In principio fu Ronaldinho e le sue quattro traverse. Era vero? Non era vero? Se avevate una connessione internet nell'estate del 2005 è probabile che per la prima volta vi siete fatti la domanda che oggi vi fate quasi ogni giorno navigando in rete. Non che fosse la prima pubblicità della Nike in cui grandi giocatori eseguivano giocate assurde - un universo di possibilità nato nel 1996 con Cantona e soci che combattevano il male e che ha toccato il suo picco con il Brasile e la samba in aeroporto - ma era la prima volta che i pubblicitari del marchio di scarpe più famoso al mondo non stavano provando a vendere una bella storia confezionata, quanto piuttosto un momento di vita vera.
Ricapitolo velocemente per chi non sa di cosa sto parlando: un impiegato della Nike si presenta al campo di allenamento del Barcellona con una valigetta dorata e la porge a Ronaldinho, che se ne sta seduto sull’erba coi suoi tristi scarpini neri. Il brasiliano la apre e dentro ci trova un nuovo paio di Nike Tiempo bianco e oro che indossa con calma, mentre la telecamera lo riprende. Conclusa l’operazione si alza e inizia a prendere confidenza con il nuovo strumento: raccoglie un pallone, Nike anche quello, e inizia a palleggiare con quel misto di pigrizia e sinuosità che aveva lui - immagino lo abbia anche oggi - mentre cammina verso la zona centrale del limite dell’area di rigore. Come colto da un lampo con un palleggio si aggiusta il pallone e poi di mezzo collo al volo lo calcia in porta. Il pallone prende la traversa e gli torna sul petto come fosse un boomerang ben lanciato. Altri due palleggi, un terzo per trovare la coordinazione e poi di nuovo un tiro al volo verso la porta, ancora traversa, ancora una volta il pallone torna indietro sul petto del brasiliano, in maniera impercettibilmente meno precisa.
La telecamera intanto allarga il campo come non stesse davvero riprendendo un momento insensato di calcio. Ronaldinho - ora più distante -non si scompone: con dei piccoli colpetti si aggiusta il pallone sulla testa, lo tiene un po’ lì, tipo foca, poi lo lascia cadere per calciarlo di nuovo in porta. Di nuovo traversa. Di nuovo il pallone gli torna indietro. Questa volta lo controlla con la coscia, male, e allora deve allungarsi per continuare a palleggiare al volo, perché finora la palla non ha mai toccato terra. Altri sei palleggi e poi, di nuovo, un tiro in porta; di nuovo, una traversa. Di nuovo: la palla che gli torna docile sul corpo.
A questo punto Ronaldinho continua a palleggiare come se niente fosse, come se davvero non stesse recitando per uno spot della Nike, ma piuttosto cazzeggiando nei minuti che anticipano l’inizio di un allenamento. La telecamera stringe su di lui, come stupita, e riprende bene gli scarpini - che sarebbero il prodotto - ma anche Ronaldinho, il miglior giocatore al mondo, che è il vero prodotto, con la sua maglia smanicata fluo del Barcellona, i calzoncini arrotolati e la catena d’oro con la grande R al collo, in un’estetica particolarmente tamarra durata il giro di qualche estate e che vedeva in lui e Rafa Nadal i due più grandi interpreti. Il tutto si chiude con il brasiliano che raccoglie il pallone tra i piedi e, imitando qualche dribbling, torna dall’addetto Nike per dargli un bel cinque pieno di soddisfazione, a indicare il successo delle sue nuove scarpe.
Non sono qui per fare una lezione di web marketing, vi basti sapere che nel momento dell’uscita di questo spot - uscito solo online - YouTube era nato da appena 5 mesi e che questo fu il primo video caricato sulla piattaforma a raggiungere il milione di visualizzazioni. Quello che mi interessa, invece, è il dibattito, la capacità degli atleti di instillare in noi il dubbio massimo, la possibilità dell’eccezionale. Nessuno crederebbe mai che le guerre stellari siano davvero avvenute, ma in molti hanno creduto che Ronaldinho avesse preso quattro traverse di seguito senza far cadere il pallone a terra.
