Se si escludono Messi e Ronaldo, non mi vengono in mente molti altri giocatori degli ultimi vent'anni che possono vantare una lista di record personali anche solo minimamente paragonabile a quella di Wayne Rooney. Non parlo solo dei cinque campionati vinti, della Champions League e del Mondiale per Club del 2008, delle quattro FA Cup, degli innumerevoli premi individuali, ma soprattutto del titolo di principale marcatore nella storia del Manchester United e in quella della Nazionale inglese, di quello di secondo marcatore nella storia della Premier League (dietro ad Alan Shearer), di quello di terzo assistman nella storia del campionato inglese (dietro a Ryan Giggs e Cesc Fabregas), e infine di quello di unico giocatore ad essere mai riuscito a segnare almeno 10 gol per 11 stagioni consecutive (dal 2004 al 2015). Anche io, leggendoli uno dietro l’altro, ho fatto fatica per un momento a credere che fossero davvero suoi, e ho controllato diverse volte alla ricerca di errori.
Nonostante l’evidenza statistica dica il contrario, però, mi sono reso conto di non essere l’unico ad aver inconsciamente escluso Rooney dai più grandi calciatori della sua generazione. In realtà, mi sembra che nella percezione generale Rooney faccia fatica ad entrare persino tra i migliori giocatori della storia del Manchester United. Il quotidiano Manchester Evening News, per esempio, lo mette solo all’ottavo posto, dietro, tra gli altri, a Paul Scholes, Duncan Edwards e Denis Law (uno che a fine carriera passò al Manchester City e segnò di tacco il gol decisivo per l’unica retrocessione nella storia del club dopo la Seconda Guerra Mondiale). Bleacher Report addirittura al 17esimo: sopra di lui non solo David Beckham ma anche Mark Hughes, Johnny Carey e Bill Foulkes. Nella breve descrizione che gli è stata riservata si legge: «Al netto dell’attuale infelice situazione riguardante il suo desiderio di lasciare il club [il pezzo è dell’agosto del 2013, ndr], Wayne Rooney è uno dei più grandi attaccanti della storia del Manchester United. Diciamo qualcosa dei suoi 197 gol e finiamola qua».
Forse ha ragione Bleacher Report nell’ammettere che è stata la sua vita fuori dal campo a intaccare il ricordo che abbiamo di lui, e quindi la sua legacy. Al di là degli innumerevoli scandali sollevati dai tabloid che hanno contraddistinto la sua carriera, più o meno squallidi e più o meno fondati, Rooney non ha mai avuto un rapporto facilissimo con i suoi tifosi. Né con quelli dello United, con cui ruppe forse irrimediabilmente quando nell’autunno del 2010 dichiarò di voler lasciare il club per ambizione prima di firmare un rinnovo di contratto. Né con quelli dell’Everton, che non gli perdonarono il suo passaggio allo United dopo aver mostrato la famosissima maglietta Once a Blue Always a Blue. Goodison Park lo ha fischiato fin dal primo ritorno con la maglietta del Manchester United nel febbraio del 2005, con un esplicito striscione con scritto “Once a blue now a red, in our hearts you are dead”, a cui Rooney, con un innato istinto conflittuale e autodistruttivo, ha risposto baciando per ben due volte lo stemma dei “Red Devils” (la prima volta, nell’aprile del 2007, addirittura dopo aver segnato il 2-4 della vittoria in casa dell’Everton).
A più di dieci anni da quegli eventi, con la carriera di Rooney ormai al tramonto, sarebbe però ingenuo pensare che possano avere ancora un’influenza sulla sua dimensione calcistica, sul suo posto nella storia. Nella stessa storia del Manchester United, per dire, sono stati diversi i giocatori leggendari che sono stati vicini all’addio o hanno spinto per essere ceduti per dissidi con i tifosi o motivi di ambizione personale (non solo Cristiano Ronaldo e Beckham, ma anche due giocatori che costantemente appaiono tra i più grandi nella storia dei Red Devils come Ryan Giggs e George Best). Ma tutti rimangono ben saldi al loro posto nella memoria collettiva.
A mio modo di vedere, per capire perché abbiamo deciso di ricordare Rooney in una certa maniera bisogna andare più a fondo. Per esempio a quella che doveva essere la sua ultima esperienza di gioco, in MLS, utile perché per i grandi giocatori al tramonto è dove di solito si inizia a fare il punto sulle loro carriere.
