Il campionato della Salernitana è stato un romanzo. In un romanzo ci sono: trama, sotto trama, conflitto, evoluzione dei personaggi. In un romanzo si può scrivere tutto, purché verosimiglianza del racconto e sospensione di incredulità del lettore restino in equilibrio. Se questo succede, un romanzo può raccontare perfino un miracolo. La Salernitana, quest’anno, ha compiuto un miracolo.
Si può riassumere un miracolo in sette fotografie?
Mattia Ozbot - Inter/Inter via Getty Images
È il 17 dicembre 2021, Salernitana-Inter è la sintesi di quello che è stato.
Claudio Lotito non può avere due squadre in Serie A, deve vendere. La Salernitana è gestita da un trust. La città, i tifosi, i media sono logorati da un conflitto fra apocalittici e integrati. Gli integrati credono ciecamente nel lavoro di Angelo Mariano Fabiani, che negli ultimi anni è stato il Direttore Sportivo oltreché braccio destro e sinistro di Lotito. Gli apocalittici pensano che Fabiani e Lotito siano il male.
L’allenatore è Stefano Colantuono, ha sostituito Fabrizio Castori. Colantuono è uomo di mondo e ha senso pratico. Però, per dire, l’ultima volta che si è seduto su una panchina di Serie A, il VAR non esisteva.
La Salernitana entra in campo ed è come se non ci fosse. Un po’ è che l’Armageddon si avvicina: l’ultimo giorno utile per vendere è il 31 dicembre, il futuro non esiste. Un po’ è che, l’anno precedente, la squadra è stata promossa quasi per caso in Serie A, con una rosa da metà classifica di B che, con il mercato estivo nell’anno del trust, si è indebolita. Ha una difesa senza pretese, un centrocampo imbarazzante e un attacco che ha gli uomini giusti nei posti sbagliati. C’è anche Frank Ribery, sembra il Teatro dell’Opera a Iquitos nella foresta dell’Amazzonia: il sogno di Fitzcarraldo. Ma non incide e forse si è pure pentito di aver scelto Salerno.
L’Inter ne fa cinque, poteva farne venticinque. La partita è senza senso, uno spot per la Superlega. Non richiede neppure analisi tattiche. La Salernitana è ultima in classifica, ha perso quattro a zero in casa con la Roma all’Arechi, quattro a zero allo stadio Grande Torino e a Firenze, dopo tredici minuti perdeva tre a zero in casa contro l’Empoli. Ha un gioco disarmante: qualche tentativo, timido, di allargarsi sulle fasce, un’ostinata reiterazione di lanci sulla testa di Milan Djuric con il resto dei calciatori un metro dietro la linea di centrocampo. Perfino i siti specializzati di Fantacalcio, quando devono suggerire nomi della Salernitana ormai passano oltre.
Alle 23.59 del 31 dicembre, quando il rischio di radiazione dalla serie A è questione di sessanta secondi, in città si diffonde la notizia: la Salernitana è stata comprata da Danilo Iervolino.
Iervolino sceglie una comunicazione positiva, pronuncia parole che Salerno non sa più riconoscere, tipo: “settore giovanile”, “futuro”, “stadio di proprietà”, addirittura: “centro sportivo”. Pubblica sui social le foto di tutta la famiglia vestita di granata che guarda le partite. Nel tempo degli sceicchi che investono nel calcio con il calore dell’azoto liquido, si sentono gli echi di Rozzi e Anconetani. Però Salerno sa essere diffidente: Iervolino sembra Meg Ryan che simula l’orgasmo in Harry ti presento Sally.
Comunicazione sui social a parte, quando deve passare ai fatti Iervolino prende il defibrillatore, spariglia e affida a Walter Sabatini il compito di rifare la squadra.
La prima conferenza stampa di Sabatini è una pagina di letteratura. Si presenta con la voce roca dei maledetti, come una via di mezzo fra Baudelaire e l’ultimo dei romantici. Racconta: «Ho amato tutte le sigarette allo stesso modo: la prima appena sveglio, l’ultima della giornata, quella celebrativa, quella consolatoria». Dice che la Salernitana ha il 7% di possibilità di salvarsi, ma dice anche che quel 7% di possibilità se le vuole giocare fino alla fine, che è l’impresa più importante della sua vita. Porta a Salerno dieci calciatori. A campagna acquisti chiusa, chiarisce: «Sono soddisfatto ma non esaltato».
