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Marcus Smith è il futuro del rugby
25 feb 2022
Il giovane mediano d'apertura inglese è una rivoluzione.
(articolo)
9 min
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Assistere dal vivo a una partita di Marcus Smith è un’esperienza del tutto nuova, anche se si segue il rugby da anni. Il mediano d’apertura della nazionale inglese sta cambiando l’approccio britannico a questo sport, portando gli inglesi in una nuova era. Tutto questo a 23 anni appena compiuti.

Smith ha una storia personale particolarissima: nato il giorno di San Valentino del 1999 nelle Filippine, si è trasferito da piccolo a Singapore per via del lavoro del padre, dipendente di una banca d’investimenti svizzera che aveva giocato nella nazionale di Hong Kong dal 1992 al 1997 (prima della nascita di suoi tre figli, Marcus è il più grande). Proprio a Singapore Smith ha iniziato a formarsi come giocatore di rugby, nel Centaurs RFC. Nel 2012, tornato a Brighton, ha il primo contatto col rugby inglese. Si forma quindi mischiando due culture, rugbistiche e non, totalmente distanti. Ne nasce un nuovo tipo di rugbista, estremamente anticonvenzionale.

Il Guardian ha ricostruito a novembre la sua storia, anzi, la storia delle persone che lo hanno conosciuto per la prima volta. Jake Letts, CEO della federazione rugbistica delle filippine dice che, dopo aver fatto allenare il quindicenne Marcus con la selezione under 19, rimase sconvolto: «Prese il pallone e iniziò a correre superando uno, due, tre ragazzi più grandi di me. Capii subito che aveva un talento diverso dagli altri». Nick Buoy, allenatore di Marcus al Brighton College, racconta che «Aveva 16 anni. Lo schierammo come mediano di mischia e cambiò il volto della nostra squadra. Era incredibile da vedere. Allora ho pensato “Beh, sai cosa? Forse dovremmo spostarlo a mediano d’apertura”. E così facemmo». Un’intuizione per cui dovremmo tutti ringraziarlo.

Eppure, c’è chi giura che fosse un bambino prodigio anche all’inizio. Paul Stephens, l’allenatore dei Centaurs di Singapore ha raccontato che «Aveva una coordinazione occhio-mano e una comprensione dello spazio intorno a sé che derivava solo dall’istinto. Poteva fare cose che gli altri bambini nemmeno potevano vedere». Agli stessi giornalisti, Stephens ha mostrato una pagina di un’autovalutazione scritta da Smith ai tempi dell’Under 14 in cui scriveva “La cosa migliore che ho fatto? Saltare qualcuno e fare un passaggio dietro la schiena. Cosa ho imparato? Provare un grubber (un calcio rasoterra che oggi utilizza tantissimo nel suo gioco) che gira in senso opposto al normale. Ora devo provarlo in partita”.

A Brighton Smith è stato addirittura promosso allenatore, durante l’ultimo anno di liceo. Una scelta che ricorda la promozione a magister di Raffaello Sanzio all’età di 17 anni. I talenti assoluti bruciano le tappe quando è il momento.

In una partita del Brighton College, Smith è 1000 categorie sopra agli altri.

Raramente si era visto un mediano d’apertura così poco canonico. Tradizionalmente l’Inghilterra ha sempre puntato su rugbisti di ordine e rigore nei suoi ruoli chiave: leggende come Jonny Wilkinson, Owen Farrell, George Ford, Toby Flood, hanno incanalato il loro talento all’interno di un piano di gioco delineato. Smith no. Il suo gioco è travolgente, rapido, imprevedibile. Allo Stadio Olimpico, dove nella vittoria inglese con l’Italia per 0-33 ha segnato 13 punti, venendo eletto man of the match, è stato semplicemente imprendibile. Una prestazione che il Telegraph, parlando del mismatch tra il suo talento e il livello degli azzurri ha paragonato ad “assistere alla scena di un bambino di 10 anni che strappa le ali a una farfalla: c’era una gioia masochistica in tutto questo”.