Il 12 agosto del 2018 i DC United si stanno giocando la loro ultima possibilità di andare ai play-off della MLS Cup. Al 95esimo stanno pareggiando 2-2 in casa con Orlando, che è 5 punti sopra in classifica, al decimo posto della Eastern Conference. DC United ha bisogno di una vittoria per rientrare in corsa, e gioca contro un avversario con un uomo in meno, ma ormai manca meno di un minuto. C’è un ultimo calcio d’angolo della disperazione e in area sale anche il portiere, il danese David Ousted. La traiettoria è alta e tesa, sembra andare proprio verso Ousted che però non ci arriva. Alle sue spalle c’è il difensore Kofi Opare che colpisce di testa in maniera scoordinata verso la porta, ma la palla viene spazzata via dall’uomo sul palo. Il rilancio diventa utile per l’unico giocatore di Orlando rimasto fuori dall’area, il canadese Will Johnson, che ha l’intero campo libero davanti a sé e la porta vuota. Johnson si guarda intorno mentre rincorre la palla, sembra non voler rischiare un tiro da centrocampo con il piede debole mentre dall’altra parte ha due compagni completamente liberi. Non si è accorto, però, che dietro di sé sta correndo come un forsennato Wayne Rooney, che sul calcio d’angolo era appena fuori l’area per tentare un tiro di ribattuta e adesso ha la testa bassa. Sta spingendo sulle gambe come se stesse scappando da un orso. Quando prova a rientrare sul destro per cambiare gioco è troppo tardi: Rooney sta già affondando il destro in scivolata in maniera talmente irruente e rovinosa che Johnson finisce letteralmente a gambe all’aria.
Mentre Johnson deve ancora capire esattamente cos’è successo, Rooney si rialza, torna palla al piede nella metà campo avversaria e alza la testa. Ci sono ancora diversi compagni in attacco dal calcio d’angolo precedente, sparpagliati sulla trequarti. Rooney ci pensa, poi quando sta per essere recuperato alle spalle lancia lungo sul secondo palo una palla alta e lenta che sembra dover finire tra le mani del portiere, che infatti esce. Quando è a metà strada, però, il portiere di Orlando si accorge di essere in ritardo: sul pallone si sta per lanciare Acosta, che salta altissimo, sopra la testa del diretto marcatore, e colpisce di testa, mettendo la palla nella porta ormai sguarnita.
Mentre lo stadio impazzisce e i giocatori si tuffano tra le onde umane della curva, la regia stacca dopo pochi secondi su Rooney che, con il volto svuotato dalla fatica, non riesce nemmeno ad alzare le braccia per esultare ed è costretto a piegarsi sulle gambe per riuscire a respirare.
È un momento che non avrà nessun effetto sportivo (i DC arriveranno ai play-off, ma usciranno al primo turno con Columbus), ma che rimarrà come copertina della breve esperienza di Rooney in MLS - il suo signature moment, come ha scritto il sito ufficiale della lega americana solo pochi giorni fa. Sarà questo il suo ricordo negli Stati Uniti: non uno dei 25 gol segnati (di cui uno da dietro la linea di centrocampo), non le decine di dribbling, non i numeri d’alta scuola. Questa scivolata.
I momenti che rimangono delle grandi stelle al tramonto in MLS e che a volte riescono anche ad attraversare l’Atlantico, a bucare il chiacchiericcio calcistico europeo di solito sono quelli che ricordano com’erano quei giocatori all’apice del loro splendore. È la nostalgia di quello che sono stati a lasciare il segno nella memoria collettiva. Parlo per esempio del tiro al volo da centrocampo di Ibrahimovic all’esordio con i Los Angeles Galaxy, oppure il tiro a virgola dalla trequarti di Beckham con il braccio sinistro alzato, o la punizione a giro dolce di Pirlo sopra la barriera dal limite dell’area (tutti gol che ho trovato immediatamente aggiungendo “mls” al loro nome nella query di YouTube). Sono momenti che restituiscono un’ultima volta la loro essenza, che ti fanno capire cosa significava avere Ibrahimovic, Beckham o Pirlo in squadra.
