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Salvador Cabañas: il miracolato
02 mag 2014
La storia del più grande talento calcistico paraguaiano degli ultimi anni. Quasi morto, sfortunato, fortunato, miracolato.
(articolo)
14 min
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Itauguá, in America Latina, è conosciuta soprattutto (dovremmo forse dire esclusivamente) grazie a Salvador Cabañas. In questa suburra meridionale di Asunción sono passate, negli ultimi quattro anni, molte troupe televisive. Gli operatori riprendono il pinnacolo della cattedrale barocca, le villette a schiera stile coloniale, qualche vecchia intenta a decorare il suo ñandutí – il merletto tipico di zona, che somiglia a una ragnatela (durante il montaggio, in genere, viene aggiunto un tappeto di musica folk indigena; le carrellate sono rapide, da filmato promozionale dell’ente turistico). Qualche minuto più avanti (che nel montaggio si traduce in una decina di secondi: l’atmosfera musicale si incupisce, anche i colori sembrano più saturi), dopo qualche frame dedicato allo stadio Juan Canuto Pettengill, dove la squadra di casa è il 12 de Octubre (il club in cui Cabañas ha mosso i primi passi), siamo già nel barrio Sagrada Familia. Non un centimetro di asfalto. Strade di terra battuta rossa. Bananeti. Un campo di calcio senza linee, senza recinzione, dove le porte hanno a malapena la rete. Una manciata di ragazzini a piedi scalzi che si rimbalza un pallone. Le telecamere, a questo punto, indugiano su un cartellone pubblicitario sdrucito dal tempo.

È del 2010, della compagnia telefonica Personal. Tra la ressa della battaglia svetta un Maresciallo a cavallo, dall’espressione arcigna e imperiosa a un tempo. Ha i connotati dell’indio guaraní, sotto la giubba coi galloni indossa una maglia a strisce verticali bianche e rosse. Tutti, e non solo nel barrio Sagrada Familia ma ovunque in Paraguay, sanno chi è quel condottiero dallo sguardo fiero: Salvador Cabañas, El Mariscal. Poi da in fondo alla strada si comincia a intravedere la panetteria di famiglia, Salvador che ti si fa incontro con il pollice alzato.

Questa è la versione video di quella stessa pubblicità. Cabañas a cavallo dice: «Non sono arrivato fino a qua per morire agli ottavi di finale. Né ai quarti. Io voglio di più. Il Paraguay vuole di più».

El Chava (un vezzeggiativo di Salvador molto in voga in Centroamerica) ha giocato la sua ultima partita con il Club América, la squadra di Città del Messico, il 23 gennaio del 2010 sul campo dei Monarcas di Morelia. I telecronisti brasiliani l’hanno ribattezzato el gordinho: non è uno di quei calciatori che ti stupiscono per la fisicità scultorea. Bassino, la parvenza di qualche chilo perennemente di troppo, il baricentro basso: qualcosa di simile a Romario. Quando parte lanciato nello spazio, però, in velocità, Cabañas sembra un toro slegato nell’encierro di Pamplona. Pesante ed esplosivo a un tempo, e con un taglio di capelli discretamente chorro, da ragazzo del barrio. All’ottantottesimo minuto, con i suoi sotto di un gol, si avventa, tagliando centralmente il campo a partire dalla fascia sinistra, su un pallone scodellato verso l’area. Lo lascia rimbalzare tra il difensore avversario, che ormai ha seminato, e il portiere, poi lo carezza con l’esterno sinistro: la sfacciataggine di sfoderare un sombrero in Messico. La palla rotola in rete, lui esulta sorridendo e allargando leggermente le braccia, come quando si recita il Padre Nostro. Il guardalinee ha la bandierina alzata; la rete viene annullata per fuorigioco. Cabañas la prende tutto sommato bene. Allarga una smorfia sarcastica, poi si piega sulle ginocchia, le mani scompaiono dall’inquadratura: sembra si stia allacciando le scarpe, o stringendo il nastro intorno alle caviglie. E invece sta raccogliendo una bottiglietta di coca cola dall’area di rigore.

Al novantunesimo, mentre recupera il pallone per battere un calcio d’angolo, una bottiglia d’acqua lanciata dagli spalti lo colpisce alla spalla. L’ultima immagine che si ha del Chava Cabañas con la maglia delle Águilas dell’América è lui a terra, che si contorce per il dolore, la bottiglia di plastica pochi passi più in là, accasciata sul prato di gioco. Replay.

Gli ultimi cinque minuti di Cabañas da calciatore “vero”.

