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Vincente e disperatissimo Rublev
06 mag 2024
A Madrid la vittoria più rubleviana di tutte.
(articolo)
6 min
(copertina)
Foto di IMAGO / ZUMA Wire
(copertina) Foto di IMAGO / ZUMA Wire
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Dopo il torneo di Madrid Rublev guarda lo strano trofeo con una strana espressione, poi lo solleva stancamente e dice “Hala. Puta Madre” come se con quelle parole non volesse in realtà dire niente. Come se fossero la vuota ripetizione delle uniche due che conosce in spagnolo.

Ha vinto perché è stato l’ultimo a rimanere in piedi, a non arrendersi agli infortuni e ai problemi fisici. In conferenza però ha le occhiaie profonde, il colorito pallido, l’aria tormentata da pittore d’avanguardia, o da santo ortodosso. Quell’aria che, più prosaicamente, lo fa somigliare al meme del gatto bianco stanco morto che guarda nel vuoto.

In effetti Rublev non stava bene. Da una decina di giorni è alle prese con un virus, o con un’infiammazione, non sa nemmeno lui cosa. Forse è Angina. Fatto sta che non riesce a deglutire, a mangiare; ha mal di testa, non dorme da giorni, ha la febbre. Deve fare delle punture per sgonfiare i piedi diventati due volte più grandi. «Non sono mai stato così male in vita mia» ha detto in questa conferenza stampa cupa, disperata ma anche buffa, come quelle scene ipocondriache di Carlo Verdone. In finale ha avuto la meglio su un altro giocatore mezzo infortunato, massaggiato per crampi all’inizio del terzo, che è andato vicino al ritiro dal torneo già al secondo turno. Felix Auger-Aliassime sentiva male allo stomaco prima di scendere in campo al secondo turno contro Jakub Mensik, ma ha deciso comunque di scendere in campo. È stato ripagato con una vittoria a tavolino, visto che anche il suo avversario stava peggio di lui e ha deciso di ritirarsi.

È stato un torneo per chi aveva le difese immunitarie più alte e, svoltato il momento critico, Auger-Aliassime è avanzato sfruttando un ritiro dietro l’altro, arrivando in finale come Steven Bradbury. Sulla sua strada si sono ritirati Mensik, Sinner e Lehecka. Ha comunque dovuto battere Mannarino e soprattutto Ruud, che su terra non si batte mai da solo. È stata la prima finale di un Master 1000 per Auger-Aliassime, arrivata nel suo momento peggiore della sua carriera e quasi per caso. Negli stessi giorni in cui annuncia la sua separazione da Toni Nadal. Un torneo che, anche tolta la fortuna sfacciata, ci restituisce un giocatore d’alto livello, e la cui classifica per fortuna torna ad avere contorni non catastrofici.

Auger aveva persino iniziato meglio il match, con un’aggressività sorprendente per il suo stile solitamente remissivo. Rublev stava male. Si muoveva a malapena, forse i piedi gli si erano già gonfiati come quelli dei Neanderthal. Se ne stava in risposta sull’orlo di una crisi di pianto e non eravamo nemmeno così sorpresi. È solo Rublev che fa Rublev: diventare la versione peggiore di sé stessi proprio quando conta di più.

Rublev è quel tennista da cui non aspettarsi acuti, che non batte i top-5, che non batte i top-10, che non riesce mai a sfondare il muro dei propri limiti. Col suo tennis contemporaneo nel bene e nel male. Potente ma monocorde, brillante ma senza genio. Rublev tira forte, fortissimo, e cerca di colpire gli ultimi centimetri di campo. Prova a farlo sia dal lato del dritto che da quello del rovescio: da una parte riesce bene e dall’altra meno bene. Un piazzato perpetuo, incapace di vincere i tornei che contano, troppo forte per perdere presto ma non abbastanza forte per alzare i trofei. Per questo è un tennista di cui, spesso, si fatica a riconoscere il grande talento.

