centro della stanza. «Ronaldinho, tu sei un campione. Adesso devi promettere davanti ai tuoi compagni che ti comporterai da professionista per tutta la stagione e farai ogni cosa per trascinarli alla vittoria», gli avrebbe intimato secondo le cronache dell’epoca. Pare addirittura che il brasiliano si sarebbe commosso.

In effetti, Ronaldinho mantiene la sua promessa. Nella stagione con Leonardo, senza più Kakà tra i piedi, si piazza da ala sinistra del 4-2-fantasia, non si sposta mai dalla sua mattonella, ma dipinge giocate sensazionali ogni domenica. Da fermo Ronaldinho può inventare qualsiasi cosa, che si tratti di un dribbling o di mandare in porta i compagni. La simbiosi tra i suoi lanci dalla sinistra e i tagli di Pato dalla destra è letale. Grazie alla sua visione di gioco Marco Borriello diventa finalmente un attaccante all’altezza del Milan e segna 14 gol in 29 presenze.

Forse la miglior prestazione di Ronaldinho in Italia. Quella domenica il Milan di Leonardo aveva creduto di poter lottare con l’Inter per lo scudetto.

La sua centralità, però, diventa un riflesso del ridimensionamento del Milan. Lo show di Ronaldinho va in onda solo contro le medio-piccole del campionato, o contro una grande in rovina come la Juventus di Ferrara e Zaccheroni. La realtà è che il prezzo da pagare per godere dei suoi ultimi lampi è la competitività del Milan. Al derby di ritorno, quando la squadra di Leonardo avrebbe una remota di possibilità di inserirsi nel discorso scudetto battendo l’Inter, Ronaldinho e il Milan giocano in maniera desolante. È il derby vinto dall’Inter in nove uomini, in cui Ronaldinho, alla fine, si fa anche parare un rigore da Júlio César.

In Champions League, agli ottavi di finale, Ronaldinho apre le marcature contro il Manchester United, ma è solo un’illusione, perché la squadra di Ferguson tritura senza sforzo i rossoneri. Il 4-2-fantasia, anche per via della posizione di Ronaldinho da ala sinistra, non si regge in piedi, imbarca transizioni in maniera spaventosa e Rooney si abbatte come un ciclone su una squadra troppo leggera per sopravvivere ad alti livelli.

Quel modo di giocare, insomma, andava bene giusto per divertirsi di tanto in tanto la domenica, ma non poteva essere quella l’ambizione di una società grande come il Milan.

L’addio

Così, anche per incomprensioni con la dirigenza, l’esperienza di Leonardo dura appena un anno. Al suo posto Galliani sceglie Massimiliano Allegri, giunto a Milano col merito di aver reso il Cagliari una delle squadre più belle da vedere della Serie A (come cambiano i tempi). Il tecnico livornese sarebbe riuscito ad adattare Ronaldinho al ruolo di trequartista nel suo 4-3-1-2 come aveva fatto con Cossu in Sardegna?

Evidentemente no, se già da giugno si parlava di un suo possibile trasferimento al Flamengo. Sin dall’inizio Allegri non sembra proprio innamorato del brasiliano, anche se per Berlusconi continuava a rimanere il vero tesoro del Milan: «Ronaldinho è in assoluto il numero uno nella storia del calcio. Finirà la sua carriera al Milan, nessun problema per il contratto».

All’inizio, in mancanza di alternative dal mercato, Allegri si adegua e prova a reinventare Ronaldinho secondo le sue idee. Poi, però, in un ultimo sussulto di grandezza, Galliani imbastisce la trattativa per portare lo scontento Ibrahimović da Barcellona a Milano. Nel giro di un paio di giorni, "il Geometra" non solo si era assicura lo svedese, ma gli affianca anche Robinho.

Sono anni in cui in Serie A la sola presenza di Ibrahimović basta a garantirsi il ruolo di favoriti per lo scudetto e a quel punto le prospettive per il Milan cambiano radicalmente.