In sole 7 presenze con la nazionale inglese ha già segnato 93 punti, diventando insostituibile. Contro l’Italia l’allenatore Eddie Jones lo ha fatto giocare per tutta la partita, facendo entrare il suo sostituto naturale, George Ford (uno da 76 presenze con la nazionale e 210 con i club, non l’ultimo arrivato) nell’inedito ruolo di secondo centro. Che Jones abbia deciso di tenerlo in campo per 80 minuti, nonostante il valore del suo sostituto e nonostante la partita di fatto fosse finita già nel primo tempo, è un segnale enorme, che testimonia il valore di Smith e la fiducia che l’intero sistema inglese gli sta dando. Un segnale che, sommato agli altri, delinea il profilo di un predestinato.

Smith non ha solamente cambiato il volto della Nazionale inglese, ma è stato il principale artefice di un mezzo miracolo sportivo. La scorsa stagione ha infatti guidato gli Harlequins - squadra che gioca con la maglia a pezze colorate (celeste, rosa, marrone, grigio) in onore di Arlecchino - alla vittoria della Premiership, il campionato inglese, uno dei più difficili al mondo. Nel cammino del club londinese si possono isolare due partite, due momenti che definiscono non solo la carriera di Marcus Smith, ma spiegano anche bene l’evoluzione vero cui sta andando il rugby europeo, un’evoluzione di cui il mediano d’apertura inglese può essere l’espressione più armonica. La prima è la partita tra Harlequins e Wasps. La squadra di casa rimane in 14 per dieci minuti nel primo tempo per l’ammonizione a Mike Brown, che poi viene espulso al terzo minuto della ripresa. Se nel calcio un’espulsione condiziona la squadra che la subisce, nel rugby la mette in una condizione di difficoltà praticamente irreversibile. Nonostante questo, Smith segna sei trasformazioni, due calci di punizione e due mete (per un totale di 28 punti), compresa quella a tempo scaduto che regala la vittoria ai suoi, per 48-46.

La seconda è la partita tra Bristol e Harlequins, la semifinale playoff. Bristol segna quattro mete nella prima mezz’ora, andando a riposo sul 28-5. Un risultato che, almeno teoricamente, non lascerebbe scampo a nessuno. Eppure gli Harlequins risalgono la china, concludono i tempi regolamentari sul 31 pari. Si va ai supplementari, dove riescono a ribaltare definitivamente il risultato. Finisce 36-43: Harlequins in finale contro Exeter, che l’anno prima aveva vinto campionato, coppa e Champions Cup, che aveva battuto i Quins 3-33 a inizio campionato, ma che perderà 40-38 dopo una partita altrettanto epica.

«Mi ha stupito – mi racconta Paolo Garbisi, il mediano d’apertura della nazionale italiana che ho raggiunto proprio per chiedergli di Marcus Smith, visto che due settimane fa se l'è trovato davanti in tutto il suo splendore –, è stato incredibile. Post partita ci siamo scambiati le maglie e abbiamo chiacchierato un po’. È un ragazzo molto gentile e determinato. Sembra uno che ha le idee chiare su come può arrivare in alto, curando ogni minimo dettaglio».

Il futuro sembra sorridere a Smith, che dopo sole due presenze in Nazionale è stato convocato (senza esordire, a dire il vero), nei British&Irish Lions, la formazione prestigiosissima che raccoglie i migliori talenti di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda, e che va in tour solo ogni 4 anni. Annusare quel clima, vivere a 22 anni un onore che di solito spetta a pochissimi giocatori è una rarità, soprattutto in un mondo come quello del rugby britannico, che di solito tende a non esaltare gli astri nascenti, chiedendo loro di affermarsi piano piano, senza bruciare tappe, forse per paura di sovraccaricarli di aspettative col rischio di mettere in difficoltà il loro percorso di crescita.