Tra i nuovi ci sono Fazio, Perotti e Verdi: hanno voglia di riscatto, ma sono fermi da tempo. Due arrivano dal Brasile: Mikael, che a vedere i filmati su YouTube sembra il fratello di Adriano, ma è sovrappeso, ed Ederson che porta le stigmate del predestinato. Mousset è una seconda punta che giocava nello Sheffield. Bohinen è norvegese, di lui si sa che é un centrocampista, che arriva dal CSKA di Mosca e che è nato a Derby quando suo padre Lars giocava nel Derby County. Punto. Gli altri sono Dragusin, che alla Sampdoria non ha convinto, Radovanovic, che ha buoni tempi di gioco ma pessimi tempi di corsa, Sepe che, al Parma, da quando è arrivato Buffon non ha avuto spazio e Pasquale Mazzocchi. Mazzocchi, prima di lasciare Venezia, ha pubblicato una storia su Instagram in cui ha salutato i tifosi più o meno così: «Scusatemi: ho una battaglia da andare a combattere». Mazzocchi è mezzo uomo mezzo tatuaggio, si fa tutta la fascia destra, non ha particolari talenti ma è il calciatore che tutti vorrebbero avere: è preciso e si butterebbe nel fuoco per la maglia. La sua retorica gladiatoria diventa una narrazione condivisa da tutti. Il problema, però, è che la squadra continua a perdere punti e fiducia.
La prima vera frizione fra Presidente e Direttore Sportivo è per l’allenatore. Sabatini vorrebbe tenere Colantuono, Iervolino è per la discontinuità con il passato, anche se è difficilissimo trovare qualcuno che accetti una sfida impossibile.
Il prescelto sarebbe Andrea Pirlo. Ma come avrebbe mai potuto il professor Pirlo accettare Salerno? Arrivato in città avrebbe iniziato a domandare: «Dove sono le vasche per la crioterapia?», «Il campo B? Non lo vedo». Le infrastrutture della Salernitana sono da prima Repubblica del calcio.
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La seconda foto del miracolo è la rovesciata di Bonazzoli contro il Milan. Finisce due a due, è la miglior gara giocata dalla Salernitana. Ai tifosi sembra incredibile, ma si tratta di due punti persi. Per la prima volta, sulla panchina siede, per modo di dire perché sembra un assatanato, Davide Nicola.
Nicola, forse, non allenerà mai il Manchester City. Propone un calcio pragmatico, intenso, non spettacolare. Ma sa di pallone e se un dirigente d’azienda volesse motivare un sasso, l’unico in grado di farlo sarebbe lui. Che, oltretutto, ha una leadership che è un manuale di psicologia applicata.
Francesco Pecoraro/Getty Images
Un leader deve saper comprendere i valori e le opinioni del gruppo, deve saper costruire un dialogo produttivo, non deve ottenere obbedienza, deve esser in grado di dare forma a quello che il gruppo, di cui si sente parte, vuole realmente, pensa che l’interesse di tutti sia il suo. E il gruppo di Nicola non sgomita per mettersi in mostra, non ha l’urgenza delle rivincite personali, non freme per avere la ribalta dei media. Ha un solo obiettivo: salvarsi.
Nicola si cala nel ruolo, entra in simbiosi con i calciatori, ne condivide gli stati d’animo. Li difende quando potrebbe non farlo, li carica. Se la squadra fa il riscaldamento pre-gara è in campo a dispensare consigli, ha un atteggiamento ottimistico ma saldamente ancorato alla realtà, rifiuta la logica di attribuzione esterna di responsabilità: se qualcosa non va, si mette in discussione.
Per un romanzo avvincente, c’è bisogno che non tutto sia lineare. Perché la storia diventi appassionante, i protagonisti devono complicarsi la vita. Il conflitto è ossigeno per girare pagina.
I conflitti di Nicola si chiamano Salernitana Bologna 1-1, la Salernitana ha 18 punti e un piede in serie B, Inter Salernitana 5-0, Salernitana Sassuolo 2-2, Juventus Salernitana 2-0.