Quattro anni più tardi Cabañas indossa un paio di ciabatte da piscina, di quelle con lo strap: non fa più di dieci palleggi consecutivi. È imbolsito: la gamba è rigida, il piede non sembra sfiorare la palla con la giusta sensibilità. Cerca di bloccarla con il collo del piede, e gli scivola di lato. Rispetto alle immagini della partita contro i Monarcas di Morelia avrà preso quindici chili. Sembra nervoso, e molto teso. In un altro servizio, riprova il palleggio con lo stop conclusivo senza ciabatte; stavolta gli riesce. Ogni cosa che dice o fa sembra cadergli addosso apposta per trovarlo sorpreso. In un girato di diciotto minuti alza il pollice venti, venticinque volte. Ha un atteggiamento come dimesso, umile, sorride molto poco. Dice: «Non sono tornato in Nazionale, ma posso tornare da un momento all’altro». Racconta che una squadra brasiliana gli «ha fato un’offerta»: quattromila dollari per disputare con la loro squadra quattro partite. Alle sue spalle un cane color delle terre di Siena si confonde con l’arena rossa del cortile della panetteria. «Sono stato sul punto di ritirarmi dal calcio», confessa. Se il discorso scivola su questo potenziale trasferimento in Brasile, Cabañas ne parla con molta serietà. Anche suo padre, che nel frattempo l’ha raggiunto e spesso gli toglie le parole di bocca, appare entusiasta.

Nel gennaio del 2010 Cabañas è il calciatore più famoso, forte e atteso del Paraguay che si è qualificato, per la quarta volta consecutiva, ai Mondiali. Nell’anno precedente è stato il massimo goleador della Albirroja. Nel girone sudamericano di qualificazione ha segnato reti molto importanti: la seconda contro il Brasile, a Asunción, nello storico due a zero per i guaraní; e poi un gol strepitoso contro la Colombia, a Bogotà. È sulla fascia destra. Riceve un pallone teso, lo stoppa, lancia uno sguardo verso l’area di rigore. Tutti si aspettano il cross. Lui, invece, colpisce la palla con l’esterno del piede destro: ne esce fuori una conclusione dalla balistica imponderabile, che sorprende il portiere.

Non so perché ma il movimento che fa per calciare mi ha ricordato quello di certi giocattoli degli anni ’80, col busto rotante, che scattavano verso la direzione opposta a quella di carica con una forza uguale e contraria.

Nel gennaio del 2010, due giorni dopo la sconfitta dell’América contro i Monarcas, Salvador Cabañas decide di passare la serata in un locale di Città del Messico, il Bar Bar. Salvador ci va spesso: ogni volta si ferma per una foto, o un autografo. Quella sera, però, ha uno scontro con un cliente vip della discoteca, in cui volano parole grosse. Quel cliente si chiama José Balderas Garza, è un imprenditore del settore dei trasporti. Si fa chiamare JJ in giro, si legge hota hota con l’acca aspirata come i toscani aspirano le c intervocaliche, e il giro è dei più loschi. È famoso più che altro per i rapporti con la crème del narcotraffico messicano. Ed è un tifoso dell’América. Amareggiato per la recentissima sconfitta rimprovera Cabañas, per essere stato poco ficcante sotto rete a Morelia. Poi si spinge oltre. «Sei solo un egoista, perché non hai mai aiutato la gente messicana. Tu devi molto al popolo messicano». «Non sei umile, sei presuntuoso e non stai facendo altro che rubare il denaro». Cabañas gli risponde «io sto solo facendo il mio lavoro».

I virgolettati sono meramente esemplificativi: circolano molte versioni diverse del botta e risposta, ed è probabile che non sia andata del tutto così. Ad esempio JJ sostiene che Cabañas fosse ubriaco e che l’abbia aggredito; lo stesso Cabañas dice di aver pronunciato una frase tipo «tu chi sei per criticarmi?». Una versione senz'altro più educata di quella che verosimilmente può aver usato alle cinque del mattino in una discoteca.

JJ estrae una pistola dalla cintura.

«Cosa devo fare? Spararti?», dice.

«La pistola ce l’hai tu. Perché stai tremando? Vuoi spararmi? Sparami, allora», risponde Salvador.

Con JJ la psicologia inversa non funziona. Spara un colpo a bruciapelo alla testa. Negli interrogatori con la polizia JJ non ha mai negato d’esser stato lui, a sparare il colpo di pistola. Come vantandosi del suo codice d’onore.

Delle varianti del dialogo, quella che preferisco è quella in cui JJ sembra dica: «Chi sono io? Soy el hijo de la chingada que te va a romper tu puta madre», perché è piena di violenza del linguaggio e poi usa un’espressione, hijo de la chingada, sulla cui origine ha scritto alcune righe Octavio Paz nel suo Il labirinto della solitudine: el hijo de la chingada è il figlio bastardo nato dal rapporto senza amore tra il conquistador spagnolo e la vergine indigena.