Smith pur giovanissimo appartiene a quel ristretto gruppo di campioni che, qualunque sia lo sport che praticano, creano un luccichio attorno a loro, perché il gioco passa inevitabilmente dalle loro mani o piedi. Basta vedere le mete di Elliot Daly e Kyle Sinckler contro l’Italia. Nella prima riceve il pallone dopo una mischia a favore all’interno dei 22 avversari; i compagni sono schierati piatti e non profondi, come indicherebbe ogni allenatore del mondo. Gli inglesi sanno ciò che Smith sta per fare: parte palla alla mano, assorbe due difensori (Paolo Garbisi e Marco Zanon), forza un passaggio tesissimo a largo per Daly che segna in scioltezza. Mentre i giocatori in maglia bianca festeggiano, la telecamera inquadra Garbisi che parlando con Federico Mori sembra dire “c’è troppo spazio, siamo in 3”. Il gioco di Smith ha messo sotto scacco una difesa obiettivamente ben organizzata.

Nella seconda, da posizione simile fa una cosa completamente diversa: riceve un passaggio da Ben Youngs mentre è schierato sulla seconda linea d’attacco, esce dal frontale, manda fuori tempo Cherif Traorè, finta un passaggio lungo, invece scarica su Max Malins, che rompe il tentativo di placcaggio di Zanon e appoggia un pallone comodissimo per Sinckler. Tutto questo con la sola imposizione della visione di gioco.

Garbisi e Smith sono quasi coetanei: il numero 10 azzurro è del 2000, quello inglese del 1999, eppure approcciano al game plan in modo molto diverso: «È un gran bel giocatore» dice il nostro mediano, che aggiunge: «Ha delle grandi doti fisiche, a dispetto della stazza. Le difese sanno che se trova spazio ha le qualità per potersi esprimere al massimo. Sa sfruttare le opportunità che gli capitano, tant’è che segna tantissime mete per il ruolo in cui gioca».

Effettivamente, numeri alla mano, il rendimento di Smith è fuori media per un’apertura. A oggi ha segnato, tra club e Nazionale maggiore, 31 mete, 169 calci di punizioni, 267 trasformazioni, due drop, per un totale di 1202 punti in 127 presenze, con una media di 9 punti e mezzo per partita.

Fermandoci a queste prime due giornate di Sei Nazioni, il 10 inglese ha firmato una meta nella sconfitta con la Scozia (in cui ha segnato comunque tutti i 17 punti dei suoi) e una con l’Italia. Ora lo aspettano il Galles, una squadra che non è troppo in forma e che soffre il gioco fantasioso, mentre sa difendere alla perfezione in situazioni più statiche, poi Irlanda e Francia. Un percorso in salita che è certamente un enorme banco di prova, ma che può consacrarlo una volta per tutte.

Potenzialmente Marcus Smith potrebbe essere il prototipo di un nuovo tipo di giocatore: un rugbista piccolo, rapido, che quando è in possesso palla ha sempre 4-5 opzioni di gioco possibili, più una o due impensabili, che conosce e comprende solo lui. «Il contesto in cui gioca – conclude Garbisi – lo esalta: gli Harlequins prediligono un gioco estroso e in quell’ambiente le sue caratteristiche emergono bene. Lui, come Romain Ntamack (il mediano d’apertura della Francia, figlio del leggendario Émile) sono giocatori simili, che attaccano la linea in prima persona, senza scaricare il pallone sugli altri e sorprendendo le difese. Queste sembrano cose banali, ma in realtà rappresentano la vera evoluzione. L’Inghilterra si sta adattando a una nuova impostazione, smussando degli schemi fissi in attacco e scegliendo un gioco più arioso: proprio ciò di cui Smith ha bisogno».

I Mondiali del prossimo anno saranno un banco di prova per il 10 inglese, che in un anno e mezzo ha completato la scalata all’Olimpo della palla ovale: complice anche un cambio generazionale, la strada per lui sembra in discesa, ma non dovrà perdere il focus e dovrà fare grandissimo affidamento sui suoi compagni di club e di Nazionale. Se capiranno la sua lingua rugbistica allora andrà bene. Marcus Smith è il futuro, deve solo augurarsi che i suoi compagni siano capaci di seguirlo.

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