Per Rooney vale lo stesso. Se della sua esperienza americana è rimasto un recupero palla a perdifiato concluso da una scivolata è proprio perché anche quand’era all’apice della sua carriera (quindi, orientativamente, tra il 2008 e il 2011) veniva percepito esattamente come ciò che quella scivolata rappresenta. Quel giocatore, cioè, che al Manchester United veniva chiamato pitbull dai compagni (come ha ricordato Cristiano Ronaldo), che su YouTube ha le proprie compilation di falli come un interditore vecchio stampo, e che in una bizzarra serie di spot della Nike del 2008 veniva associato ai giocatori più cattivi della sua generazione come Gennaro Gattuso e Torsten Frings.
In un altro spot della Nike prodotto per i Mondiali del 2010 chiamato Write the Future e diretto da Iñarritu, per dire, Rooney è l’unico a commettere un errore tra alcuni dei più grandi calciatori della sua epoca. C’è Drogba che entra palla al piede in area e supera il portiere con uno scavino, Cannavaro che salva il pallone sulla linea in rovesciata, Ronaldinho che supera un avversario con un colpo di tacco al volo e poi si ferma per fare un doppio passo, Cristiano Ronaldo sulle punte che si appresta a battere una punizione delle sue. Rooney invece stoppa palla a centrocampo con il petto, poi alza lo sguardo e cerca una palla lunga, che però viene intercettata da Ribery. A quel punto l’universo prende una piega violenta in cui l’Inghilterra finisce in rovina e Rooney in disgrazia. Si vede la borsa crollare tra disordini di piazza, mentre lui finisce a fare il giardiniere e a vivere in una roulotte (un momento in cui Rooney, con la barba lunga mentre si apre una scatoletta di fagioli in una padella, sembra davvero un personaggio di un film di Iñarritu). È solo una realtà parallela, però: subito dopo vediamo Rooney di nuovo sul campo che abbassa la testa e spinge sulle gambe fino a raggiungere Ribery, rubandogli palla con una scivolata spettacolare. Si vede persino l’arbitro fare ampi gesti con le braccia a indicare che è stato un intervento duro ma regolare (qualcosa che non sempre ci si aspetta da Rooney, a quanto pare).
Insomma, l’immagine che ne esce è quella di un giocatore meno perfetto degli altri, uno che può sbagliare persino in uno spot, ma che non si risparmierà mai quando c’è da aiutare la squadra, sempre pronto a sporcarsi i pantaloncini con una scivolata. Un giocatore che non viene rappresentato per come tira o tratta il pallone, ma per come entra duro.
Ora ripensate per un momento alla lista di record individuali di Rooney e chiedetevi: è possibile far convivere questa immagine - l’immagine di un giocatore che sbaglia un lancio e affonda nel fango in scivolata - con quella di uno dei più grandi finalizzatori e creatori di gioco del calcio inglese senza fare un torto al ricordo di quello che Rooney è stato sul campo? Quanto la sua aura violenta e conflittuale ha finito per intaccare il suo valore calcistico?
Non fraintendetemi. Non voglio arrivare a dire che quel lato di Rooney non esistesse, che fosse pura invenzione pubblicitaria. Quella rappresentazione era ben fondata in episodi come quello che lo aveva coinvolto ai Mondiali del 2006 quando, dopo aver dato un pestone sui testicoli a Ricardo Carvalho che cercava di rubargli palla da dietro, aveva spintonato via Cristiano Ronaldo, allora compagno di squadra, che aveva richiamato l’attenzione dell’arbitro sul suo fallo (Rooney sarà espulso e l’Inghilterra in inferiorità numerica verrà eliminata dal Portogallo ai rigori). Quello che mi sto chiedendo è se quell’immagine abbia finito per farci sottovalutare la grandezza di Rooney in campo. Se non ci abbia portato a fraintenderlo, a farcelo sembrare un giocatore più sporco e meno tecnico di quanto in realtà non fosse.
Come ha raccontato The Athletic, è una questione che ha i caratteri del paradosso. Nonostante sia stato sempre considerato un giocatore estremamente intenso e duro senza palla, infatti, il declino fisico di Rooney è iniziato molto presto, un po’ per alcuni gravi infortuni che ne hanno ridotto la mobilità un po’ per una certa diffidenza verso il lavoro puramente atletico in allenamento. In questo senso, mi sembrano indicative le parole dell’ex preparatore atletico del Manchester United, Mick Clegg, secondo cui Rooney non vedeva alcuna utilità nell’allenamento in palestra e si volesse concentrare solo sul calcio. Nonostante sia generalmente ricordato per l’impegno senza palla e per la durezza delle entrate, in realtà Rooney ha finito per essere spostato nei ruoli più diversi del fronte d’attacco anche per evitare che il suo scarso dinamismo nel recupero palla intaccasse eccessivamente gli equilibri difensivi del Manchester United o dell’Inghilterra. Di fatto Rooney per molti anni ha mantenuto il posto da titolare in uno dei più importanti club del mondo non per il suo atletismo ma nonostante il suo atletismo. Ciò che lo teneva in campo, insomma, era quello che faceva con il pallone non quello che faceva senza.