Forse era ingenuità pre-internet 2.0, ma nelle scuole, tra i banchi, nelle piazze, per la strada, tra noi amici che scroccavamo la connessione durante l’ora di scienze il dibattito impazzava. La divisione era fondamentalmente tra chi sosteneva che sì, è tutto vero, ma che non l’hai visto quello che sa fare con un pallone? E chi diceva che no, ma figurati si vede lontano un miglio che c’è il trucco. Solo oggi capisco che questa dicotomia non ci divideva tanto in chi aveva ragione e chi torto (era davvero importante?) ma tra chi era disponibile ad attivare il meccanismo della sospensione dell’incredulità nello sport e chi no.
Se Ronaldinho può fare questo gol (e molte altre cose), perché non può prendere quattro traverse al volo? Se Beckham aveva quel piede destro, perché non potrebbe aver infilato tre palloni in tre diversi secchioni distanti una trentina di metri sulla spiaggia? E quanto è importante, poi, che prima di farlo e dopo aveva una lattina di Pepsi in mano?
C’è qualcosa di consolatorio in questi video, qualcosa che ci fa accettare che siano falsi, perché vengono da chi un tipo di magia simile - solo meno truccata - ce la fa vedere a giorni alterni. Queste pubblicità calzano sempre il profilo che le interpreta. Ronaldinho è la magia dell’improbabile, Beckham la precisione del calcio, Roger Federer il Guglielmo Tell del tennis. Guardate quanto rappresenta bene il Roger Federer ideale questo video dietro-le-quinte di Gillette in cui non si parla né di lamette né di barba.
«Decidete voi se è vero o falso» è stata la risposta del marchio a chi chiedeva numi, con la boria di chi ha capito che nel mondo di oggi (o almeno, il mondo di qualche anno fa, ora la situazione sembra ancora cambiata con i reel e gli influencer) la viralità è più importante del prodotto ben inquadrato. Vale allora la pena controllare un “vero” backstage di una pubblicità sportiva per capire perché a qualcuno viene da chiedersi se davvero Roger Federer vestito da matrimonio avesse deciso di mettere una piccola borraccia sopra la testa di un assistente qualunque per poi tentare di colpirla con un servizio che - mediamente - viaggia a 200 chilometri orari. Prendiamo la pubblicità Ninja Football Fight, non una delle più riuscite, ma insomma. Si trova online un backstage e bastano pochi secondi per capire che - prima ancora di avere a che fare con il CGI - i calciatori hanno un rapporto col pallone così diverso dal nostro, così intimo e aperto all’impossibile da permettere ai pubblicitari di prenderci in giro, ogni tanto.
Superate un giovane Caressa e aspettate Edgar Davids a 00:26.
Tornando dai veri ai “finti” backstage, forse il peggio riuscito è quello di Kakà per Ringo. Il brasiliano ha appena vinto il Pallone d’Oro dopo una stagione incredibile ed è idolatrato come un Dio. Non è solo il calciatore più forte del mondo, ma è anche bello e bravo, la faccia pulita in un mondo sporco. Ringo lo mette a palleggiare vestito come un liceale timido che all’improvviso diventa un cigno. Un bambino gli lancia un secondo pallone e lui inizia a palleggiare con due palloni. Una scelta di rottura che però appare molto poco naturale. Se, idealmente, possiamo credere che qualcuno colpisca quattro traverse o centri un secchio distante trenta metri, l’immagine di Kakà che palleggia con due palloni come se fosse uno (ovvero senza neanche lo sforzo problematico di gestire due piedi impegnati in due attività diverse) sfiora il ridicolo. Ridicolo che poi verrà superato dalla versione in cui palleggia col cellulare.
Gli fanno rompere anche un riflettore, per la serie Kakà eterno bambino.
Anche nel non-reale, insomma, c’è bisogno di uno sforzo di credibilità, sia nell’ideazione (pensare a dei trick in qualche modo plausibili) sia nella realizzazione (mettere due palloni che si muovono sempre uguali su e giù non è il massimo). Da questo punto di vista uno dei video virali di atleti che fanno cose improbabili più riusciti - per successo e atmosfera - è quello di Kobe Bryant che salta una Aston Martin DB9. L’incipit è simile al video di Ronaldinho: il “Black Mamba” è in un parcheggio su un tetto - circondato da palazzi - e ha in mano le nuove Nike Hyperdunk Kobe Away. Avvicinandosi alla telecamera ci invita a non provare a casa quello che sta per fare. Lo spirito è scanzonato, lo slang più strascicato. Kobe si cambia le scarpe, si piazza al centro della scena e quando, anticipata dal rombo del motore, la macchina sbuca a tutta velocità da sinistra la salta sul posto. Dopo grandi esultanze.