Non è semplice da sostenere sul lungo periodo un rendimento costante ma senza picchi. Questo lavorare senza ricompense. Lui in effetti non sembra viversela bene, visto che nelle partite va spesso vicino al collasso nervoso. A Shanghai, contro Hurkacz, era sbottato contro un fotografo reo di essersi mosso troppo durante uno scambio. «Non è la cosa in sé ma l’atteggiamento molto aggressivo» ha detto l’arbitro, motivando il warning. Nei suoi accessi d’ira, spesso contro sé stesso, Rublev è davvero spaventoso. Per mesi le sue nevrosi in campo sono sembrate sul punto di superare un limite, e alla fine è successo, a Dubai, quando ha gridato contro un giudice di linea, con le vene del collo di fuori, per un episodio nemmeno così ambiguo. Il crollo era arrivato?

È stato squalificato, ha perso la partita con Bublik e, una volta tornato in campo, ha iniziato a perdere nei primi turni dei tornei. Qualcosa che non gli succedeva mai. A Barcellona, contro Nakashima, dopo aver perso al quarto turno consecutivo, ha spaccato la sua racchetta con un’intensità omicida.

Madrid è stato il torneo della rinascita, passata soprattutto dalla grande vittoria contro Carlos Alcaraz ai quarti. Certo, lo spagnolo non era in perfette condizioni fisiche, e la sua lucidità mentale ne ha risentito. Rublev però ha giocato un tennis di qualità, comandando col dritto, trovando vincenti anche dal lato del rovescio, salendo ancora di rendimento nei punti importanti - il genere di cosa che solitamente gli riesce poco.

Quindi torniamo al primo set della finale con Auger-Aliassime, che sembrava il classico momento di scioglimento di Rublev. Finisce sotto di due break, 4-1 nel primo set. Da quel momento, però, dice di cominciare a sentirsi meglio. Inizia a giocare il tennis visto in tutto il torneo. Non so se si può definire il migliore della carriera di Rublev, forse a Montecarlo di un anno fa aveva raggiunto picchi ancora più alti, ma di certo un tennis difficile da pareggiare per chiunque. A livello di ritmo, profondità, capacità di trovare vincenti da ogni angolo del campo. Ha servito molto bene, davvero molto bene.

Perde il primo set ma poi comincia a costruire la sua rimonta, fra urla, corse e dritti a tutto braccio colmi di disperazione. Vince al terzo set e poi cade a terra consumato da sé stesso, da un approccio radicale a questo sport. I tennisti cercano di isolare e sterilizzare la dimensione emotiva per giocare meglio, ma anche per proteggersi. Rublev invece sembra poter giocare solo risuonando attraverso tutto lo spettro emotivo offerto da questo sport. Forse non c’è stata vittoria più rubleviana di questa: in rimonta su un altro giocatore mezzo infortunato, giocando imbottito di anti-dolorifici, raggiungendo il fondo del malessere, con l’aria pallida e ciancicata. Dall’estremo dolore all’estrema gioia, Rublev pare sempre attraversare tutto il mandala di una partita di tennis, per poi uscirne ridotto a una carcassa urlante di nervi e dolore.

Quando va davanti ai microfoni vediamo bene la scritta sulla sua maglia: “play for the kids”. Come fa questa specie di creatura infernale, che sembra sbucare da una copertina degli Iron Maiden, a "giocare per i bambini”? Eppure è questa la cifra che definisce Rublev: un inestricabile insieme di contraddizioni. Un essere umano gentile ed educato, eppure capace di urlarti contro come se volesse sgozzarti; una persona tenera, che gioca per i bambini, ma che è capace di flagellarsi in campo con la propria racchetta come un frate cappuccino. Una persona che non teme di mostrarsi vulnerabile, pur giocando un tennis ultra-violento. L'equivalente tennistico di un pezzo degli Husker Du, con le schitarrate, le urla e i drammi adolescenziali.

Una persona dolorosamente sincera, forse troppo onesta, sensibile ed emotivamente nuda per uno sport come il tennis, che richiede freddezza e stoicismo. «È il titolo di cui vado più fiero» ha detto Rublev di Madrid, e poi col pennarello si è avvicinato alla telecamera e ha scritto «Samadhi, now i’m free» - riferendosi all’unione cosmica che si raggiunge attraverso la meditazione. Che Rublev abbia finalmente trovato la sua personalissima via per la pace interiore?

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