Sabatini ha infiammato i tristi, solitari y final, ma Salerno ha sangue e pragmatismo normanno. Iervolino ha promesso un futuro, ma se invece volesse, con la sua ambizione, solo sfruttare la Salernitana? Se i suoi interessi fossero altrove? E Nicola? Ha fatto errori tecnici e tattici. Col Sassuolo ha messo in campo calciatori non all’altezza della situazione, non riesce a trovare un sistema di gioco a centrocampo, sta replicando schemi, inefficaci, già visti. D’accordo, un allenatore ha il diritto di sperimentare, ma il tempo è pochissimo e lui è stato preso perché a Crotone è riuscito a salvare la squadra in una situazione simile. Come mai, qui, non ci riesce? C’è proprio bisogno di lui? Non era il caso di prendere un allenatore con cui, fin da subito, preservare quel poco di buono che c’è e ripartire dalla B per puntare alla promozione? E Sabatini? Non era il migliore di tutti? Fazio è a carriera finita, Verdi ha segnato due gol su punizione all’esordio contro lo Spezia, poi è diventato un ectoplasma. Se Dragusin non ha convinto a Genova, perché avrebbe dovuto far meglio? Perotti non ha mai giocato, se lo ha fatto non se ne è accorto nessuno. Musset è un oggetto misterioso. Mikael è troppo grasso. Radovanovic è lento, Bohinen non si è ambientato. Ederson sarà un predestinato, ma sembra né carne né pesce.
A Salerno, sabato 2 aprile, arriva il Torino. Tira vento di Libeccio, diluvia. La squadra deve recuperare due gare, contro Venezia e Udinese, ma è sempre ultima. Inizia bene, ci prova. Poi l’arbitro fischia un rigore per il Torino. Lo tira Belotti, Sepe lo para. C’erano troppi calciatori nell’area di rigore e si ribatte. Belotti fa gol. La partita finisce uno a zero per il Torino. Nonostante le altre non stiano facendo meglio, nonostante la classifica non si allunghi, nonostante la quota salvezza non si alzi, i piedi in serie B, adesso, sono uno e mezzo.
Walter Sabatini fa mea culpa: «Ho commesso errori di valutazione», è onesto intellettualmente. Però è anche un gran bel narcisista. E, per un narcisista, la sconfitta è dolorosissima. La depressione del narcisista è violenta, rabbiosa: «Facendo punti avremmo accorciato le distanze. Purtroppo non è accaduto e io sono disperato».
Eppure.
Nicola non perde la calma, vede progressi che nessuno ha la serenità per cogliere e sceglie chi mandare in campo seguendo sempre un razionale. Si alza il baricentro del gioco, il pressing si fa a metà campo, il gioco sulle fasce è più efficace, la concentrazione cresce, la squadra fa errori ma niente a confronto di quello che è stata capace di combinare nel girone di andata. A parte i nuovi, ci sono calciatori rigenerati: Bonazzoli, per esempio, e poi Gyomber che ne ha presi di fischi e invece adesso non perde mai l’avversario, contrasta, recupera, tiene la posizione, entra in tackle.
Nel romanzo del campionato della Salernitana, l’arco di trasformazione, quello vero, inizia dopo la gara contro il Torino. E inizia con un’altra sconfitta.
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Stadio Olimpico. La Roma è in semifinale di Conference League. Sessanta quattromila spettatori, più di Roma Barcellona.
Nicola passa al 3-5-2 per togliere spazio agli avversari.
La squadra gioca con coraggio, propone un calcio intenso. Lassana Coulibaly, Bohinen ed Ederson in mezzo al campo sono fra i migliori. La Salernitana parte da dietro con ordine, sposta il centrocampo della Roma e trova gli inserimenti nelle zone lasciate libere. I calciatori si scambiano i ruoli, Ribery arretra per giocare più palloni. Segna Radovanovic, messo al centro della difesa, su punizione.
Nel secondo tempo Mourinho toglie un difensore e fa entrare Zaniolo. La Salernitana si abbassa, la pressione della Roma aumenta. Ederson dà la palla in verticale a Kastanos che la controlla in corsa nell’area di rigore.
Ogni squadra di calcio, ogni tifoso, ha un suo fantasma. Il fantasma della Salernitana si chiama Vincenzo Chianese. Chianese arrivò a Salerno nel 1997, nell’ultimo anno di serie A. La squadra era, come adesso, ultima in classifica. Giocava, come stasera, un calcio credibile. Aveva, come a Roma, un pubblico gigantesco. Chianese correva, calciava, creava spazi, ma al dunque sbagliava. Sbagliò nei minuti di recupero un gol già fatto contro il Bari all’Arechi. Arrivò, come Kastanos oggi, davanti al portiere e tirò fuori. La Salernitana non si salvò per un punto. Tutti, a fine stagione, pensarono: “Ah se Chianese...”.
