Nonostante abbia visto ogni genere di gesto tecnico sorprendente e inimmaginabile, e anzi in un certo senso ritengo di essermi persino abituato a standard di grandezza unici, irraggiungibili per il 99,9% dei calciatori (gli standard di Messi, Ronaldo, Ibrahimovic, che sono anche gli standard Ronaldo il fenomeno, Cruyff, Maradona etc. etc.) ogni volta che vedo un giocatore passare tra due avversari che lo chiudono con la palla attaccata a piede come se fosse un frutto attaccato alla pianta, girarsi di tacco, o di suola, facendola scorrere in mezzo alle gambe del marcatore che lo pressa alle spalle, ho l’impressione che il calcio sia stato inventato in quel momento. Di fronte a un dribbling bruciante, limpido, affilato, continuo ad emozionarmi ogni volta come se fosse il primo che vedo.
Una parte di me, anche se so che non è così, ritiene che il talento più puro sia quello in dote ai dribblatori più ispirati, che sul campo ammiravo con invidia (quello è il vero talento, pensavo, non il mio) e che ancora oggi penso dovrebbero riempire le rose delle migliori squadre al mondo. Ce ne dovrebbe essere almeno uno per squadra, e dovrebbe giocare almeno un pezzo di ogni partita. Se non per altro, come se fosse un sacrificio umano al dio del calcio.
Non voglio romanticizzare ulteriormente la questione, né trasformare Said Benrahma, di cui voglio parlare, in un simbolo, ma non posso fare a meno di chiedermi come sia possibile che un giocatore del genere non giochi in una squadra di primissima fascia.
Adesso, le squadre di Premier League possono fare mercato con quelle in Championship per altre due settimane (fino al 16 ottobre) e magari Benrahma si muoverà dal Brentford, con cui ha giocato le ultime due stagioni; ma magari no, perché è un momento particolare e non è detto che una delle squadre interessate incontri le richieste del club o del giocatore.
Si parla di West Ham e Manchester United, ma fondamentalmente ogni tifoso di una squadra di Premier in queste ore sta fantasticando su Benrahma (come su Buendia e Ismaila Sarr). Benrahma è stato il miglior giocatore della scorsa Championship, il miglior dribblatore (251 dribbling in totale, 140 riusciti) con 17 gol e 9 assist (in media, togliendo i rigori, più di mezzo gol o assist ogni novanta minuti giocati).
Ma allora perché a 25 anni ancora si trova in questa specie di limbo?
Benrahma è un maestro del tunnel di suola su un avversario che gli arriva alle spalle, ce n'è più di uno nelle sue compilation. Questo è di pochi giorni fa, realizzato in Carabao Cup contro il Fulham (ed è il suo secondo gol nel 3-0 finale, il primo lo ha segnato schiacciando di suola una palla nell’area piccola).
La carriera di Benrahma finora contraddice tutto quello che ho scritto all'inizio. Il suo talento, da numero dieci purissimo, che sarebbe capace «di fare un tunnel a una sirena», come ha detto un assistente allenatore al Brentford, non solo non è stato sufficiente per portarlo sul palcoscenico del calcio di prima fascia (ancora) ma ci è voluta molta abnegazione e spirito di sacrificio da parte sua per arrivare dov’è ora.
Dopo non essere riuscito a sfondare nel Nizza, perché Lucien Favre non lo vedeva, e dopo due prestiti non riuscitissimi ad Angers e al Gazelec Ajaccio (quattro gol in meno di trenta partite, in totale) si è finalmente riuscito ad adattare al contesto della Ligue 2 nello Châteauroux, tre anni fa. Il Direttore Sportivo che lo ha voluto lì, Jerome Leroy, lo aveva avvertito di «non guardare dall’alto in basso» i compagni e gli è stato vicino perché Benrahma «è una persona molto sensibile». Da nessuna parte si trovano indizi di una sua scarsa professionalità, o di poco senso del collettivo, come si dice in casi simili di giocatori molto tecnici che faticano a costruirsi una carriera decente, piuttosto si parla spesso della sua sensibilità, del bisogno di farlo sentire apprezzato. I giocatori sensibili tecnicamente sono anche sensibili caratterialmente?
Laurent Bonadei, che lo ha allenato quando è sceso dalla prima alla seconda squadra del Nizza, dice di avergli dato «affetto» e lo stesso Benrahma dice che si trova bene con Djamel Belmadi, il tecnico della nazionale algerina, perché: «Mi dà una fiducia che devo ripagare». Benrahma viene da Aïn Témouchent, un comune di ottantamila abitanti nel centro dell’Algeria, è arrivato in Francia a quindici anni senza aver mai giocato in un centro di formazione e a diciassette ha esordito in prima squadra col Nizza, con degli scarpini che gli avevano prestato perché i suoi non avevano i tacchetti adatti al terreno reso scivoloso dalla pioggia. «Non conoscevo il mondo del professionismo», ha detto lui a un giornale algerino, «non ero pronto».