In quasi tutte le interviste Cabañas mostra il Cristo che ha tatuato sull’avambraccio. Poi racconta «il giorno in cui m’hanno sparato in testa ho parlato con Gesù: mi ha accarezzato la fronte, dov’era entrata la pallottola, poi la faccia; mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto figlio mio, vattene che ti manca ancora tanta strada da fare, prima di venire qua». Poi si fa riprendere mentre, insieme al padre, prega nella cappella che ha fatto costruire nel suo barrio (qui, al minuto 7:00 Cabañas racconta il suo incontro con Cristo).

Cabanas con “El Chucho” Benitez, leggenda ecuadoregna, morto lo scorso luglio di infarto in Qatar.

La storia di Cabañas, per certi versi, somiglia a quella di Andrés Escobar, il calciatore colombiano protagonista di un’autorete ai Mondiali Usa ’94 e ucciso con dodici colpi di pistola qualche mese dopo. Entrambi, da sconfitti (anche se una partita del Clausura messicano non si può paragonare a un Mondiale), non hanno avuto timore di presentarsi in pubblico e sono incappati in una discussione sui loro demeriti in campo: sarà che anche il Messico e la Colombia, sotto un certo punto di vista, si somigliano. Escobar ha perso la vita; Cabañas è sopravvissuto.

Nei reportage su Cabañas non c’è molta originalità. A questo punto di solito subentrano dei riff di pianoforte malinconici, e la narrazione si concentra su quanto straordinario sia il fatto che Chava, in quattro mesi soltanto, sia riuscito a recuperare le sue facoltà psico-motorie fino a tornare a scendere in campo, con una palla tra i piedi e la pallottola ancora piantata nel cranio. Le parole più usate sono “miracolo” e “resurrezione”. La moglie, che era con lui la sera dell’attentato, parla con leggerezza e naiveté dei pannoloni che indossava quando non riusciva a controllare gli sfinteri. Lui è pentito d’essere andato a quel locale, del fatto che l’América abbia rescisso il suo contratto per “tenuta comportamentale antisportiva”: «Ero un calciatore professionista, cosa ci facevo alle due del mattino in una discoteca?». Il figlio Santiago, dice la moglie, non accetta il presente: la cosa che più vorrebbe è «poter tornare indietro ed evitare quella sera, cambiarla».

Un’altra frase molto bella di Octavio Paz, che sta nell’autobiografia Anch’io sono scrittura, recita: «Forse la storia non ha finalità né scopo. Il senso della storia siamo noi che la facciamo, e che nel farla la disfacciamo». Cabañas ha voluto che la sua storia fosse fatta (e disfatta) di miracoli, ha cercato un lieto fine che fosse lietissimo: stando così le cose, l’happy ending perfetto del “Mariscal” sarebbe dovuto essere una partita giocata allo stadio Azteca il 10 Agosto del 2011, primo tempo tra le fila dell’América, secondo tempo tra quelle del Paraguay.

Quel giorno, però, i compagni/avversari non lo pressano per davvero; lo lasciano giocare con calma, un atteggiamento caritatevole senza darlo però troppo a vedere. Lui è insicuro, impacciato. Sbaglia i fondamentali. Eh, uno dice, ma quattro mesi prima stava per morire. Cosa lo ha spinto, quattro mesi dopo, a essere già in campo? Forse c’era bisogno di una Resurrezione per giustificare (e in un certo modo sublimare) la Passione?

Daniel Montenegro è stato compagno americanista di Cabañas. Quando, prima della partita amichevole tra América e nazionale del Paraguay, ha preso la parola in conferenza stampa ha parlato di Cabañas calciatore usando sempre dei verbi, delle espressioni al passato: e poche volte ho sentito pronunciare la parola “allegria” con così poca allegria.

Quando una partita di bentornato è uguale a una partita d'addio.

«Ti trovo bene, Salvador», dice l’intervistatore di Nación ESPN. «Bene, fisicamente bene a parte che dal lato sinistro non vedo», risponde Cabañas. Lo ripete tre, quattro volte nel corso del servizio (siamo nel 2013). Poi dice: «Non mi sono ridotto a fare il panettiere nell’impresa di famiglia», con umiltà, ma non tanto per salvare la faccia quanto per mettere le cose in chiaro: lui è – si sente – ancora un calciatore. «Do una mano, lo faccio perché mi piace. Non c’è niente di più bello di stare con la famiglia.»