Allegri, poi, ha la capacità di ridare smalto a campioni che sembravano consunti: Gattuso, Ambrosini e Seedorf raccolgono le forze per l’ultimo grande ballo in rossonero. Con una colonna vertebrale ritrovata e con Ibrahimović davanti, per imporsi in campionato basta garantirsi solidità: Allegri la trova rinunciando ai due giocatori meno atletici in rosa, Pirlo e Ronaldinho.

La svolta arriva a novembre. Col brasiliano di rientro da un infortunio, al San Nicola, in un insidioso Bari-Milan, Allegri vara la formazione più reazionaria possibile: un 4-3-1-2 col terzetto di centrocampo costituito da tre incontristi puri, Flamini, Ambrosini e Gattuso.

È una sorta di manifesto di come il Milan avrebbe vinto lo scudetto. E anche quando rinuncia a uno dei mediani per inserire Seedorf da mezzala, per Allegri i giocatori deputati a occupare la trequarti sono un incursore come Boateng o un giocatore sempre generoso in fase difensiva come Robinho, non di certo Ronaldinho.

Prima della gara di Bari, il brasiliano poteva essere considerato un titolare. Dopo quella partita, difatti, scompare. Rimane a prendere freddo per 90’ in un derby vinto 1-0 grazie a un rigore di Ibrahimović. In casa della Sampdoria, sul punteggio di 1-1 e con la necessità di trovare il gol vittoria, Allegri lo inserisce solo al 90’, concedendogli appena appena un minuto. Una scelta che scatena polemiche, una mortificazione per la quale Allegri si sente in dovere di chiedere scusa: «Non volevo umiliare Ronaldinho», dirà nella conferenza stampa successiva.

Tutte soluzioni drastiche ma necessarie: quel Milan arrivato a fine corsa, se voleva avere un’ultima occasione per vincere, non se lo poteva proprio permettere un fuoriclasse imbolsito come Ronaldinho, più bello che utile a quel punto.

Di quella stagione, come vestigia della sua grandezza, rimangono le partite contro l’Auxerre nei gironi di Champions League e un paio di trascurabili gare di Serie A contro Lecce e Chievo, in cui la palla tra i suoi piedi sembrava sciogliersi in un’intimità che non poteva concedere nemmeno a campioni come Ibrahimović e Robinho.

Con l’arrivo del mercato di gennaio, Ronaldinho sarebbe tornato a casa sua, in Brasile (dove avrebbe giocato un'incredibile partita con il Santos di Neymar, tra le altre cose). Il Milan, intanto, lo aveva rimpiazzato con Antonio Cassano, decisivo con i suoi assist in tanti crocevia scudetto in cui il Milan di Allegri non sembrava proprio avere idea di come riuscire a fare gol.

La vittoria del campionato, però, sarebbe stata solo un’illusione. L’arrivo di Conte alla Juventus avrebbe cambiato la storia della Serie A. L’addio di Ibrahimović un anno e mezzo dopo, invece, avrebbe rivelato quanto fossero fragili le fondamenta su cui Galliani e Berlusconi avevano costruito l’ultimo Milan capace di conquistare lo scudetto.

Lo svedese aveva nascosto i difetti di una gestione che non aveva saputo sopperire con la fantasia, con la competenza e con logiche nuove alle ristrettezze economiche degli ultimi anni di presidenza Berlusconi: a posteriori, l’acquisto di Ronaldinho e la sua epopea a San Siro sarebbero diventati una fotografia di tutto ciò che c’era di sbagliato in quel Milan crepuscolare.

Rimarranno, comunque, i momenti di pura magia, quelli che giustificano ancora oggi la popolarità sui social network del brasiliano con il numero ottanta e la maglia rossonera. Attimi di sospensione dell’incredulità, che hanno ispirato Galliani, parlando della sua cessione, a racchiuderne il talento in una metafora impareggiabile: «Riportarlo in Brasile, al Flamengo, riconsegnarlo al sole, al mare, ai suoi tamburi, è stato come riapprendere un capolavoro alla parete di un museo. Stava bene lì».

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