È un video obiettivamente fico, come poteva essere fico uno degli atleti più fichi sulla faccia della terra anche mentre ti stava vendendo un paio di scarpe, ma non aveva particolari fisime di credibilità. Possiamo davvero credere che Kobe Bryant, in quel momento a libro paga per i Los Angeles Lakers per oltre 17 milioni di dollari, potesse davvero mettersi a saltare una macchina con tutti i rischi per la sua incolumità (al massimo possiamo credere che sia saltato di lato rispetto alla macchina)? Però può sembrare vero. Una tv locale è arrivata a contattare un professore di fisica per chiedergli se era possibile per un uomo saltare un'auto in corsa. Il professore si era detto possibilista, sottolineando come nel video, Kobe mantenga una postura e un salto molto “dritto per dritto”, che gli avrebbe permesso di saltare davvero quella Aston Martin.
È la viralità della viralità. In questi casi, in risposta a questi video, non è importante trovare una risposta, perché la risposta è sempre e solo una, ma cavalcare l’onda, fare parte del dibattito, sia che si voglia stare dalla parte degli scettici che in quella dei fedelissimi. Qualcuno è arrivato ad accusarlo di essere un cattivo esempio - fosse mai qualche ragazzino pensasse di imitarlo provando a saltare una Toyota Corolla. Ci aveva pensato lo stesso giocatore, a un giornalista che gli aveva chiesto come aveva fatto a saltare una macchina senza rischi per la propria incolumità, a rispondere in maniera molto poco criptica: «It's Hollywood, baby. Se Rambo può impegnare un intero esercito, io posso saltare oltre una Aston Martin».
E non è un caso se questo filone di pubblicità che non sono pubblicità, ma poi in fondo lo sono, sia stato esplorato con dovizia dagli sport americani. C’è Sidney Crosby che con una mazza da hockey e un disco smonta una piramide di dischi, un catcher del baseball che si inventa portiere fenomeno dell'hockey bendato, questo particolarmente finto e molti altri. Addirittura possiamo identificare il diverso modo in cui due marchi di bevande energizzanti diversi hanno trattato lo stesso tema. Powerade va su una leggera variazione sul tema dietro-le-quinte, inscenando una troupe giornalistica intenta a preparare un servizio mentre alle sue spalle si allena un giovanissimo LeBron James. Sullo sfondo veniamo distratti da un piccolo boato di eccitazione, prontamente il cameraman sposta l’inquadratura sul numero 23 dei Cleveland Cavaliers e si trova a riprendere “per caso” una serie di 5 tiri consecutivi a segno da poco dentro la linea da tre punti. Niente di strano, penserete voi, ancora non era arrivata la scure contro il long-two, ma il fatto è che James sta tirando all’altro canestro, quello distante una trentina di metri da lui (Powerade fece una cosa simile anche con Michael Vick, intento a lanciare palloni da football in maniera così violenta da buttare in terra i ricevitori come fosse un hadouken e poi direttamente fuori dallo stadio).
Gatorade invece sceglie la strada opposta. Non immortalare un momento apparentemente privato di meraviglia, ma intrufolare dell’improbabile in un momento apparentemente reale. Si sta giocando una partita di baseball in qualche lega minore e su una palla battuta troppo lunga per tutti i giocatori in campo si avventa una ball girl - i raccattapalle del baseball - che arrampicandosi felina su di un muro a angolo la raccoglie al volo. Poi come se niente fosse torna a sedersi al suo posto mentre i tifosi e i giocatori la acclamano, ai suoi piedi una bottiglia di Gatorade. Anche noi esseri umani normali possiamo fare cose eccezionali (è uno dei sottotesti dei video che vediamo ogni giorno su internet).