Eppure mi sembra che anche prima del suo declino fisico, Rooney non fosse considerato sufficientemente grande. Di fatto, se si esclude alcune brevi parentesi (di cui una molto significativa tra il 2009 e il 2010 su cui torneremo più avanti), l’attaccante inglese dentro al Manchester United ha quasi sempre ricoperto il ruolo di attore non protagonista, tatticamente parlando. Prima a sostegno di van Nistelrooy, poi di Tevez, poi di Ronaldo, poi di Berbatov, infine addirittura del “Chicharito” Hernandez. Questo, in realtà, era anche un effetto collaterale della sua incredibile completezza. In un’epoca in cui la figura dell’attaccante-che-sa-fare-tutto non era ancora così di moda come lo è oggi, Rooney aveva una visione di gioco troppo raffinata per essere solo una prima punta, ma era anche troppo prolifico per essere solo un trequartista o una seconda punta, e si muoveva troppo bene in area per essere solo un’ala. E quindi cos’era Rooney? Per lungo tempo non lo si capiva nemmeno dal numero che indossava sulla maglia, l’otto, che di solito associamo ai centrocampisti. Un’ambiguità tattica che non lo ha mai abbandonato e che dice molto della sua complessità tecnica.
Forse non è un caso, in questo senso, che il picco di Rooney sia arrivato in quel brevissimo lasso di tempo in cui la condizione fisica è riuscita a sostenere l’ambizione di sostenere l’intero fronte d’attacco da solo. Era il 2009 e Ferguson aveva deciso di non rimpiazzare Ronaldo, partito alla volta di Madrid, passando spesso al 4-3-3 con Rooney come unica punta. Il problema era che il Manchester United oltre a lui non aveva altri grandi creatori di gioco e quindi a Rooney era richiesto di fare sia il vero che il falso nove. Come rispose ironicamente lo stesso Rooney a Ferguson quando gli comunicò la sua decisione di spostarlo in area da prima punta: «Quindi devo segnare sui miei stessi cross adesso?». In alcuni casi, come in questo gol all’Arsenal nel gennaio del 2010, la cosa succedeva quasi letteralmente.
Nelle due stagioni tra il 2009 e il 2011 Rooney segnerà 49 gol e 21 assist in tutte le competizioni.
Quello di falso nove, comunque, sembrava un ruolo ricamato sulle caratteristiche tecniche di Rooney, che aveva una maestria unica nel manipolare gli avversari con il corpo, che utilizzava non solo per proteggere palla ma anche per portarli a fare la prima mossa e crearsi così lo spazio per il dribbling o la luce per il tiro in porta. Era qualcosa che faceva praticamente in maniera naturale prima di ogni primo controllo, soprattutto quando lo spazio per la giocata era poco. In un gol al Leicester nel 2004, quando era ancora all’Everton, il difensore avversario che stava cercando di anticiparlo su una palla in area finisce per abboccare alla sua finta di andare sul primo palo stoppando d’esterno ed entra in scivolata su un tiro che non c’è mai stato, mentre Rooney lascia scorrere la palla sul destro per poi tirarla perfettamente in mezzo alle gambe del portiere.
Quella di saper manipolare gli avversari con il corpo era solo uno degli aspetti in cui eccelleva Rooney, a cui mi sembra non venissero riconosciute qualità così sottili che avevano a che fare con una certa raffinatezza intellettuale. Questo era dovuto anche al fatto che Rooney sembrava aver abbracciato l’evoluzione del ruolo d’attaccante senza dimenticare quelle qualità che rendevano unici i numeri nove vecchio stampo. La sensibilità nel tiro, ad esempio, talmente spiccata dall’aver reso il gol dietro la linea di centrocampo quasi un marchio di fabbrica, o anche il colpo di testa. Rooney è alto meno di 180 centimetri eppure sono i diversi i gol in cui riesce a sopraffare avversari più alti di lui con torsioni che spesso avevano dell’incredibile.