Al 74’, il destino ricorda alla Salernitana che è più forte del campo. Kastanos, come Chianese, tira. E come Chianese sbaglia un gol impossibile da sbagliare.
Segnano Carles Perez all’81’ e Smalling quattro minuti dopo. Finisce due a uno. I tifosi della Salernitana sono quattromila, cantano come se avessero vinto. Ma la retorica del dodicesimo uomo in campo è un premio di consolazione inutile. Sabatini va in sala stampa come un orso ferito: «Mourinho dirà che non mi conosce e che non ho vinto nulla, non me ne frega un cazzo. Quello che succede quando si viene a giocare a Roma è inaccettabile. Ogni decisione arbitrale contro viene contestata da tutta la panchina». Prosegue: «Chiedo scusa a Mourinho solo per averlo nominato, lui è un semidio, io un uomo. Io non ho vinto nulla ma leggo Hemingway e Pessoa, scrittore di casa Mourinho, e continuo a farlo. Mi curo anche della vita oltre al calcio. È un mondo invivibile e pieno d'arroganza. Io amo la mia squadra, che sa giocare e vorrebbe salvarsi, ma oggi sono davvero incazzato».
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Udine, per un salernitano, è ai confini del mondo. La partita, nel girone d’andata, era stata rinviata per Covid. Si recupera il 20 aprile. Prima della gara, la Salernitana si allena in città. In senso letterale. Fa la rifinitura nella piazza dove fu presentato Zico.
Nicola ripropone il 3-5-2 con Ederson, Bohinen e Lassana Coulibaly in mezzo, anche se durante la partita riesce ad adattare il modo di stare in campo. Djuric è squalificato, il lancio lungo non basta. L’Udinese preme, non perde dal giorno dell’Epifania. Bohinen è quello che tocca più palloni di tutti e che li passa con maggior precisione. La Salernitana non rischia mai. Mikael tira da fuori area e prende il palo a pochi minuti dalla fine. Ancora il destino.
Poi al 93’, Verdi e Kastanos recuperano palla in difesa e la danno a Ederson. Ederson la porta avanti. Sulla tre quarti ci sono Mikael e Verdi che corrono. Mikael si allarga, il difensore dell’Udinese si trova in mezzo. Verdi va verso l’area di rigore e riceve palla. A questo punto il fantasma di Chianese torna davanti agli occhi dei tifosi che sono in trasferta, di mercoledì, a 882 km da Salerno.
Invece Verdi, entrato dalla panchina sei minuti prima, arriva davanti alla porta, accompagna col destro la palla verso l’esterno, vede Silvestri che esce con le mani alzate e di sinistro lo scavalca con un tiro a incrociare.
Sono dodici secondi indimenticabili, perché sono dodici secondi in cui tutta la rabbia, tutta la frustrazione, tutto il rammarico, si commuta in felicità.
La Salernitana ha 22 punti, raggiunge Genoa e Venezia all’ultimo posto in classifica. Va a Genova, contro la Sampdoria, e succede che Fazio, dopo tre minuti, fa gol di testa su un calcio d’angolo. Proprio Fazio, il tanto criticato Fazio. Fazio il calciatore finito, l’uomo più lento della serie A, quello che il suo amico Sabatini gli ha fatto il regalo di fine carriera con un contratto che nessuno gli avrebbe concesso. Fazio. Che è tornato da qualche partita a comandare la difesa, a dare sicurezza ai compagni, a caricare la squadra, a mettersi a disposizione di tutti. Poi Ederson prende palla sulla fascia sinistra a centrocampo, corre fino all’area piccola e segna il secondo gol. Finisce due a uno per la Salernitana.
Il pubblico ha seguito la squadra dappertutto. Contro la Lazio, all’Olimpico, la Salernitana perdeva tre a zero e si sentivano solo i salernitani. A Genova, contro la Sampdoria, sono in seicento e sembrano seimila. Ci sono regole del tifo non scritte: quando gli avversari attaccano, chi canta tira il fiato per poi ripartire. A Marassi, i tifosi entrano in trance. Non c’è un momento di pausa. Quando la Sampdoria attacca, cori diventano ancora più intensi.
In casa con la Fiorentina, la curva Sud dell’Arechi sembra quella del Rosario Central. Pienissima, coloratissima, una cascata di coriandoli all’ingresso delle squadre in campo. Forse, per una volta, si può dire che la curva del Rosario Central sembra quella della Salernitana. Il pragmatismo di Nicola, l’intensità di chi è in campo e le sostituzioni ben fatte, contro la costrizione del basso, le ali veloci, il centrocampo che ruota.