Sono dettagli scontati ma di cui non teniamo conto quando guardiamo giocatori come lui: lo stereotipo del giocatore nordafricano con i piedi d’oro ma difficile da inquadrare tatticamente si riferisce a una loro tendenza naturale, al loro carattere, più che alla mancanza di una formazione “all’europea”. La sua storia ricorda quella di Djamel Ibouzidène, un altro talento algerino naturalissimo, con cui Benrahma ha giocato a Bethioua, è che considera «un fenomeno». Ibouzidene è arrivato a Parigi, al Paris FC, dopo una selezione feroce di più di otto mila ragazzi, ma è finito in mezzo a un litigio tra il suo agente e il presidente del club, a dormire in una camera in affitto prima di tornare a giocare nel campionato algerino, al Aïn M'lila.
Doppio tunnel, il primo di suola, il secondo di tacco, impreziosito dal saltello del difensore che li subisce e che probabilmente in quel momento ha messo in questione la sua scelta di diventare calciatore.
Il punto è che il calcio di alto livello ha sempre più bisogno di calciatori come Benrahma proprio perché la formazione all’europea inibisce, frustra o addirittura respinge, i talenti più puri provando a incanalarli troppo presto verso un calcio più intenso e fisico, votato all’efficienza immediata piuttosto che allo sviluppo naturale delle competenze. E, soprattutto, può essere colmata da un apprendimento successivo.
Benrahma è diventato un giocatore vero (per i nostri standard, si capisce) in Ligue 2, quando allo Châteauroux gli hanno «tirato fuori il veleno che era in lui», come ha detto il vice allenatore dell’epoca. Benrahma ha imparato che c’è una fase difensiva in cui può essere utile e che la palla va anche passata. Oggi intercetta e recupera palloni, raddoppia costantemente in fascia aiutando il terzino o il centrocampista alle sue spalle, gioca di prima con una qualità finissima, alterna possessi e dribbling difensivi per dare la pausa e far salire la squadra, a conduzioni fulminanti e passaggi filtranti per le punte. Probabilmente sarebbe diventato un giocatore completo lo stesso, se non addirittura migliore, se ci avessero lavorato con attenzione e dedizione da subìto. Se non si pretendesse che i calciatori siano formati già da adolescenti, anche quelli con una storia del suo tipo.
Sono due anni che Benrahma fa letteralmente le fiamme in Championship, entrando nel giro della nazionale algerina (ha esordito prima della Coppa d’Africa vinta proprio dall’Algeria un anno fa, che lui ha saltato per infortunio), ma dopo la pausa per il coronavirus «ha cambiato marcia, ha dato maggiore spessore al suo gioco, è più precido nei passaggi e in fase di finalizzazione», ha detto Thomas Frank, il suo allenatore al Brentford, ben felice di tenerlo ancora qualche mese o un anno, nel caso in cui un club più ricco si faccia avanti. E ogni partita che gioca, il suo prezzo sale di qualche milione. Su Transfermarkt la sua quotazione è poco più di 10 milioni di euro, ma verosimilmente le richieste del club si aggirano intorno al triplo di questa cifra (d'altra parte è questo il prezzo che l'Aston Villa ha pagato per il suo compagno in attacco dello scorso anno, Ollie Watkins, che pochi giorni fa ha segnato una tripletta nello storico 7-2 al Liverpool).
Said Benrahma ormai è fuori scala per la Championship e farebbe comodo a quasi tutti i club di Premier, quanto meno partendo dalla panchina. Dal punto di vista atletico gli manca qualcosa rispetto ai migliori nel suo ruolo (Mané, o al suo connazionale Mahrez) per non parlare dei freak che hanno trasformato quello di esterno in un lavoro per centometristi (Adama Traoré, Richarlison, Saint-Maximin, giusto per fare degli esempi), ma in pochi hanno il suo controllo e la sua fantasia. Benrahma è un giocatore da spazi stretti, che giocherebbe senza problemi in un salotto pieno di mobili, ma che quando il campo si apre può sfruttare la sua tecnica nei passaggi e nei tiri. Può fare tutto da solo o rifinire l'azione negli ultimi metri, giocare in isolamento sulla fascia, fare da cardine al limite dell'area o finalizzare lui stesso con freddezza. Non c’è ragione di pensare che non si adatterebbe a un contesto superiore, anche se non possiamo sapere come.
C’è qualcosa di puro in Benrahma, che va all’essenza del gioco del calcio. Battere l’avversario diretto, fargli rimpiangere di averti affrontato, di aver pensato che poteva fermarti. Scomparirgli da davanti appena prova a intervenire, schivarlo all’ultimo come se si muovesse al rallentatore, senza mai perdere contatto con la palla. Perché è quella la sola cosa che conta, se non mi togli la palla non puoi fare gol, non puoi fare niente di niente, puoi guardarmi e basta. Viene da un’idea di calcio di questo tipo il suo gioco, su cui ha aggiunto altri livelli di comprensione, ma alla base c’è l’eccitazione per un’umiliazione vicina, per lo spontaneo “uooooooooooooooo” del pubblico (anche fossero i tuoi compagni in panchina). Ed è questa idea di calcio che sopravvive a tutte le epoche e alle complicazioni tattiche. Se non significa reinventare il gioco del calcio ogni volta, quanto meno ci ricorda perché ci siamo innamorati la prima volta. Giocatori del genere nasceranno sempre e anche tra mille difficoltà troveranno il modo di farsi strada. Per Said Benrahma, però, non c’è più molto tempo a disposizione. Qualcuno è disposto a credere in lui?