La capacità di muovere gli avversari con il corpo, di sapersi creare lo spazio per la giocata anche in tempi ridottissimi, però, è la qualità che più spiega l’evoluzione della sua carriera, forse proprio perché è quella che lo allontana di più da quell’idea di attaccante vecchio stampo che proprio non gli appartiene. Fa capire, per esempio, come abbia fatto Rooney, al declinare della sua condizione fisica, a riciclarsi arretrando sempre più la posizione, passando dall’attacco alla trequarti (come diceva anche il suo nuovo numero sulle spalle, il 10) fino a diventare in questa ultima propaggine nostalgica della sua carriera, al Derby County in Serie B inglese, un regista a tutti gli effetti.
Se si guardasse giocare Rooney oggi per la prima volta probabilmente si potrebbe arrivare a pensare di essere di fronte a un enganche sudamericano mentre lo si vede scendere a impostare in mezzo ai due centrali di difesa o cambiare di gioco con lanci al millimetro, e sarebbe difficile credere che in una vita precedente era considerato un attaccante tutta intensità rinomato per i suoi interventi in scivolata. Spogliato dell’atletismo e dell’intensità, le sue qualità tecniche principali sono finalmente le uniche visibili: le finte di corpo prima del primo controllo sono diventate vitali per poter giocare nelle zone di campo più affollate senza perdere palla, e la visione di gioco adesso, con l’intero campo di fronte a sé, risplende nei lanci con le ultime tre dita del destro e nei cambi di gioco. Nel frattempo Rooney è anche diventato uno specialista nelle punizioni dal limite, che batte facendo passare il pallone sopra la barriera. Un gesto tecnico che associamo ai trequartisti raffinati o per l’appunto ai registi, e non certo agli attaccanti che combattono nel fango dell’area di rigore.
Per uno strano scherzo del destino, prima che il mondo si fermasse l’ultima partita giocata da Rooney è stata proprio contro il Manchester United, in FA Cup. E la differenza con il Rooney che eravamo abituati a vedere in maglia rossa in un certo senso è stata ancora più palese, di fronte all’eterno grigiore inscalfibile che sembra essersi impossessato del Manchester United dalla fine dell’era Ferguson. A vederlo giocare contro i suoi vecchi compagni, giocando a due tocchi in mezzo al campo e cambiando gioco col compasso, sembrava come se si fosse finalmente liberato della sua rappresentazione del passato e avesse rivelato la sua vera essenza - nobile, raffinata, cerebrale, vestita di una nuova candida maglia bianca.
A vederlo così, sembra che ci siano più punti di contatto di quanto non sembri a un primo sguardo tra lui e Bobby Charlton, un’altra leggenda del Manchester United che in un certo senso ha fatto un percorso inverso al suo giocando formalmente da centrocampista - proprio con quella eleganza nobile che a Rooney non è stata mai riconosciuta - ma venendo spesso scambiato per un attaccante, per come si muoveva bene in area e per quanto riusciva a segnare. I due si sono incontrati non solo simbolicamente nel gennaio del 2017 quando Rooney ha superato Charlton in testa alla classifica all-time dei marcatori del club. Uno accanto all’altro per le foto di rito, con una statuetta d’oro a segnare il passaggio di testimone, sembravano antropologicamente di due classi diverse: Charlton (anzi, Sir Bobby Charlton) disinvolto nella sua elegante giacca nera e cravatta rossa come un nobile inglese nella sua tenuta estiva, Rooney con la maglia termica e la divisa attillata dello United sopra - una specie di moderno soldato semplice.
Forse ad aver tolto il posto a Rooney nella nostra memoria e nella storia del Manchester United c’è anche il suo aspetto più esteriore, il fatto che nemmeno il suo carisma fosse facilmente classificabile, sempre che ci fosse davvero. Rooney non aveva l’eleganza aristocratica di Sir Bobby Charlton, o l’aura da genio maledetto di George Best, o l’espressione da artista bohémien di Eric Cantona, o la fisicità da superuomo venuto dal futuro di Cristiano Ronaldo, o quella da modello glam di David Beckham, o la costanza da working class hero di Paul Scholes, o la longevità senza tempo di Ryan Giggs. Non sono sicuro, però, che avesse meno talento di ognuno di loro.