Segna subito Djuric, la partita è intensissima. Pareggia la Fiorentina. Nicola si toglie una scarpa e vorrebbe tirarla contro uno dei suoi. La Salernitana vince due a uno, il gol della vittoria lo segna Bonazzoli. Non era mai successo che la squadra, in serie A, vincesse tre partite di fila.
Raffaele il Vichingo è un vecchio capo del tifo a Salerno. Detta la linea come aveva fatto l’anno scorso, quando nessuno credeva che potesse succedere e invece la squadra ha vinto il campionato. Zitti, “Stamm’c zitt”. La gente lo incontra per strada e si fa i selfie con l’indice davanti alla bocca. Gli amici, da un marciapiede all’altro, si fanno segno di non dire niente. Nelle chat di gruppo arrivano brevi video del Vichingo che impone il silenzio.
Quanti punti ci vogliono? Qual è la quota salvezza? Il Cagliari perde terreno, c’è stato un momento, nel girone di ritorno, che aveva una media da Europa League e ora è a un passo. Si deve recuperare la partita col Venezia, in otto giorni la squadra si gioca tutto, avrà il Cagliari in casa. Forse sarà stanca, non fa niente.
A Bergamo, la Salernitana arriva, per la prima volta, senza ipossia. A Bergamo può perfino perdere. A Bergamo fanno la storia del calcio del nuovo millennio. A Bergamo si gioca contro Muriel e Zapata. A Bergamo, ventisette anni fa, la Salernitana è andata per vincere e tornare in serie A, invece ha perso. Quando l’Atalanta mette in vendita i biglietti per il settore ospiti, finiscono in mezz’ora: duemila persone per una partita di lunedì sera.
Finisce uno a uno. Ederson, ora si che è il predestinato, fa un gol da attaccante. L’Atalanta pareggia all’83’, però la sensazione è che i conti con il passato siano stati fatti. Chi ha visto la partita, si è sentito orgoglioso di tifare per la Salernitana. Qualcuno ha detto che è stata la migliore Salernitana di sempre. Non succede, ma se succede...
Le ultime quattro sono un’unica partita di 360 minuti in un campionato che doveva essere ridicolo ed è diventato epico. Il due a uno contro il Venezia sono i negozi in città con la scritta: “Chiusura per causa granata”. I due pareggi: quello del Cagliari al 99esimo e quello a Empoli, con il rigore sbagliato da Perotti a cinque minuti dalla fine, la sotto trama che ha messo in pausa il finale. Poi l’ultima in casa con l’Udinese. Se la Salernitana vince, è fatta. Solo che dopo 42 minuti perde tre a zero.
Il secondo tempo diventa un ologramma, drammatico e irrilevante. La partita non esiste più. La partita diventa Venezia Cagliari, però le linee telefoniche saltano, non si capisce come stia andando: al Cagliari basta un gol per salvarsi al posto della Salernitana.
Le emozioni intense possono indurre stati dissociativi. Chi si dissocia ha l‘impressione di essersi perso, si guarda intorno e non riconosce il mondo che lo circonda, il suo dire diventa crepuscolare, i colori si fondono, le grida si aggrovigliano, i ricordi si rincorrono, la gioia mischia i sensi. La realtà non è più la realtà: perdi quattro a zero e sei felice. Il resto sono sensazioni caotiche, senza nessuna logica, però bellissime.
Succede che la squadra, alla fine, si salva. Si salva con i colpi di testa di Djuric, con Ribery che piange. Con la rovesciata di Bonazzoli. Con Lassana Coulibaly che sembra Kante. Con Bohinen, il principe norvegese, che a Salerno, ad aprile, giocava coi guanti. Con le corse disperate di Mazzocchi, la panza di Mikael, Ederson e il maresciallo Gyomber. Con Ranieri che se non gli dici basta non si ferma mai, nemmeno quando è infortunato. Con Verdi che, se gli vuoi bene, si esalta. Si salva pure con Francesco Di Tacchio, che col nuovo corso è uscito di scena ma quando la squadra era lo zimbello della serie A, ci metteva la faccia.
Salerno è una città sospesa fra la convinzione di essere il centro del mondo e la frustrazione di esserlo solo per i salernitani. Per una volta, la sua squadra di calcio le ha restituito questa autoreferenziale, provincialissima, meravigliosa idea visionaria.