La sua casa è spoglia: le pareti dipinte di rosso, non ci sono porte, solo tende. I mobili sono vecchi e impolverati, il divano sul quale siede sembra troppo piccolo per una famiglia.

C’è un'altra video-intervista che somiglia in maniera mostruosa a ognuna delle video-interviste rilasciate da Cabañas negli ultimi quattro anni in cui indossa un cappello da baseball, le immancabili ciabatte intrise di polvere rossa. Ha in mano una zappa: «Cosa stai facendo Salvador?» gli chiede una voce fuori campo. «Sto costruendo la sala per custodire i miei trofei. Ho bisogno di molto spazio».

Cabañas non è mai stato troppo loquace; era un tipo che parlava poco prima delle partite, per cabala diceva; ma poi parlava poco anche dopo. Nel 2006 ha fatto parte della rosa paraguayana ai mondiali di Germania, anche se non ha giocato neppure un minuto – chiuso com’era da Roque Santa Cruz e Haedo Valdez. In quegli anni aveva reso San Cristóbal de Las Casas più celebre di quanto non fosse riuscito a fare il Subcomandante Marcos, giocando per i Jaguares de Chiapas. Il suo annus mirabilis è stato il 2007, il secondo con l’América di Città del Messico. In dieci partite di Libertadores ha segnato dieci reti. Negli ottavi di finale, a Santiago del Cile contro il Colo-Colo, ha timbrato il cartellino con una fucilata da quanto, trenta metri. È l’anno dei capelli raccolti in una lunga coda, della fascia, dell’esultanza con la scarpa in testa. È l’anno della finale di Copa Sudamericana persa per la regola delle reti segnate fuori casa contro gli argentini dell’Arsenal. Delle tre reti in 38 minuti complessivi giocati in Copa America (due contro la Colombia sconfitta 5-0, una contro gli Stati Uniti) partendo da riserva nel Paraguay guidato da Gerardo Tata Martino. Del Pallone d’Oro Sudamericano.

Si parlava di un interessamento del Manchester United. Lui si permetteva lo sfizio di andare a segnare una doppietta al Maracanã contro il Flamengo.

Cabañas al suo meglio.

Nel gennaio del 2012, a due anni dal colpo di pistola alla testa, il 12 de Octubre, la sua prima squadra, lo ha tesserato. In due anni è sceso in campo quattordici volte, mai per più di mezz’ora consecutiva. Immagino che per alcuni tifosi, quelli che lo avevano visto esplodere giovanissimo, guardarlo giocare così fosse una pena troppo grossa. Qualcosa di molto simile al concetto freudiano di “Unheimlich”, perturbante: l’angoscia e lo spaesamento di una scena familiare ed estranea allo stesso tempo.

A gennaio di quest’anno gli è stato dato il benservito perché “non è in condizione di giocare” (nel frattempo il 12 de Octubre è risalito dalla terza categoria alla Primera, la massima serie del campionato paraguayano).

Prima di essere messo fuori rosa, Cabañas si era sbilanciato: «Voglio provare a portare la mia squadra in Libertadores, e perché no a tornare in Nazionale».

A inizio aprile 2014, invece, ha deciso di accettare l’offerta del club brasiliano che gli aveva fatto un’offerta: è il Tanabi, milita nella seconda divisione paulista. Il presidente Irineu Alves non si capisce bene se sia un faccendiere in cerca di pubblicità a buon mercato, un filantropo, un dadaista o tutte queste cose insieme. Ha portato a giocare nel suo team vecchie glorie del calcio brasiliano, da Túlio Maravilha (un passato glorioso al Botafogo, mille reti in carriera, un principio di carriera politica tra le fila dei democratici) a Viola (magari qualcuno se lo ricorda nella finale mondiale di Pasadena nel ’94, subentrò all’inizio del secondo tempo supplementare); ora vuole provare a mettere sotto contratto anche Adriano. Gli sponsor della squadra sono supermercati, ortofrutticole, marche di bevande analcoliche. Se ne contano almeno quindici sulla maglia biancoverde. Per ingaggiare Cabañas, Irineu si è fatto qualche ora di macchina fino ad Itauguá. El Chava non era alla panetteria, era in viaggio in Cile per promuovere un campionato di calciotennis, e allora ha parlato con il padre. Si sono messi d’accordo.

Già sulla via del ritorno, Irineu è passato a fianco del cartellone pubblicitario della Personal. I venti caldi e la pioggia hanno lavato via i colori; el Mariscal, pur essendo ancora lì, non è già più lì. È diventato, negli anni, un ricordo sbiadito.

Indossata la nuova maglia Cabañas ha promesso che segnerà molte reti. Poi ha fatto un giro per la città su un autobus scoperto, salutando i tifosi.

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