Il baseball, forse per la velocità e la misura della palla, si presta molto a questa tipologia di video. Se la presa telepatica di Evan Longoria (da non confondere con Eva Longoria) a salvare la vita della giornalista quasi anticipa i reel di momenti “epici” che negli ultimi anni ci siamo trovati a scrollare sempre più spesso, sarà difficile battere la finezza della pubblicità della Didibao. Un battitore coreano si oppone al lancio di un lanciatore giapponese andando a intercettare la palla almeno due passi oltre il piatto. Dopo l’impatto la palla schizza e diventa un impossibile home run. Subito dopo appare la scritta “Always Be Humble”, seguita dal marchio Didibao. Solo che qui a essere finta non è solo la giocata del battitore, ma anche il marchio di scarpe non esiste: è tutta finzione.
Tanto rapidamente sono comparsi, tanto rapidamente questi video sono scomparsi. Difficile mettersi a discutere i cicli del marketing, ciò che vende oggi non vende domani, è una regola aurea e il suo funzionamento è uno dei segreti di questo mondo, ma certo - mi sembra - c'entri anche un po’ come è cambiato il nostro modo di fruire i contenuti. Ora tutti abbiamo una videocamera in tasca e ogni cosa è potenzialmente un dietro-le-quinte, che senso ha crearne di finti per stuzzicare la nostra fantasia (e la nostra fame di acquisti)? Bombardati da sempre più video, sempre più incredibili, sempre più brevi e sempre meno credibili, abbiamo anche perso quel senso di meraviglia. Quando la Pepsi ha provato a rispolverare questo genere di contenuti nel 2019, prendendo il calciatore più forte del mondo e facendogli realizzare brevi trick di ogni genere, più o meno editati, la reazione è stata blanda. Se 13 anni prima Ronaldinho aveva creato una nuvola di magia intorno alle sue 4 traverse, l’idea che Messi possa calciare un pallone con sopra una bottiglietta di Pepsi e che questa dopo due giri possa riatterrare in piedi (mentre il pallone si infila in un cerchio) non stupisce più nessuno. Non ci si impegna neanche più a cercare una storia tra trick ed esecutore. Siamo sicuri che queste siano le cose più Messi da far fare a Messi?
Anche le reazioni sono passate da uno stupore ingenuo a un puntiglioso accademico. Gli utenti rispondo a questi video scrivendo frasi tipo “guardate i dettagli, da lì si capisce che è falso” oppure solo con l’acronimo CGI (che tradotto letteralmente significa "immagini generate al computer"). I
L’ultimo guizzo, arrivato in estate, apre un nuovo capitolo in questa storia, che potremmo chiamare “storia dei trick che non lo sono”. Questa volta non c’è un marchio che vuole vendere scarpe o bevande, ma uno sportivo che vuole vendere se stesso. Non è però qualche giovane rampante che sta cercando una scorciatoia verso la fama, al contrario è uno degli atleti più conosciuti al mondo. Dopo aver vinto il Super Bowl a 43 anni con una nuova maglia, Tom Brady ha pensato servisse comunque una scintilla per presentare la stagione ai suoi tifosi. Come se dovesse dimostrare qualcosa a qualcuno, si fa riprendere mentre lancia per tre volte un pallone da football tra le due ruote di una jug machine, quelle macchine che sparano palloni da football come fossero il braccio di una persona. Abbattendola con l’ultimo lancio (in questa eterna tensione tra violenza e precisione del football americano).
Tom Brady già di suo non sembra vero: un quarterback di 44 anni con la faccia da attore di rom-com di basso livello e la storia sportiva che neanche a scriverla viene così bene. Poi se, di sua volontà, si mette a tirare palloni in uno spazio più stretto del pallone stesso, che dobbiamo pensare? Vero e falso ormai sono mischiati in maniera sempre più organica, così tanto che non ci importa più piazzare un confine. Se una volta un'illusione un po' fanciullesca dell'impossibile che diventava possibile era l’aspetto che ci attirava di questi video, oggi internet non è più un posto per le illusioni. Il dubbio è segno di debolezza e i marchi non possono essere deboli, noi nemmeno. Per fortuna ci resta Ronaldinho e le sue quattro traverse. Vere o non vere non importa, l'importante è che abbiamo visto giocare un brasiliano che ci ha illuso che fosse davvero possibile.